giovedì 24 dicembre 2009

BENTORNATO MARX! RINASCITA DI UN PENSIERO RIVOLUZIONARIO



Nel film "Goodbye Lenin" la fervente socialista Christine, va in coma in seguito ad un infarto e ci resta per otto anni. Nel mentre, nel mondo intorno, avviene un mutamento epocale: la caduta del Muro di Berlino. Quando la donna si risveglia, i figli cercano di tenerle nascosto il fatto, in modo da non causarle traumi, e lo fanno creando finti telegiornali e generando un sistema di informazioni riportante fatti non corrispondenti alla realtà.
Nel libro "Bentornato Marx, rinascita di un pensiero rivoluzionario" scritto da Diego Fusaro ed edito da Bompiani, si racconta invece l'esatto contrario, seppure a differenza di quel che riguarda il film sovracitato, in questo caso si tratta di una condizione che ci tocca realmente e da vicino.
Karl Marx viene considerato il "grande escluso" della storia, continuamente messo a tacere nell' ipnotica cantilena che dichiara il capitalismo come unico sistema possibile ed accettabile, e che sostiene addirittura che questo sia sempre esistito: il filosofo del "Capitale" viene spacciato per sepolto.
In questo libro, difatti, si trovano neologismi come Marx-fobia o Marx-latria, atteggiamenti considerati entrambi come il seguito di un fraintendimento grossolano.
Nel primo caso, il ripetersi della litania “Marx è morto” sarebbe da pensarsi come una sorta di esorcismo operato ripetutamente per liberarsi di un elemento estremamente scomodo per il sistema, quasi che lo “spettro” di Marx (per citare Derrida) ossessioni davvero questi paladini del Mercato.
Dall'altro lato c'è invece quell'orientamento che fa coincidere Marx con il comunismo sovietico, e che quindi tende ad associare al filosofo i vari gulag, le grandi purghe, i piani quinquiennali, Lenin, Stalin etc etc.
Fusaro si pone una domanda ironica quanto vera: perché non si ripete allo stesso modo che sono morti filosofi come Kant e Cartesio?

Molto interessanti sono inoltre le pagine in cui le categorie proprie del pensiero di Fichte, (dove all'io viene assegnato il ruolo di trasformatore del Non-io) vengono associate alla concezione propria del Materialismo storico, dove i mutamenti avvengono mediante la prassi, la trasformazione della natura da parte dell'uomo; non meno importanti risultano essere quelle pagine in cui si parla di “feticismo delle merci”, processo per cui l'uomo così come diventa devoto al Dio generato dal suo intelletto, tale diventa nei confronti di quegli oggetti che sono prodotti dalla sua fatica.
Fusaro pensa, sostanzialmente, ad un Marx più che attuale.
In un periodo storico in cui lo stesso liberismo si scontra con i suoi peggiori difetti, e in cui tanto si parla di crisi, viene riproposto il pensiero di un filosofo che troppe voci “post-moderne” hanno voluto dimenticare per sempre, facendoci credere che la storia sia finita e che da ora in poi l'unico destino che ci spetti sia quello dell'economia politica, in un costante e immutabile piattume.

La sentenza che l'autore ritiene degna di considerazione risulta in conclusione essere questa: non si tratta di ritornare a, ma piuttosto ripartire da Marx.

Luca Atzori

mercoledì 2 dicembre 2009

SUPERSTIZIONI DI WOLPERT


Sei cose impossibili prima di colazione (le origini evolutive delle credenze) scritto da Lewis Wolpert, ed edito nel 2008, deve il suo titolo a un episodio tratto da Attraverso lo specchio di Lewis Carroll:

Alice rise: “È inutile che ci provi”, disse; “non si può credere a una cosa impossibile”.
“Oserei dire che non ti sei allenata molto”, ribatté la Regina. “Quando ero giovane, mi esercitavo sempre mezz'ora al giorno. A volte riuscivo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione”.

Il discorso che tenta di fare l'autore ruota intorno all'argomento della credenza, visitato in ogni sua sfaccettatura (i capitoli del libro presentano titoli come: Vita Quotidiana, Animali, Religione, Paranormale, Salute...).
La tesi di cui sono vestite queste 210 pagine, sembra essere quella secondo cui l'atto di credere in cose assurde sia connaturato nell'uomo, a un livello addirittura genetico. Quasi non si possa far nient' altro che credere.
L' "impossibilità" più premiata nella storia dell' evoluzione sarebbe, secondo Wolpert, quella del concetto di causalità (che già Hume e Wittgenstein consideravano come una mera superstizione).
L'importante è solo non caderne vittime.
Wolpert sembra quasi considerare la credenza come un'arma a doppio taglio. E' si una sorta di dono concessoci dalla natura, ma si corre tuttavia il rischio di trovarselo davanti come un padrone ingannevole, senza che ci si sia minimamente accorti dell'accaduto. Ed è proprio di quella disattenzione che l'autore si lamenta dalla prima fino all'ultima riga.
Il libro potrebbe essere considerato come un vero e proprio elogio della lucidità (inserito all'interno di un manuale dell' arte di credere).
Certo però, lo stile argomentativo, presenta alcune debolezze.
L'utilizzo che l'autore fa di una teoria come quella evoluzionistica, appare infatti come una sottile "maglia posta sulla realtà" (per non dire che risulta essere alle volte addirittura un po' ridondante).
Può certo essere letta con una lente ironica, seppure non riesca ad emergere in superficie l'intenzione autentica. Resta piuttosto quell'ombra di uno stile diaristico.
Tutto sommato piace anche a noi "credere" che l' autore abbia voluto, in qualche maniera, pensare ad un qualcosa di veramente impossibile (magari proprio prima di andare a fare colazione), e che magari ci abbia creduto al punto da non essersi accorto neppure un po' di essere diventato un vero e proprio devoto.

Luca Atzori

venerdì 27 novembre 2009

OBLOMOV


Il romanzo "Oblomov", scritto da Ivan Goncarov nel 1859, risulta essere un Classico più che attuale.
Oblomov è un personaggio caratterizzato da una pigrizia patologica, abituato a osservarsi e osservare vivere, senza agire mai direttamente, evitando di essere causa di qualsiasi mutamento fisico e sociale nel mondo che lo circonda. L'unica attività che lo occupa è quella del suo rapporto con il servo Zachar (e il discorso vale reciprocamente).
Tutto questo fino al momento in cui la cantante lirica Olga non gli dona la forza di risvegliarsi, dimenticarsi di sé, portare la propria attenzione su una persona, dunque sul mondo attorno, risvegliando in sé la vita e assopendo il sempre (distratto) vigile occhio del sognatore.

Ma è un'illusione che si solidifica in breve tempo. Ciò che ama Oblomov è, infatti, un sogno... un sogno meraviglioso. E' composto da una sequenza che si ripete nei loro racconti spassionati, fra alberi di betulle e rami di serenelle.

Oblomov immerge la sua nevrosi in un luogo onirico appena realizzato. L'unica argomentazione diventa la Possibilità stessa dell'amore, e così all'infinito, per non andare mai oltre.
Quello che possiede Oblomov è un potenziale inattuabile. Ciò che Olga gli ripete è che l'amore è un Dovere (tutto ciò che egli rifugge con rigore).

Rigore è una parola chiave. Proprio perché la condizione del protagonista è quella di un nevrotico. La malattia dell'anima alla continua ricerca di rituali, di azioni dotate di significato. Azioni che rispettino i loro stessi riflessi onirici.
Nevrosi spesso salvifiche, quando i fiumi stanno per straripare.
La possibilità diventa quindi preponderante. Il solo esempio di realtà pensabile.

Oblomov è in sostanza autenticamente intimo e la sua inerzia è quella di chi sia pienamente immerso nella propria storia soggettiva, e che per ciò stesso ricopra un campo di respiro molto più ampio, inadatto alle azioni quotidiane prive di significato, intessute in una rete di perenne compromesso.
Oblomov è la personificazione della purezza e del sentimento. Inetto e impossibile.


Luca Atzori

venerdì 6 novembre 2009

CONSIDERAZIONI SULL'ATTIMO PREISTORICO

Quando ci si trova a filosofare intorno all'attimo, non si può intenderlo se non come un evento che stia al di fuori del senso, ed infatti a tal proposito consideriamo la vita come un unico attimo, in una permanente pre-istoria.
Quando dico la parola attimo, intendo il " momento dell'atto", lo stesso che veniva inteso da Aristotele come realizzatore di qualcosa.
Aristotele usava il termine "entelechia", che significa compiutezza, perfezione, e che venne utilizzato in seguito dal filosofo Leibniz in riferimento alle sue monadi, le quali avrebbero dovuto ricavare la loro unità nient'altro che da se stesse.

L'attimo, dunque, è una monade.

Usiamo qui la parola "preistorico" nel suo senso più letterale, ovvero come antecedente la Storia.
Tutto ciò che è Storico, è tutto ciò che di falso c'è sempre stato; questo lo diciamo intendendolo nel senso in cui avrebbe potuto Adorno con il suo celebre aforisma "il tutto è falso".
Falso perché conseguente a una rielaborazione, e quindi ad una una ricostruzione di quell' atto, il quale di per sé non potrebbe possedere ragioni ulteriori (per nessuna "ragione" al mondo).

L'attimo è impalpabile e inconoscibile, e come tale è il vero noumeno.

Quando noi usiamo il linguaggio, incontriamo quel qualcosa che nell'attimo non potremmo in alcun modo comprendere, e questo è il senso.
Il senso si rende manifesto solo ed esclusivamente nella significazione (la quale dona sé stessa a partire da sé stessa), e quindi nella sfera Storica e rimemorante, ci troviamo davanti ad una continua lettura ermeneutica, da cui in ogni parte vengono scorte le componenti di nuovi sensi, in un processo infinito.

Ogni fenomeno, come punto di vista, viene preso, considerato e reso tale in ogni angolazione possibile per la Coscienza.

Mi sovviene quella rilettura che fece Carmelo Bene del testo di Alfred de Musset "Lorenzaccio", in cui nella frase finale il protagonista, che aveva meditato e organizzato in tutto il dramma l'uccisione del duca Alessandro, dopo aver compiuto l'atto dice "non nego la Storia, ma io non c'ero" estromettendosi totalmente dal campo dell'azione.

La Storia, dunque, non è nient'altro che una ri-scrittura della memoria e dei suoi vuoti.

Facciamo caso che l'umanità abbia avuto inizio esattamente come accade per la vita di un essere umano. Immaginiamoci un' umanità neonata, dotata di una pura volontà, e per ciò stesso incorrotta. Un'umanità piangente e desiderante.
La volontà di potenza, meglio intesa nella rilettura di Deleuze come affrancamento totale dall'io, e non come brama di dominio e prevaricazione.
Ebbene quell'umanità non possiederebbe alcun senso, e questo sin dal principio (alla faccia di ogni assurdità metafisica).
Dopodiché arriva la scrittura, dunque la registrazione, il ricordo. Ci si "migliora". Si inventa un metodo... (ogni metodo funziona come inganno). Ci si trova fra le mani una Storia.
Ma che cos'è questa Storia?
E' sempre nient'altro che Storia di Altro. Non può essere mai, infatti, la Nostra Storia (anche perché quel Nostro è sempre posseduto da Altro).
Per questo l'attimo rimane sempre identico a se stesso, e come tale sempre pre-istorico: perché dall' atto, ogni qualsiasi interpretazione dotata di senso, non può esserle pensata in alcun modo conseguente.

La Storia sta all'attimo, come l'io sta al soggetto.

Così, quando Nietzsche farneticava intorno all'eterno ritorno, intendeva forse dir questo: che non vi è mai stata una Storia, e che ogni attimo è sempre il medesimo. Tutto il resto è una grande Narrazione che utilizziamo al fine di essere artefici della nostra evoluzione, in attesa di quel giorno in cui finalmente potremmo dirci "fortificati", ed essere totalmente gettati nel regno ineffabile e indicibile dell'atto, fuori dal segmento già compiuto che si rende manifesto nell' inizio e nella fine.


Se "la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa", alla terza i gentili signori saranno pur molto stanchi.

Luca Atzori

martedì 29 settembre 2009

NULLA MANCA, O TUTTO?

L'Essere è equivalente al Pensiero. Non è possibile, cioè, pensare ciò che non è, proprio perché se tutto ciò che esiste risulta essere ciò che è, allora proprio perché è esso è l'unico oggetto di pensiero, non è possibile dunque che lo si possa non pensare.
Questo è il nucleo più sostanziale del pensiero di Parmenide, con il quale, secondo Aristotele, ha inizio la Vera Filosofia.
La prima domanda che il filosofo di Elea si pone, è questa: Che cosa c'era prima di quest'essere? forse il nulla?
La sua conclusione è che non sia possibile pensare che l'essere derivi dal nulla, in quanto esso sarebbe generato e corruttibile, e in tal caso non possederebbe le caratteristiche che presenta; difatti l' Essere va considerato come ingenerato, eterno, statico, e non può in alcun modo tornare o venire dal niente.
"L'Essere è a contatto con l'Essere".

Il Nulla, invece, non è possibile nemmeno pensarlo, perciò non è. Da qui la sua famosa affermazione: "L'Essere è e non può in alcun modo Non Essere, e il Non Essere non è e non può in alcun modo Essere".
A una prima lettura, questa frase potrebbe apparirci come tautologica. In effetti lo è, proprio come lo sono i grandi assiomi matematici.
Piuttosto, però, bisogna considerare come centrale l'identità che c'è fra Pensiero ed Essere, e che fa in modo che sia possibile pensare solo ciò che è, e non ciò che non è.

"Tutto il mio genio è nel mio naso" diceva Nietzsche. Ed infatti, il pensiero è reso possibile da questa capacità che noi abbiamo (in quanto animali) di "fiutare" quel qualcosa che c'è davanti a noi. Ma attenzione, dobbiamo qui considerare la centralità del ruolo trascendentale dell'Essere e non dunque ad una possibilità di giungere alla cosa fuori dal nostro pensiero.
L'Essere si manifesta solamente nel pensiero, e viceversa.

Da qui arriviamo al concetto di Ananke. Ananke è una parola greca che significa "necessità", e più precisamente indica una divinità che tiene immobilizzato l'Essere, rendendolo immutabile.
Tutto ciò che è, risulta essere deterministicamente necessitato. Non è possibile infatti pensare l'Essere come manchevole di qualcosa, perché in tal caso sarebbe "manchevole di tutto".
Ananke impedisce, dunque, che l'Essere sia Altrove, facendo in modo che esso sia esclusivamente qui.

E' forse possibile ripensare l'Essere ribaltando la teoria Parmenidea nella concezione di Gorgia secondo cui invece Nulla esiste?
In effetti, che cosa vuol dire Essere? Le cose a cui io attribuisco l'Essere, esistono davvero tutte? Che differenza c'è in fondo fra un qualcosa di fisico e tangibile, un ente immaginario come il cavallo alato, oppure un ente sociale come l'amicizia, o il bacio, etc.
Posso prendere in considerazione la possibilità che un bicchiere che io veda posizionato su un tavolo davanti ai miei occhi, in effetti, esista nello stesso modo di come esista il fantasma formaggino?
Se non ci fosse stato il concetto di Essere, infatti, non avrei potuto considerare l'esistenza di nessuno di questi enti. Forse che dunque il concetto di Essere è una nostra follia. Un vero e proprio delirio. O una più semplice sofisticazione di quello che prima era solo fiuto (anch'esso, di per sé, strumento trascendentale) .
Gorgia sosteneva che nulla esistesse. Cioè con questo intendeva più precisamente che la parola e il verbo che noi utilizziamo, non indicano qualcosa che esista fuori di noi, e quindi in realtà non possiamo comunicare nessun Essere di nessun oggetto, ma solo proferirlo, o "cantarlo".
Da qui la famosa affermazione di Heidegger: "Il linguaggio è la casa dell'Essere".
Effettivamente tutto ciò che è (pensabile), risiede unicamente nella nominazione.
Perciò è giusta l'equivalenza fra Essere e Pensiero, ma solo, appunto, nel terreno della nominazione. Di per sé fuori del Verbo Essere, non è possibile pensare a nulla di esistente. E l'Essere stesso non va pensato come ente (altro fraintendimento Parmenideo su cui si è concentrato Heidegger), ma come una ineffabile luce che non fa che donare esistenza alle cose (come il fulmine Eracliteo). Per questo la necessità che Parmenide relegava all'Essere, è nientemeno che quella catena che ci lega a questo verbo, senza il quale, effettivamente nulla sarebbe.
L'Essere è semmai, nient'altro che un folle gioco, e come tale dotato di "vita" propria.

Luca Atzori

giovedì 24 settembre 2009

HIPSTERS E RADICAL CHIC: DUE PATOLOGIE A CONFRONTO


Anche l'Italia si è popolata, negli ultimi anni, di una nuova ondata sottoculturale conosciuta con il nome di Hipsters.
Prima di spiegare di che si tratta, dobbiamo però operare una distinzione categorica fra questa e quella dei cosiddetti Radical Chic.
Bisogna precisare innanzitutto che glli Hipsters non possiedono alcun retroterra politico.
Non si incontrano cioè nei salotti al fine di conversare a proposito di rivoluzione o gareggiare su chi è il più dotto conoscitore di Lukacs, Sartre, o Kundera.
Gli Hipsters sono veri e propri monaci del trend.
Gli autori letterari di cui potrete piuttosto sentirli parlare saranno i vari Ballard, Palahnuck, Murakami etc
Certo potrebbe trarci in inganno quel lato così rivoltoso che trapela dal loro look composto spesso di scarpe anni settanta, pantaloni strettissimi (che nelle donne arrivano sempre rigorosamente fino ai polpacci), magliette strette e occhiali da studente americano appassionato in entomologia... eppure spesso l'attività che meglio prediligono è piuttosto semplice: cioè starsene seduti sui loro divani a guardare film francesi noiosissimi dai contenuti triti e ritriti, miscelati con programmi tv di seconda categoria, quali reality, amici di maria etc, con l'intenzione di "analizzare la società" ( modo che hanno per dirti che sentono un forte bisogno di assecondare la propria lobotomia).
L'attività che condividono più spesso è ballare musica rock and roll, mista a canzoni trash degli anni ottanta di "grandi icone" come la Carrà. Tutto quello che inseguono in tutto ciò è la frivolezza più pura, la leggerezza marchiata e privata di alcuna comprensione ulteriore, se non quella del veleno che vogliono spargere e succhiare.
Quel che contraddistingue questo stile di vita è proprio l'ossessivo pescare e ripescare in tutto ciò che di più disgustoso sia apparso negli ultimi cinquant'anni, e farne una vera e propria Moda.
Così, fondamentalmente per distinguersi, per fare in modo che gli "altri" (quei temibilissimi mostri) li notino senza porsi troppe domande. Un anticonformismo accettato, perché superiormente conforme.
Diversi sono invece gli altrettanto numerosi radical chic. Spesso più che benestanti, sono misti fra due personalità. Una è quella agente e che nessuno vede ma che tutti conoscono (sulla propria pelle), ed è quella più malvagia. L'altra è quella parlante, moralizzante, politica, schierata con una certa e specifica sinistra educativa, antipatica e snob che tutti detestano ma al contempo ammirano con profonda devozione. Un esempio di figure radical chic sono certamente il regista Nanni Moretti, la modella parlante Beatrice Borromeo e il (seppure più rispettabile) filosofo Gianni Vattimo.
L'unico ruolo politico che hanno risulta essere quello di compensare al loro senso di colpa, e mantenere saldo il bell'aspetto del ceto medio dal quale essi stessi provengono.
Hipsters e Radical chic, sono spesso assai confondibili. Seppure i primi siano in un certo senso più ingenui e al contempo più spietati, mentre i secondi più efferati e malintenzionati, e al contempo più innocui.
Gli Hipsters, difatti, provengono spesso da qualsiasi ceto sociale. Rappresentano la più perfetta degenerazione dell' "edonismo reaganiano". Una perfetta selezione in cui il regime estetico imperante si fa sentire a discapito di ogni qualsivoglia pretesa di possedere una qualche ombra di sostanza (o un più modesto parto d' esperienza sofferta).
Infatti, ciò che distingue i due sotto-generi di cui sopra, è che gli uni non hanno alcuna pretesa ideologica, se non quella della ricerca assidua di un' elegante purezza che si confonda misticamente con la spazzatura della loro essenza immiserita, mentre invece gli altri possiedono ben due ideologie, una l'opposta all'altra (ed entrambe deleterie se non superflue).

Perché?
Pigrizia del ventunesimo secolo?
Oblomovismo (condiviso). L'oblomovismo dell'era del face...(bah).
L'epoca di chi dichiara un volto che possa permettergli di nascondersi (e dimenticarsi), pur restando in forma (seppure informando).
Un' etica/estetica nicciana in questo caso totalmente priva di alcuna tensione verso qualsiasi dove, e per ciò stesso malata se non addirittura mortale.

Luca Atzori

sabato 1 agosto 2009

EDUCARSI AL SILENZIO


Nella poesia di Camillo Sbarbaro intitolata "Taci anima stanca di godere" tratta dalla raccolta "Pianissimo" del 1914, il discorso si colloca direttamente su un piano esistenzale, a segnare la condizione di chi incontri il confine della propria volontà, come limite di quello stesso Io che nel suo confinarsi annulli sé nel medesimo oggetto che doni luogo alla sua soggettività.
L'anima (con cui il poeta dialoga) è stanca, e lo è sia della gioia che della sofferenza, poiché entrambe gli si presentano dinnanzi al volto esattamente con lo stesso abito, offrendogli lo stesso effetto, che si manifesta solo più come remoto.
Sbarbaro è uno Spiritus Lenis incapace di compiere scelte, proprio perché consapevole di quanto ciò sia in sé un atto impossibile, e forse inseguito inadeguatamente proprio perché dietro quella "nolontà" si nasconda la ricerca disperata di una speranza in un nuovo barbaglio di vita ( occasione, per dirla con Montale).
Ma credo, in realtà, che ogni genere di emozione la quale sia pensabile poeticamente, venga coscientemente annullata dal poeta stesso, dirottato ormai in un sentiero dove non si scorga alcuna meta da raggiungere, ma solo più una camminata compiuta nell'avanzo del suo cammino ridotto ad essenza più propriamente compiuta.
Fra il poeta e la sua anima, dove l'uno è il consolatore e l'altra che ancora cerca di mettere luce in quella zona che in egli, invece, deve scomparire, il conflitto viene vissuto e si dichiara come un'autentica aporia. Il poeta vuole cancellare ogni forma di ricordo, ogni forma di senso, di sentimento, così come ogni legame con il passato che ormai non assume più alcun ruolo, né giustifica più alcuna sua azione.
E ogni oggetto ritorna ad essere puramente ciò che è, senza che sia possibile leggerne simbologie fra le superfici. Il poeta dichiara la fine di ogni simbolo, di ogni storicità, e ogni incantamento. Le sirene hanno perso la voce, e non è più possibile lasciarsi ingannare, avere motivo di odiare o amare la vita, proprio perché questa si mostra ai nostri occhi con il suo vero volto, in questo caso di Gorgone.
Insomma non c'è più quella separatezza che incontravamo fra amante e amato, nella poesia romantica, ma insieme ora si fondono nella verità dell'ineluttabilmente certo, da ora a ieri a domani, in quell'unica esigenza di dire un'ultima parola, ahimè indicibile se non sfuggita.
Nell'ultimo verso, sembra infatti scappare dalla penna del poeta l'ombra di un contenuto di volontà.
Quello che ritrova, e di cui egli stesso fa parte, è il deserto dove ogni spasimo e ogni gioia appaiono come miraggi e dove si hanno come uniche oasi le false certezze, o i cari inganni.
Il deserto che continua a riposare sulla nostra attualità, e che muove a bruciare, quanto più sia possibile, ogni manifestazione di soggettività, la rende tale proprio perché questa è stata, nel nostro immaginario cronologico (storico e culturale), vissuta completamente, risolta, come un romanzo che ora si chiude.
Anche se ahimè in noi restano il tempo e lo spazio, ci resta ancora il nostro respiro, la nostra anima, che ancora e sempre vorrebbe sussurrare qualcosa, e che siamo tenuti a fare tacere perché anch'essa si adegui a quella pace agghiacciante e mistica in cui siamo costretti ad agire.
Il poeta, dicevamo, è pervaso dalla volontà di ri-cercare (e ricreare) l'essere. Guardando con asciutti occhi se stesso, e non guardando più al nulla delle cose, non poggia lo sguardo in maniera totalmente rassegnata e al procedere quasi funereo delle cose, ma piuttosto lo riporta verso se stesso dove non incontra che una tenebra che lo costringe a immaginare.
Come scriveva Flaiano, dando voce a un personaggio felliniano:
"non bisognerebbe chiedere che quest'atto di lealtà: educarsi al silenzio."


Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all'uno e all'altro vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato...
Invece camminiamo, camminiamo
io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore non si tocca.
Perduto ha la voce la sirena del mondo,
e il mondo è un grande deserto.
Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso.

martedì 28 luglio 2009

QUANDO TUTTO SI MOSTRA NUDO


La critica postmoderna afferma che tutto sia nientemeno che "estetizzato", e qui bisogna precisare che non si intende che lo sia diventato, bensì che lo sia sempre stato. La logica del progresso (o meglio, della sua narrazione) ha portato all'omologazione di ogni individualità in un'unica entità: un nuovo ente perfettissimo, dotato di puro complimento ontologico, privo di alcuna storicità, quel simulacro miticamente profetizzato da Jean Baudrillard in "lo scambio simbolico e la morte". La quidditas di questo ente è da rilevarsi nientemeno che nel confine che riscontriamo fra il suo "essere" e il vuoto, ovvero nel mondo, inteso per dirla ad esempio con Wittgenstein, come tutto ciò che accade.
Il tutto si è "onticizzato", e non ha più importanza quali siano i contenuti del suo discorso, ma solo più quali e come siano fatte le sue superfici.
Siamo giunti finalmente a quell'ambito traguardo del non sense, inseguito tanto dai logici di ogni tempo, e l' egemonizzante tecnica, divenuta totalizzante, costringe colui che necessiti di liberarsi da questa trappola di specchi, a prendere coscienza della più tragica delle solitudini, riguardante da vicino colui che è stato gettato in mezzo alla palude accompagnato da poche saggezze, magari raffazzonate, alla ricerca di una voce che si distingua dalle grida.
La civiltà narcotizzata ha dimenticato la misura di ogni "sogno di autenticità", divorato dalle chimere che noi seguiamo ancora con i nostri sguardi trasognanti. Siamo noi i cittadini della Nuova Bisanzio, seguiamo un numero infinito di traiettorie accostandoci in maniera asintotica al punto meridiano, l'abissale occhio che giudica nientemeno che la qualità, nell'indeterminata e costante evoluzione materiale.
L'assioma è crudele, e dice che nulla, oramai, possiede il merito di attenzioni davvero serie; ogni filosofo, come ogni artista, sono diventati parte di un grande spettacolo in cui tutto si presenta nudo di fronte agli occhi di tutti, e non è più immaginabile elevarsi, tocca piuttosto "pensare" di districarsi.
Considerare che l'essere è così perché è così. Diventare noi, oggetti divini.

Sara vero?

Luca Atzori

giovedì 23 luglio 2009

PORNOGRAFIA E SESSO, FETISH E MODA, VERITA' E AMORE.


" Dell'erotismo si può dire, innanzitutto, che esso è l'approvazione della vita fin dentro la morte." G.Bataille


Il porno e il fetish appartengono, rispettivamente, a due sfere distinte, le quali si oppongono quasi completamente l'una dall'altra, ma che tuttavia spesso risultano essere addirittura confondibili.
Il porno non è nient'altro che la rappresentazione delle verità concernenti il Sesso, mentre invece il Fetish mette in mostra soltanto una devozione totale per ciò che riguarda l'ambito della Moda, che con il sesso, come è facile intuire, non ha proprio niente a che vedere. Eppure siamo abituati sempre più a includervi il mondo del glamour, così come quello dello spettacolo, presentandoli come sfaccettature rappresentative della sessualità, includendo in essa concetti come quelli di Seduzione, Strategia, Inganno, Bellezza, Eleganza etc etc
Ma con il sesso, e con esso (seppure in sede separata) l' amore, non si rappresenta assolutamente l'insieme che comprenda questi elementi. Siamo abituati, spesso, a considerare come necessario il rituale di incantamento, contraddistinto in occhiatine, parole dolci, contraddizioni, atteggiamenti e varie galanterie di ogni sorta. Perché avviene questo? Forse perché abbiamo bisogno di riportare e tradurre su un piano "sociale" quello che è il nostro desiderio sessuale, così da ufficializzarlo in piccoli gesti e parole che ci permettano di renderci amabili agli occhi della persona desiderata. Ma questo processo a che cosa porta? porterà ad innamorarsi dell'altro? oppure porterà ad un più misero incantamento rivolto a quell'immagine apparente mostrata (avente sede nella zona spettacolarizzata dell'immaginario "pre-imposto")? E questo riguarda, certamente, non solo i rapporti a breve termine, ma soprattutto i lunghi anni di matrimonio trascorsi spesso con un compagno o una compagna che ci rendiamo conto esserci stati sempre e totalmente sconosciuti.

Il primo è il caso dell'apparenza e il secondo quello dell'autenticità.
Nel primo caso vediamo rientrarvi tutti quei fenomeni di attrazione rivolti a uno stile, un modus vivendi, o un particolare nell'altra persona (che può essere addirittura il mestiere che questi svolge, come spesso avviene). Nell'altro caso invece è da considerarsi come la più totale devozione verso l'altro. La più totale consacrazione reciproca di due esistenze, inclusi i lati peggiori di entrambi. Cioè la più totale Verità del desiderio.
Perché una simile verità possa esprimersi, c'è bisogno che essa però venga espressamente pronunciata; venga, in sostanza, resa manifesta innanzitutto verbalmente. Nel caso della Pornografia cinematografica (quella più comunemente frequentata) abbiamo la visione di immagini raffiguranti corpi nudi, organi genitali e varie penetrazioni. Nel caso del Fetish, invece, si ha un caso di devozione sovrasensuale indirizzata non più verso la persona, intesa carnalmente e quindi comprendente gli odori, la pelle etc, ma verso un'immagine sublimata che vede l' utilizzo di un oggetto usato al fine di veicolo, e che ci riporta primariamente l'importanza di quel modo in cui ci appare la donna, o l'uomo, e non tanto del modo in cui essa è. Quella che provoca in noi eccitazione, diventa, dunque, la totale devozione che mostriamo di avere verso la Moda, intesa come un terreno neutro, privo di identità, impersonale, il quale sovrasta la nostra stessa Vita fornendo invece una totale priorità alla Merce in sé, e alla sua simbolizzazione. Questa è chiaramente la forma più degenerata di ipocrisia borghese, in cui siamo educati a chiudere gli occhi davanti alla nostra verità più animale e dove ci è concesso di aprirli per bene verso quella sfera, per l'appunto sovrasensuale, propria dell'apparenza. Facendo questo, viene ad accadere una totale disidentificazione con noi stessi. Quello che noi riconosciamo come il nostro volto è quello che ci viene propinato dalle mode, e i gesti che assumiamo sono sempre circoscritti entro un campo determinato di possibilità le quali rispettano un ferreo rigore rituale, una liturgia sociale, imprescindibile in certi casi.
Così avviene che non siamo più capaci di esprimere i nostri desideri. Avviene che ci nascondiamo dietro frasi che portano appresso il servile rispetto per quell'identità che siamo costretti a mostrare socialmente, per essere ritenuti il più possibile accettabili dagli altri. Avviene, in sostanza, che diventiamo vittime di una feroce mistica feticistica in cui il soggetto viene totalmente eclissato e in cui viene messo in primo piano il ruolo dell'oggetto inteso nel suo senso più generale. Si diventa servi di quegli atteggiamenti e quelle abitudini senza le quali non potremmo essere socialmente utili. Ci si abitua a innamorarsi di questi gesti, di queste scarpe, queste gonne, questo sorriso, questa battuta etc.
Tutto ciò non fa però che soffocare in maniera disastrosa la nostra stessa vita. Avviene, in sostanza, che l'inganno sembra essere diventato addirittura necessario.
Guy Debord scriveva nel suo "La società dello spettacolo": tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una sola rappresentazione. Tutto ciò crea quindi un profondo sradicamento dell'uomo da se stesso. Un inesorabile allontanamento dell'uomo dai bisogni della vita, trasferitasi nel bisogno di denaro. Lo stesso Debord userà come citazione una frase di Hegel a proposito del denaro inteso come la vita di ciò che è morto, moventesi in se stessa.

Il Porno ha forse oggi qualcosa da mostrarci? nella teoria dovrebbe provocare in noi un'emozione autentica, proprio perché dotata di una singolarità e non contenente in sé i riflessi di meta-letture legati a ricordi personali (di chi?) o storico-culturale. Nella pratica si ritrova anch'esso incastrato nelle dinamiche della società dello spettacolo.
Il Fetish può essere invece considerato come la più totale degenerazione del sovrasensualismo, educante alla devozione sentimentale rivolta verso una forma trasfigurata e subimata di oggetto di desiderio, avente la sua sede nella moda e non in una precisa essenza umana verso la quale ci si abbandoni.
E infine possiamo considerare la sfera sentimentale come un miracolo che si renda possibile solo nel più totale svelamento del vero, e che quindi necessiti di una più completa nudità piuttosto che di una serie di menzogne che servano da nutrimento per un ente morto avente vita meccanica, così come richiesto dalle Istituzioni Statali.
Insomma finalmente intenderemmo l'Amore come la forma più completa di Oscenità, cioè di quella zona tanto spaventosa, proprio perché da troppo tempo siamo stati abituati a considerare il Vero come il male peggiore da combattere.

Luca Atzori

venerdì 26 giugno 2009

APOLOGIA DEGLI SBANDATI

Nel suo saggio Teoria del partigiano, Carl Schmitt traccia una netta distinzione fra la figura del combattente regolare e quello irregolare, dove la prima intende significare i soldati vestiti con l’uniforme, sottostanti a regole impartite dai superiori responsabili, giustificati insomma dallo Stato e l’ordine costituito, mentre la figura del partigiano è definita invece come irregolare, proprio in quanto non porta addosso alcuna uniforme o segno distintivo, ma è piuttosto mossa da un’ ideologia politica di cui sente di far parte, e che è anzi primaria sostanza del suo partito (da cui riscontriamo l’origine etimologica del termine, appunto, di partigiano, partisan). Ma la caratteristica più importante che ritroviamo nell’analisi condotta da Schmitt, è proprio quella fatta a proposito del Carattere Tellurico, cioè del ruolo che il combattente ha di difendere il proprio territorio invaso, la propria terra, il proprio nomos.
Qui potremmo riconnetterci con quel concetto di politico (caro a Schmitt) che si articola nella distinzione di amico e nemico.
Il partigiano dovrebbe essere colui il quale si difenda da un invasore, e dunque da un nemico (reale). Questa inimicizia, però, sostiene lo studioso, è diventata per alcuni (Lenin, Mao etc) assoluta, cioè contraddistinta da una demonizzazione intrinseca delle diverse figure che si pongono apriori in conflitto con gli elementi dell’ideologia di cui il combattente si fa portavoce. Esito ne è che l’irregolarità del partigiano diventa costretta a regolarizzarsi, cioè a usare l’uniforme, e dunque ad assumere non più il solo ruolo di difesa, ma anche (e in particolare) quella di attacco, proprio in quanto il nemico assoluto va combattuto a prescindere dal fatto che esso invada o meno il territorio. Facendo questo, però, non ci si accorge di essere approdati fra i tentacoli di quel famigerato Leviatano, che prima di ogni altra cosa desidera che le sue prede restino immobilizzate, donando loro l’illusione del dono d’ una sorta di quiete permanente. L’esito è che se ne resta incantati.
Il Leviatano è lo Stato posto al di sopra di ogni libertà.
Esso è un regolatore automatico.
Ogni qual volta la lotta partigiana incontri la quiete, essa si china di fronte al compromesso, incontrando quegli abiti che si è costretti ad indossare per rendere legittima la propria guerra. E ogni guerra è legittima solo in quanto assecondi i rapporti di forza che sussistono fra i vari Stati e le nazioni, dove proprio quella dimensione della terra, o anche del “bosco”, Wildnis per dirla con Junger, sono totalmente occultate. Da ciò ne segue che anche il ribelle e il partigiano vedono stringere sempre più il proprio campo d’azione, le proprie possibilità, proprio perché quell’ideologia che muoveva la loro lotta, è stata minimizzata in un sentimento più primordiale e non abbisognante di giustificazione alcuna: la rabbia.
Sede della lotta, è dunque oggi l’atto il quale non abbia da essere spiegato. Proprio perché il campo che più d’ogni altro vediamo essere invaso, è quello della vita, unico territorio che ci si ritrovi ad essere legittimati a difendere.
Non vi sono più occhi che possano tacciarci di qualsivoglia infamia, o controllare le nostre azioni, poichè noi siamo finalmente s-velati sulla nostra zattera, mentre ci imbattiamo nella tempesta, morsi dalla peste, deliranti di quel sentimento caritatevole, che purtuttavia rimane crudo.
Oggi bisogna solo più addestrarsi a lottare incessantemente, senza desiderare di sostiuirsi ad alcun governo. La lotta partigiana italiana, divenuta un semplice simbolo (causa repubblica democristiana), necessita di continuare a svolgersi, severamente, accettando un unico possibile approdo, cioè la morte, proprio in quanto l’unico territorio che essa difenda è la vita stessa, che è come un riflesso del partigiano stesso: mobile, irregolare, svestita, e soprattutto necessariamente sbandata.

Luca Atzori

sabato 13 giugno 2009

FENOMENOLOGIA DEL SODOMITA


La sodomia è in sé una forma di negazione della stessa sfera sessuale intesa nel senso più naturale del termine. Essa può essere pensata come una forma di tensione “(anti) erotica” totalmente mirata ad un’esaltazione culturale.

La sodomia (etero e omo) va intesa come la più totale negazione dell’erotismo stesso.

Una seria distinzione deve essere fatta fra la sfera del sesso che, seppure non indirizzato alla procreazione, resti mossa da un desiderio e una pulsione naturali, e quella che invece è una sfera meramente Culturale, dove anche l’erotismo viene meno e ci si trovi su un altro piano: quello della Neutralità oscena.

Ora giustamente mi si dirà, il gay, o comunque il sodomita, non son certo “uomini di cultura”, in virtù delle loro preferenze sessuali. Questo è chiaro, ma quando intendiamo tali elementi, piuttosto li consideriamo nel loro senso più generale, quasi ne facessimo una fenomenologia.

Il culo è sempre stato l’oggetto delle considerazioni del libertinismo, più degli organi genitali e tanto meno di tutte le “situazioni” erotiche di derivazione prettamente femminile. L’interesse che i libertini descritti da De sade, provano per la sodomia, è mirato non tanto a una tensione erotica di conquista, godimento etc, ma piuttosto come un veicolo di “neutralizzazione” della propria stessa identità, e per ciò stessa davvero Culturale, filosofica e contronaturale.

Così come nella “Storia dell’occhio” di Georges Bataille, dove la protagonista Simone non vuole assolutamente essere penetrata in altre parti se non nel suo culo, in quanto considera che le altre maniere debbano essere riservate alle madri e ai padri.

E in questo c’è da considerare un punto di fondamentale importanza. Quella che Deleuze nell’Anti-Edipo chiama la Macchina Desiderante, è quanto stia fuori dal meccanismo della “Catena di Montaggio”, (l'inconscio -es- piscia, caga, mangia e fotte) fuori della trasmissione, fuori della essenza sociale, fuori dal tessuto storico, si è in quel tempo che lo stesso Deleuze nella “Logica del Senso” riporterà in piazza direttamente dalle tracce dello stoicismo, e cioè l’Aion. Esso è quel tempo inteso a definire la condizione in cui non esista presente, ma esistano solo passato e futuro, e che dunque consista nell’ istante più impercettibile, impalpabile, fuori della memoria e dalla scena, per l’appunto: Osceno.

O meglio, intenderemo dunque la zona che non è nemmeno possibile visitare, dove anche il sesso diventa l’ accesso dell’essenza inconscia, portata fuori da ogni qual si voglia schema identitario, ogni moda, ogni tessuto morale e culturale, ogni qualsivoglia forma di nominazione, ogni coscienza, fuori dall’uomo, dalla stessa natura, fuori dallo stesso fuori e dunque dalla possibilità di un dentro.

Essere divini (e questo anche i pagani lo sapevano benissimo) significa trovarsi in quella condizione di totale sovrapposizione da ogni collocazione spazio temporale. Per questo la sodomia, intesa come l' atto più anti erotico, nega assolutamente lo stesso atto sessuale, sovvertendolo.
Precisiamo: non trasgressivo, non s’intende cioè, una violazione di norme, ma la totale negazione, l' oblio, il superamento di esse, mediante la incanalazione della propria energia su un piano che non è quello della normale libido, ma le è piuttosto, totalmente parallela, oltre che sublime specchio (e al contempo ad essa complice avversa).

Luca Atzori

giovedì 11 giugno 2009

CRISTIANESIMO E CANNIBALISMO

Il cristianesimo, in particolar modo nel sacramento dell’eucarestia, è la più effettiva “burocraticizzazione” del cannibalismo.

Per rendere possibile l’argomentazione di questa mia sentenza, è necessario che si introducano qui i due concetti di eucarestia e cannibalismo.

La prima è il perno attorno cui ruota tutta la cerimonia cristiana. La parola trova la sua derivazione etimologica in eucharisto (che significa rendere grazie), e indica quel sacramento il quale venne istituito da Cristo, secondo quel che viene narrato nei vangeli. Più che un rituale può essere inteso come una vera e propria regola. Durante l’ultima cena Cristo offre il pane e il vino in sacrificio, come corpo e sangue di cui i discepoli si nutrono (simbolicamente).

Dico che è una regola e non un rituale, proprio perché non è l’incontro di persone e l’evocazione accompagnata da gesti specifici a rendere possibile il miracolo, ma questo avviene per ciascuno, viene vissuto passivamente in quanto è stato fissato, svelato, eternizzato (burocraticizzato, appunto).

Il cannibalismo, invece, avviene soprattutto come rituale. È stato ed è ancora presente, il fenomeno, in diverse culture (soprattutto fra gli indiani d’America). Durante le battaglie, gli indigeni di queste tribù, frequentemente avevano l’abitudine di mangiare la carne del proprio nemico, dopo averlo ucciso, al fine di ricavarne la forza, in quanto credevano che l’anima risiedesse nel corpo stesso.

Ora, qual è, più precisamente la differenza fra il rituale e la regola?

Il rituale ha bisogno di essere accompagnato da gesti e azioni che permettano che si realizzi il fine. Ma quel che in esso si genera, nonostante gli atti ripetuti siano sempre i medesimi, è accidentale. Sono gli uomini a far si che questo conservi il suo valore. Mentre invece la regola è fissata in una sorta di codice, e non sono gli uomini a generarla, ma è essa a costituirsi antecedentemente o meglio indipendentemente dall’uomo.

Che cosa succede dunque nell’eucarestia? Cristo trasporta il suo sangue e il suo corpo, su un piano ideale, simbolico, e per far si che questo avvenga dona ai suoi discepoli il pane e il vino. Questi, in tale circostanza cerimoniale, ne daranno il valore che Cristo avrà loro segnato, ma lo faranno grazie alla transustanziazione, ovvero a quel miracolo per cui pane e vino conserveranno solo accidentalmente la loro apparenza, mentre la loro sostanza effettiva andrà a coincidere con quella divina per l’appunto. E c’è dunque un’eternizzazione del corpo e del sangue. Ciò sta proprio a significare questo, ovvero quel che Gesù fa è un dono: quello dell’eternità dell’anima.

Poi avviene la crocifissione, ove il nemico è pubblico e ha scelto di non lottare. Subisce solo. Facendo questo fa dono a tutti gli uomini della sua salvezza.

Ma analizziamo meglio... i discepoli mangiano il pane e bevono il vino, proprio perché questi significano corpo e sangue (pur non essendo tali); ma se l’ultima cena fosse consistita nell’atto di sbranare il maestro da parte dei discepoli, di certo non avremmo riscontrato l’eucarestia. Questo poiché trasportando su un piano trascendente quella che è la materia umana, si genera appunto un sacramento. E quello che Cristo compie è propriamente un sacrificio, in quanto egli genera un qualcosa di sacro, e per far questo si priva di qualcosa, ovvero della sua stessa vita, e la trasporta verso Dio. Quel sangue e quel corpo sono doni che vengono offerti a Dio, e quel che resta agli uomini è solo l’elemento simbolico. Così ogni qual volta noi partecipiamo al sacramento dell’eucarestia, in realtà ci nutriamo dello spirito santo, e dunque ci appropriamo di quella forza che appartiene a Cristo, la quale è per l’appunto trasportata su un piano spirituale, e dunque eterno, proprio perché non ha bisogno di un gesto perché avvenga (come appunto cibarsi del proprio nemico).

Cristo segna dunque una distinzione fra due mondi: quello celeste e quello terrestre.

L’analogia di cui potremmo servirci è quella della banca, in cui non sono realmente conservati i nostri averi, ma sono piuttosto registrati, ed esistono dunque solo su un piano astratto, convenzionale.

Per questo il cristianesimo è la burocraticizzazione del cannibalismo: proprio perché ha donato la stessa carne e sangue, dunque la vita, l’ anima dell’uomo, a Dio, il quale non viene più identificato con la stessa sostanza umana. Il cannibalismo, che è effettivamente una delle prime e maggiori forme di cultura (proprio perché con esso si ha una “colonizzazione” dell’Altro) viene sostituito con una dottrina che fa diventare quest’Altro il trascendente stesso, portando perciò nell’uomo la speranza di un’altra vita, imprimendo questa come una vera e propria norma eterna.

Luca Atzori

IL SESSO DEGLI ANGELI (Considerazioni sulla prima Elegia Duinese di Rilke)

Si inizia con un grido mancato, la dichiarazione di un eco strozzato nel pieno della visione di un mistero metafisico (ricorrente nel procedere pensante in Rilke). Un incipit che richiama alla condizione umana, alla sua limitatezza, al suo (sostanziale) essere povera cosa.
Rilke utilizza la figura dell'Angelo, del messaggero, dell'ente dotato di compiutezza ontologica, paragonabile ad una fotografia, estraneo alla temporalità, il quale lascia all'uomo la sua condizione di soggiogamento al divenire (specifica del suo esserci), e già conchiuso in sé, senza progetto, ma rivelato e imploso, in poche parole paradossale.
Così pure come nel libro delle immagini (sempre di Rilke), vi è la lirica Annunciazione dove al contrario l'Arcangelo Gabriele, persosi nella terra dice a Maria: "Lo spazio mi ha vinto" (e dicendo questo perde il suo messaggio nella dimenticanza). San Giovanni della Croce parlava di "luce tenebrosa e tenebra luminosa", l'unica macchia di senso che di per sé può essere considerata come il più esemplare abbaglio di non-sense.
La bellezza è inizio del tremendo proprio perché superficie di quell'impensabile e irrapresentabile, nel quale non è riscontrabile strumento alcuno che costituisca un elemento utile alla progettualità umana.

L'uomo che spera di veder provenire una risposta dalle "labbra" dell'Angelo, invano. Lo sguardo non può che rivolgersi verso il mondo quotidiano, verso quell'albero qualunque, l'uomo, il suo mondo.
E poi Rilke parla della Notte, dove fa entrare gli innamorati, che nient'altro fanno se non "celarsi la sorte l'un l'altro".
La sorte di cui si parla è indubbiamente la morte, dalla quale gli amanti cercano di fuggire dimenticandone la inesorabile realtà. E questi si perdono, difatti, nell'illusione di cadere l'uno nell'altro.

I Santi si avvicinano a Dio non solo fuggendo dalle cose terrene, ma ricercando nella perdita di sé la vera interiorità, il regno dell'immanenza, l'innocenza animale.
Perdita, perciò, del concetto di Storia, di Memoria, così come gli angeli che non possiedono un "telos", e che non muovono in alcuna direzione i loro gesti (non sanno, appunto, se vadano fra vivi o fra morti).
Lo stesso vale per ogni forma di teologia: in esse si possono fornire domande irrispondibili, questioni aperte, e non si possono articolare risposte, se non in forma dogmatica, come nella religione cosiddetta "cattolica" che significherebbe "universale".

Come cercare di rispondere alla domanda: qual è il sesso degli angeli?

Luca Atzori

MASOCH L'EDUCATORE


Leopold Von Sacher Masoch è stato uno scrittore austriaco vissuto nella seconda metà dell’Ottocento. Il suo nome è noto principalmente per essere entrato a far parte della terminologia psicoanalitica a indicare la patologia di chi gode nel ricevere dolore (masochismo). Certo è che in realtà i suoi meriti sono ben altri: il suo talento letterario ad esempio, i bellissimi romanzi in cui descrive quella che è stata poi catalogata come una delle più serie perversioni, descritta come l’unica forma di amore da egli conosciuta.

Nel suo più famoso romanzo La venere in pelliccia, si narra proprio di questa storia amorosa “contrattuale” che egli visse con l’aristocratica galiziana Fanny Pister Bogdanoff nel 1869, anno in cui per sei mesi egli si comportò a tutti gli effetti come un autentico schiavo, sotto accordo, pregando la crudele compagna di indossare solamente una pelliccia durante i loro rapporti sessuali.

Fanny (Wanda nel romanzo) come tutte le altre donne descritte da Masoch, è un’ immagine divina, manifestazione della più tremenda e celata natura, demone elegante che ogni lusinga in eccesso tramuta in bestemmia. Ella è, essenzialmente, una madre che esige di essere adorata.

L’inizio del loro rapporto avviene contrattualmente, come giustamente fa notare Gilles Deleuze nel suo Presentazione di Masoch, a differenza della meccanica sadica in cui il carnefice istituisce egli stesso le sue leggi.

Quello descritto da Masoch è l’uomo pensatore, l’intellettuale, colui che vive rinviando e che dunque non vive, o almeno lo fa a metà. Colui che ha bisogno di andare contro la natura perché questa gli si manifesti. Le donne di Masoch, difatti, non sono mai completamente svestite. Lasciano trasparire i loro corpi dietro pellicce, stivali, indumenti di pelle, accompagnate da fruste e altri feticci.

Quella che noi siamo abituati a denominare con il termine Masochismo, era dallo stesso scrittore indicata come una dottrina avente il nome di sovrasensualismo, ovvero come sublimazione dell’amore negli oggetti, un rigoroso movimento contronatura che vede prediligere la sfera “onirica” a quella reale: “munirsi di ali” come dice Masoch, sospendere cioè gli atti per riportare l’attenzione della vittima verso un’immagine irreale, un fantasma o una statua, una sorta di fotografia, che potremmo benissimo confrontare con l’Angelo descritto da Rilke nelle Elegie Duinesi: tremendo e indifferente. Ed effettivamente la vittima può essere paragonata benissimo al poeta che arrivando alla piena consapevolezza della sua incompletezza contro la perfezione ontologica dell’angelo, prova una sorta di estasi, che si manifesta nel suo stesso canto.

Così è per Masoch: il suo essere sottomesso insegue la ricerca dell’estasi (ec-stasis, l’uscire fuori da se, l’assoluto districarsi). Ma l’unico mezzo che conosce per permettere che questo avvenga, è proprio quello dell’educazione totale di sé, la punizione, una correzione talmente totalizzante da provocare per paradosso l’effetto opposto, ovvero quello della più pura corruzione, l’esito più Santo e per ciò stesso Osceno.

L’esempio più assoluto di personaggio masochista, è proprio quello di Gesù Cristo, che arriva a farsi uccidere pur di mutare se stesso in spirito.

Un’educazione, quella di Masoch, mirata al trasmutamento della propria sensualità, che lo porti a desiderare di far parte di quel riflesso che vede di se stesso allo specchio, per essere pari ad un’opera d’arte, essere cioè annullato nella perfezione estetica.

Deleuze fa difatti notare inoltre come il masochista sia sostanzialmente un esteta, a differenza del sadico. E in tutto questo discorso si ruota principalmente attorno all’Amore, ovvero a questo propulsore che permette di avvicinarsi a quella figura eterica e che porta al mutamento, facendo questo, della materia stessa. L’amore inteso, dunque, come gesto più spietatamente anti-naturale. L’amore freddo, indifferente e dunque effettivamente più reale e al contempo divino.

Luca Atzori

COGITO ERGO EST

Tutta la storia della metafisica ruota attorno ad una questione fondamentale, ovvero quella concernente l’Essere. Il primo che si pose tale problema fu Parmenide di Elea, che con la sua celebre frase “l’essere è e il non essere non è” segnò l’alba di quella disciplina che ancora porta il nome di Ontologia (cioè discorso sull’Essere).

Premesso questo, potremmo iniziare col porci un primo quesito di fondamentale importanza: perché farsi domande sull’Essere?

Una risposta l’ha fornita Aristotele sostenendo che gli uomini se lo domandino perché ne sentono l’emergenza della meraviglia.

Meraviglia si, ma di cosa? Forse del fatto che tutto esista? A tale proposito possiamo citare la famosissima domanda di Heidegger che dice: perché l’essere e non piuttosto il nulla?

Quando ci troviamo dinnanzi a questa verità, diventiamo consapevoli di non poter in alcun modo andare oltre l’Essere, o più precisamente oltre il pensiero dell’Essere.

Pensiero che teoricamente dovrebbe essere posseduto dal soggetto pensante, per l’appunto. Ma è forse vera la celebre affermazione cartesiana che dice Penso e dunque sono? (Cogito ergo sum).

L’essere nostro dunque oltre quello delle cose?

Ma io vorrei ribaltare questa concezione. Quando noi diciamo che il bicchiere “è” sul tavolo, che cosa intendiamo? Fuori dalla nostra percezione, e dunque fuori dal nostro linguaggio, QUEL bicchiere E’ realmente sul tavolo? Piuttosto l’oggetto del nostro interesse è forse quella cosa che noi chiamiamo bicchiere, oppure è la stessa parola che nominiamo? Ma ancora, è più scottante il fatto che quel bicchiere SIA, oppure che cos’altro?

Qui determiniamo un punto di centrale importanza, ovvero non tanto quella dell’Essere delle cose, ma piuttosto del Verbo Essere stesso. Fuori di esso, in effetti, di che cosa si può dire che esista? E’ addirittura impensabile che qualcosa vada fuori dal verbo essere, poiché questo include tutto, o meglio tutto si include in esso. Ma dunque quella distinzione fra soggetto e oggetto, può essere ancora forte? Il soggetto in relazione all’oggetto, si ma l’essere stesso del soggetto pensante, è anch’esso un pensato, dunque è oggetto di pensiero. Tutto ciò che è pensato è oggetto. Tutto, anzi, è oggetto.

Ogni qualvolta noi usiamo il linguaggio, diciamo qualcosa che non è quel che vorremmo dire, ma è quel che diciamo. Dunque il linguaggio, in un certo senso, ci precede.

E considerando dunque il concetto di Esserci (Da-sein), se si è compreso che quest’ essere non va più inteso come semplice presenza, ma solo più come una "lampada", allora possiamo andare ben oltre il concetto di Esserci. Difatti Heidegger sorpassò la sua analitica dell'esistenza e dell'Esserci per giungere (con la Kehre) al concetto di Gelassenheit, ovvero di abbandono. Abbandonarsi all'essere e cioè imparare l'ascolto.

Piuttosto che di Dasein, dunque, io credo che noi si debba introdurre un altro termine di fondamentale importanza, ovvero quello di Sosein (Essere-così). Ovvero è centrale il fatto che le cose siano così, e con esse anche l’E’ delle cose. Cioè tutto ciò che è, E’ così perché E’ così. E quel che a noi deve interessare è che le cose siano come sono. Il fatto stesso che le cose siano dette tali, è perché noi le pensiamo in una sfera che è propria del verbo Essere.

Noi siamo abituati, ahimè, a sottovalutare fortemente la forza e il potere del pensiero. Poiché troppo spesso gli abbiamo assegnato un valore morale, un compito etico, assegnandoci quel Sartriano engangement, composto in realtà di soli riflessi su riflessi di riflessi di senso. Il linguaggio raffigura i concetti e gli oggetti e lo fa più o meno, pressoché, a grandi linee, giù per lì, su per giù. l mondo sta infatti, soprattutto nel linguaggio, e tutto ciò che accade lo fa nel mondo.

Per questo bisogna usare piuttosto che Cogito ergo sum, il detto Cogito ergo est; e con esso non intendiamo dire “penso dunque quel qualcosa è”, ma piuttosto diciamo che penso dunque E’, o meglio se io penso è perché vi è quell’è. Penso dunque Verbo Essere, in caso contrario non vi sarebbe pensiero. E non si può pensare ad un principio di ragion sufficiente di quell’essere, perché esso mantiene in sé la sua Aseità. E’ dunque il pensiero a donare l’essere alle cose. E l’essere a rendere possibile il pensiero stesso.

Luca Atzori

MANIFESTO 7



Dettatomi in data imprecisata di una notte di dicembre del 2006 da voce sconosciuta.

Testimone: Lorenzo Peyrani.

I: Non esiste meta per gli officianti, o per chiunque di coloro stia attentando al vivente con conoscenze che abbiano avuto il coraggio di arrogarsi le molteplicità.

II: I nomi non sono più i vostri scudi. Questo per la selezione, e per l'onore della fantasia.

III Ogni opera d’arte è simile e il simile è abolito: esiste solo l’unicità. Nessuno dunque osi essere qualcuno, pena gli scudi, perciò il castigo.

IV Ogni melodia la chiamiamo lacrima di gommapiuma, sale delle giornate degli stolti.

V- Guai!

VI- La notte è il nostro giorno e gli occhi della donna sono lanterne.

Otto: Nessuno guardi negli occhi nessuno, affinché uno solo sia l’occhio visto.

IX- Respiro appeso alle stelle: unico vero gioco di libertà.

X- D’ora in poi tutte le altre leggi sono il seguito, nonché il segreto.

GLORIA E VITA ALLA NUOVA CARNE!






Il titolo che abbiamo adoperato è l’inconfondibile esclamazione di Max Rennt, protagonista del film Videodrome di David Cronenberg, del 1983. Egli è il proprietario della Civic Tv, un canale specializzato nella trasmissione di programmi a contenuto pornografico e violento.
Dal momento in cui questi entra a contatto con un canale pirata che trasmette solo scene di tortura a sfondo prevalentemente sessuale, tutto comincia a mutarsi nell’angosciante vicenda di un’ esistenza ai limiti del reale. Il nome del canale è Videodrome.
Il professor Oblivion, il quale Max incontra in un Talk show, si rende visibile solo dietro uno schermo televisivo. Egli viene a scoprire che questi in realtà è morto da ben un anno, e sopravvive solo più dietro l'immagine mediatica.
Inizia così una scalata verso un labirinto che provoca il mutamento (per l’ appunto) nella stessa carne di Max come nella sua stessa mente.
Cronenberg si ispirò, per il personaggio di Oblivion, a Marshall Mc Luhan (noto sociologo e studioso dei media il cui motto era “il mezzo è il messaggio”).
Il film ci mostra difatti un processo di evoluzione segnato dalla manipolazione che i media operano sulla carne e sulla materia. Il protagonista si ammala di una malattia degenerativa che lo porta ad una progressiva plasmazione avente come demiurgo l’impenetrabile mondo della tecnologia.
Lentamente diviene una vera e propria lotta, la quale (volendo) può essere paragonata all’evoluzione creatrice di Bergson. La coscienza del protagonista tenta in ogni maniera di svincolarsi da questo degrado, seppure avendo perso completamente il centro d’orbita del sé, ritrovandosi affacciato ai molteplici universi percepiti da un punto di vista prettamente oggettivo.
Videodrome segna dunque il trionfo dell’oggettivazione più pura. La condizione nella quale l’uomo si fa definitivamente oggetto, lasciandosi divorare completamente dal messaggio televisivo. Questo poiché come diceva Wittgenstein il mondo si scopre essere effettivamente solo più tutto ciò che accade (nello spazio logico).
Ma la realtà mediatica è molto più definita, pronta, bella e infiocchettata. E' così che gli oggetti mediatici si manifestano al punto che la carne non è in grado di reggerli, ritrovandosi così costretta alla mutazione, o meglio al cammino verso l’inorganicità.
Il lato più tremendo di questo film, è che il regista non vuole mai suggerire la sua visione etica della faccenda, ma descrive solo una condizione ineluttabile verso la quale effettivamente si va muovendosi progressivamente, ovvero la compenetrazione dell’uomo con l’inferfaccia digitale e la sfera tecnologica. La sfera del virtuale che va così confondendosi con quella reale. Che cos’è la realtà in fondo se non uno stato di cose? E come possono le cose esistere se non senza una relazione? Dunque qualsiasi relazione fra esse genera per forza un mondo, rendendo tutto assolutamente possibile e nulla vero.
“La televisione è la realtà e la realtà è meno della televisione” dice Oblivion.
E internet? Abbiamo trovato forse una realtà più reale ancora della televisione?



Luca Atzori

ALLE PARVENZE STESSE




Con falso disinteresse Monsieur Aion scruta i suoi occhi posarsi sopra ogni superficie che incontri. Vediamo il suo sguardo disperdersi nell’aria come farebbe una polverina ombrosa, la quale quasi sembra confondersi con i richiami dei cani per la strada, interferenti o meglio dire viventi: ed è questa la sua condanna.
Chiunque è destinato in fondo ad un indirizzo di pensiero, forse fin dall’infanzia; o forse ciascuno ci si ritrova destinato, pateticamente, in passerella sulla scacchiera della Storia.
Ogni vecchio sistema, e ogni nuovo anti-sistema, sono compresi in questa tela statica e morbida che per sempre rimarrà salda, e per quanto forte sia il nostro tentativo di distruggerla, dell’atto noi vediamo rimanere solo più la traccia, aggiunta ai mille veli pietosi.
Qualcuno oggi si domanderà, molto teneramente, a quale ruolo possa ambire un artista, e credo che prima di offrire la tautologica risposta ( e appunto per questo impronunciabile) bisognerebbe ritornare all’origine della parola “ruolo”. Che cosa si intende con un simile termine?
Se davvero volessimo rispondere a questa (in fondo insulsa) domanda dovremmo cessare di considerare ogni ente come l' abitante sublime di un terreno inesplorato, una wildnis jungeriana murata dalla fortezza delle convenzioni sociali;
Come quel che si affronta ogni qualvolta si naufraghi nel problema dell'essere: incontriamo sempre una o mille parvenze di esso, che vanno manifestandosi nelle sembianze della politica, della moda, dell’arte, della poesia, della scienza, la storia e via elencando. Ogni qual volta si ritorni al problema del verbo essere, ci si ritrova riemersi in un magma di cecità e s'illuminano le parvenze.
Viviamo una fase (fortunatamente) così antistorica che non si è più capaci di vedere nulla preso da parte, ma tutto può essere preso come pezzo del motore della macchina-uomo, non più qui presente, e non più lì passata. Quel che ci resta da fare oggi è certamente “imparare dai classici” ma degustandoseli ri-considerando gli autori solo più come medium e non come profeti di una nuova alba ideologica, o segna strada, psicopompi pronti a camminare con noi verso la crescita di strutture sbagliate in sé (ad esempio quella universitaria).
È necessario iniziare un addestramento maturo, misurarsi con i tempi prossimi, conoscere e fotografare davvero il presente.
Arrivare alle cose stesse? meglio dire alle parvenze stesse. Senza per questo lasciarsi trascinare completamente da debolezze post-moderne e ontologie varie dell’attualità.
Muoversi come spie, non più come un professionisti. L'ossessione delle affinità elettive, in mezzo al triste mare della volgarità.
Essere superficiali dall'abisso dell' interiorità fino all'eternità.

Luca Atzori

JULIUS EVOLA: APOLIDE DELLO SPIRITO (ANTIDEMOCRATICO)




Nel 1917 Julius Evola venne richiamato alle armi, e fu in quell’ anno che egli cominciò a scrivere il saggio Fenomenologia dell’individuo assoluto (il quale verrà completato più avanti nel 1924 e pubblicato poi nel 1930).
In quest’opera si configurano due vie che il filosofo intende delineare nella modernità: una è quella dell’altro e l’altra quella dell’individuo assoluto.
La via dell’individuo assoluto è tema centrale nell’opera Evoliana.
Riportiamo un brano tratto dal testo in questione:
«Saper gittare via tutto, sapersi portare alla disperazione – questa, come si è detto, è la prima condizione per una tale via. È l'esperienza precedente: la «Grande Solitudine», il deserto senza luce in mezzo a cui l'Io deve consistere, mediante una forza che egli deve assolutamente creare dal nulla. Di là da ciò, la «prova del Fuoco».
Permettendo una breve premessa a proposito della “via dell’altro” possiamo definirla una situazione basilare, necessaria, in quanto poiché possa avvenire in senso definitivo lo svuotamento di cui sopra, e si renda non solo impellente ma addirittura imperativo il riacquistamento di sé, quello dell’altro è una primaria gabbia la quale dev’essere però un cardinale punto di partenza.
Si giunge intuitivamente a prendere in considerazione l’analogia fra la via dell’altro con quella della mano destra, e quella dell’individuo assoluto con quella della mano sinistra. La prima è quella dell’etica, della morale, la fedeltà alla propria natura (Svadharna), mirata al conseguimento dell’unità con Dio. La via di chi accetta la propria finitudine relegandosi al mondo e le sue leggi per inseguire l’integrità morale, la totale purificazione. L’altra invece (Vamacara) legata alla distruzione, al culto di Siva, lo svincolarsi dunque da qualsiasi norma e qualsiasi limite morale e ontologico, per giungere alla definitiva liberazione (Moksa), mediante la più totale dissoluzione.
Per analizzare meglio la via dell’individuo assoluto dobbiamo innanzitutto chiarire che cosa intendiamo con “individuo” e cosa con “assoluto”, termini i quali posti accanto l’un l’altro potrebbero addirittura risultare tautologici; l’individuo, si presuppone difatti che sia unico, dunque non poggiato su alcunché, e assoluto (di cui cioè il significato è analogo). Chi insegua una tale via, dunque si muove verso la totale unione con l’Universo. Ma perché questa possa avvenire, non è possibile concepire la propria identità come ancora valida secondo una prospettiva puramente etica, rivolta cioè alle pretese dell’altro (il quale sminuirebbe naturalmente la totalità del proprio Io). Bisogna dunque distruggere, frantumare la propria identità, per giungere a quella seconda nascita (essenziale perché incominci un’effettiva iniziazione). La perdita totale di un “punto d’appoggio nel sociale”, è l’inizio di quella che in alchimia viene chiamata l’Opera al Nero, la nigredo. Da lì si rende possibile realizzare la Volontà di Potenza. Nella lettura che Heidegger aveva fatto di Nietzsche, questa veniva più precisamente chiamata Volontà di volontà. Cioè è dopo esser giunti alla più totale impossibilità di intenzioni, alla noluntas Schopenaueriana, per l’appunto, che può insorgere una nuova volontà (la quale dona nella sua eterna ripetibilità il senso di tutto l’universo). Questa è parte essenziale dell’individuo assoluto il quale nel suo cammino di liberazione (Mukti) si svincola dalle leggi del tempo e del dolore.
Evola avrebbe indicato tale via addirittura come necessaria, seppure pericolosa. Suggeriva di muoversi nella nostra civiltà moderna seguendo quell’antico detto taoista che esortava a “Cavalcare la Tigre” (titolo di una sua opera pubblicata nel 1961). Anche per questo lo spirito ne risulta si ritrovi sempre in contrasto con il sistema democratico. Non sono i molti a dover generare una coscienza (padrona), ma è l’unico semmai, il singolo, a dover essere padrone Assoluto di se stesso. Evola, antidemocratico par exellence, in lotta contro la massificazione, l’involgarimento, la barbarie dell’uomo obliquo. Evola antimoderno. Evola aristocratico. Evola che fa storcere il naso agli accademici. Eccetera.
Luca Atzori

LA FANTASIA

Il mistero supremo dell’universo
L’unico mistero, tutto e in tutto,
è che ci sia un mistero dell’universo...

F. Pessoa


Esiste una connessione fra le cose anche quando queste non sono fra di loro in diretto rapporto. Il nome del fenomeno mediante il quale è possibile che questo processo avvenga è noto a noi come fantasia, termine che ha la sua origine nella parola greca φαντασία (mostrare). Lo stesso pensiero dona il senso, si potrebbe dire che fondi il processo immaginativo, così come il mondo stesso.
Esiste però un forte distacco fra queste due capacità umane, che ha toccato il parossismo nell’era della religiosità tecnica. Siamo divenuti, senza troppo rendercene conto, vittime di una bizzarra malattia che io denominerei bipolarismo razionale, ma che più comunemente viene detta Nevrosi. I sintomi mediante il quale esso avviene, sono tanti, anzi troppi. Oserei dire che ogni nostro minimo gesto il quale faccia la sua comparsa durante la quotidianità, possa essere preso ad esempio. Si potrebbe comunque riscontrare, all’origine di tutto ciò, una non-conscia tendenza perenne a rispecchiare negli oggetti la nostra stessa immagine, attribuendo ad essi una pseudo sacralità che inevitabilmente porta la nostra vita a nascondersi, o forse addirittura perdersi, in un’interiorità sempre più abissale.
È chiaro, questo non avviene certo perché vi sia una carenza di pensiero tecnico o scientifico, ma bensì, proprio perché questi sono eccessivamente tenuti in considerazione. Ma qual è la facoltà che tanto noi ignoriamo? Essa è proprio la fantasia. Il motivo di tale indebolimento è semplice: è andato perdendosi il senso del vivere rituale. Esso è andato smarrendosi innanzitutto in quanto il legame fra uomo e terra s’è definitivamente spezzato.

Molti di coloro che oggi vogliano definire una qualsiasi capacità della mente di figurarsi immagini, considerano queste come una manifestazione dei più svaccati gesti di libertà dell’uomo . Il loro tanto “libero” gioco, però, consiste nel connettere mondi differenti e paralleli, senza che fra essi ci sia una vera analogia.
E' necessario ritrovare il legame dell’uomo con la propria dimensione, prima di tutto materiale, poi emozionale, intellettuale, e sessuale (legate fra loro olisticamente).

Ebbene oggi non è con la critica che vogliamo togliere via le polveri, né con il progresso, ma bensì, per l’appunto, delucidando quel che ancora continua a stare lì, da per sempre. L’esistenza dovrebbe essere condivisa con spiriti affini, al fine di generare una forza contraria capace di opporsi a questo “Leviatano” che tanto vediamo controllare ogni nostro gesto, arrogandosi una divinità che riscontriamo riflessa solo nei mille specchi bruciati, ciascuno non identico all’altro, i quali vogliono abolire l’unica verità che sia effettivamente tale: la vita.

Luca Atzori

IL GRANDE VETRO E L’ “AUTOPOIESI”


La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, opera di Marcel Duchamp meglio nota come il Grande vetro, è stata realizzata dal 1915 al 1923, e non è stata mai completata. Non la si può definire propriamente un’opera d’arte pittorica, tant’è che qualcuno l’ha indicata con il titolo (il quale certo non rende giustizia alla semplicità) di “macchina autopoietica”; ovverosia come una sorta di macchina a chiusura operazionale contraddistinta da un’ autoreferenzialità dipendente esclusivamente da un sistema interno, il quale si riorganizzerebbe autonomamente generando una sorta di “autocomportamento”.
Questa premessa ci mostra che non è propriamente di arte figurativa che qui vogliamo trattare. Sembrerebbe più un’invenzione strampalata venuta fuori dalla mente di uno scienziato pazzo, e certamente Duchamp ne aveva i prerequisiti (anche se la sua attività, con la scienza, non presenta poi così evidenti affinità).
Il dada aveva piuttosto come principale missione quella di spiegare una verità fondamentale, ovvero che dalla cosìddetta "età della crisi" (o modernità, se si preferisce) in poi ci toccasse la conseguenza di un fatto inesorabile, ovvero la fine dell’estetica. L’arte, secondo la loro concezione, non conservava più il suo valore di “interfaccia”, e questo dovrebbe confermare quanto tutto ciò che di artificiale avrebbe da allora incontrato il nostro sguardo dovesse mostrare di sé quanto nella realtà da sempre debba essere stato semplicemente “estetizzato”.
Duchamp volle rendere la sua opera una sorta di strumento magico, il quale ogni qual volta lo si fosse osservato, avrebbe cambiato di significato, e con esso le sue superfici. Insomma, una lastra di vetro soggetta ad un’ermeneutica infinita. Solo più il caso, nella sua concezione, avrebbe potuto determinare gli elementi e la loro interpretazione.
Sono state scovate molteplici simbologie alchemiche in questo suo lavoro (notare il gioco di parole fra Grande vetro e Grande Opera).
Essa è divisa in due parti: una terrestre e una celeste. Nella prima vediamo una nuvola con tre quadrati, nella seconda un parallelepipedo in prospettiva, simboleggiante un feretro vuoto. Nel titolo compare la figura di una sposa, con la quale si dice volesse indicare la Vergine Assunta: e fa sorridere pensare a quanto l’artista sia rimasto fedele alle tradizionali rappresentazioni iconografiche di Maria, nelle quali appunto le due sfere (divina e umana) erano poste sempre l’una accanto all’altra.
Ma certo, la lettura di Duchamp, in realtà, non ha in sé molto di religioso (almeno nell’accezione comune del termine), bensì si direbbe piuttosto una rilettura dell’assunzione in chiave “erotica” (ovviamente qui intesa in senso metafisico). I tre quadrati vuoti, suggeriscono la Santissima Trinità, ai quali corrispondono in basso tre rulli pieni della macchina per macinare il cioccolato.
L’opera in sé è una continua polarizzazione di principi positivi e negativi e credo che la sua essenza, la sua pietra angolare, risieda proprio in questa sua ineffabilità, in questa mancanza. L’assenza dell’ elemento che ponga una distanza fra l’opera e l’osservatore, è la particolarità che di per sé segna, io credo, la vera firma dell’autore. Il Grande vetro infatti non è ne troppo bello da vedere, ne di per sé molto comprensibile. Esso è semplicemente un oggetto incompleto (nonostante ciò possa risultare di per sé un ossimoro).
Noi vediamo oggi quanto il dada in tutta la sua smania distruttrice e farsesca, si avvicinasse in maniera totalizzante al senso tremendo del sacro. Ciò che muoveva questi “artisti” era un’antireligiosità di fondo che proprio per questo manteneva in sé l’effetto dirompente di una valorizzazione assoluta del sacro in sé. Così come in Georges Bataille e nella sua rivista nonché società segreta “Acephale”, si pensa che l’unica via d’uscita non possa essere trovata in un’ evoluzione delle forme espressive o artistiche, ma solamente, appunto, nella liturgia vissuta in tutto il suo terrore, così, non deve essere la traccia del lavoro di Duchamp a scuotere i nostri animi, ma bensì il suo stesso tentativo di realizzarsi. Non è nell’opera che possiamo trovare quel che cerchiamo, ma nel farsi stesso di essa.
Nulla a che vedere, s’intenda, con le contemporanee opere d’arte concettuali, le quali a tutto ciò non meritano nemmeno di essere paragonate.

Luca Atzori

NIETZSCHE E LA BONTA' AD OROLOGERIA


Sfogliando le pagine della biografia di Nietzsche scritta da Massimo Fini dal titolo l’apolide dell’esistenza, traspare (apparentemente) una figura del tutto differente da quella che potrebbero suggerirci gli scritti del filosofo. Emerge un personaggio estremamente umile, posato, femmineo, cortese e addirittura passivo. Lo stesso che scriveva “io non sono un uomo, sono una dinamite”, ce lo presenta come un solitario professore scisso fra due realtà: una intellettuale e un’altra fisica. La prima, dirompente ed esplosiva, manifestantesi solo sulla carta, la seconda fragile e cagionevole, mossa a fatica in un’epoca, e dunque non sua. Un personaggio, insomma, quasi invisibile, conservato quasi interamente in uno spazio immateriale, astratto, avente sede principalmente nel Pensiero. Quel filosofo che si professava come “l’anticristo” si rivela essere un vero martire, sacrificato totalmente a quella funzione di Custode della Verità. E facendo questo dedica tutto se stesso a quel pensiero, obliando la sua vita, la sua stessa dignità. Che cosa ne viene fuori? Che il suo pensiero si esaurisce nella sua stessa demenza, così che quel che vede riflesso nel suo specchio è solo più la Bestia: il punto da cui teoricamente sarebbe dovuta partire quella “fune” che avrebbe dovuto lanciarlo al super (o oltre che dir si voglia) uomo.

Intendo precisare, nessuno qui osa sostenere che sia stato il suo stesso pensiero a condurlo verso la follia... e se anche fosse vero, non lo riterrei un elemento di eccessiva rilevanza. Quel che più dovrebbe far riflettere è la funzione (indiretta) che in tutto ciò gioca il concetto di sacrificio.

Sorge spontaneo domandarsi, difatti, perché Nietzsche non abbia unito definitivamente in sé la sua etica con la sua stessa estetica. Forse perché egli presentiva che per essere una “dinamite” bisogna fare in modo che all’interno dell’esplosione venga incluso il maggior numero di persone?

Io credo si tratti invece più semplicemente di una inconsapevole qualità caratteriale, non pre-organizzata, seppure non certamente casuale. Proprio perché Nietzsche è stato si un filosofo, ma anche, credo, soprattutto un poeta, e non a caso fra i suoi illustri Maestri troviamo proprio la figura di Friedrich Holderlin, il quale presenta diverse analogie con il filosofo sia nel pensiero che nella vita stessa. Infatti, nella sua poesia Andenken (Ricordo) la frase che chiude il componimento è la famosa Was bleibet aber stiften die Dichter (Ma ciò che resta lo fondano i poeti). E potremmo rivalutare l’intera vita di Nietzsche, così come il suo “culto dionisiaco”, proprio come un’esistenza votata alla fondazione filosofica, quasi a un livello liturgico. La stessa sentenza “Dio è morto” è carica di un potere religioso e sacrale. Nietzsche potremmo quasi pensarlo come un perfetto Cristiano, un vero Sacerdote.

Il filosofo Massimo Cacciari ci ha offerto una lettura del pensiero di Nietzsche fornendo un collegamento con il concetto di Deus Adveniens, e nel far questo ha anche preso in considerazione le varie citazioni evangeliche presenti nei suoi testi.

Ciò a cui egli rimanda, è continuamente un Lieto Annuncio, un riportare a una verità, una vera e propria parusia (prossima) di un oltre ben definito. Il nichilismo inteso come trasvalutazione di tutti i valori, in tal caso, potrebbe essere considerato addirittura come il più compiuto esito di un’etica cristiana, proprio perché viene “transustanziato” qualsiasi effettivo valore, e con esso qualsiasi fenomeno, ogni realtà. Certo Nietzsche distingueva fra nichilismo passivo e attivo, dichiarandosi porta-voce del secondo. Ma considerando che la Volontà di Potenza non risiede sopra nessun altro luogo se non in quello che noi si possa ritrovare in quella Noluntas di cui ci parlava Schopenauer, essa è dunque impossibile e perciò stesso Miracolosa, così come lo è qualsiasi attività creativa, e ricalco: è impossibile, proprio perché, come giustamente osserva Cacciari, la Volontà di Potenza si rovescia nella sua stessa Impotenza, mostrando l’aporia del suo “creare” il Nulla. L’uomo è dunque un ponte, un profeta, una voce che grida nel deserto e attende l’avvento del Deus Adveniens, per l’ appunto.

Ne ricaviamo che il discorso di Nietzsche è costretto a restare chiuso nelle sue stesse catene ermeneutiche per poter essere reso possibile, così che quel che oggi appare più degno della nostra “attuale” attenzione è proprio quel “salto” che il filosofo fece fra la sua identità sociale e la sua essenza bestiale, e per ciò stesso anti-storica.

Non dovrebbe dunque essere possibile nemmeno pensarlo un oltre, un “post”, proprio perché nel momento stesso in cui noi dovessimo superare definitivamente quel ponte, dimenticheremmo tutto, e conserveremmo solo più quella saggezza dell’inizio, quella che vanifica ogni sforzo, e che non sarà stata la soluzione di alcun telos ma piuttosto l’accrescimento di quella condizione che per l’uomo storico è del tutto impossibile: la volontà di potenza; E dov’è che questa si manifesta? In quel tempo che gli stoici chiamavano l’ Aiòn, in quella verità che Nietzsche reputava la sua più profonda, ovvero quella dell’Eterno Ritorno.

Ecco che dunque quella bontà che ci narrano di Nietzsche, possiamo inserirla benissimo nella logica del suo pensiero, attribuendola a quell’esito finale delle sue meditazioni che è quello dell’Amor Fati.

Nietzsche come uomo quieto che teneramente attende l’avvento di quest’oltre, e lo fa mostrando il sorriso della sua stessa resa, cioè della sua stessa gloria.

Luca Atzori