giovedì 11 giugno 2009

GLORIA E VITA ALLA NUOVA CARNE!






Il titolo che abbiamo adoperato è l’inconfondibile esclamazione di Max Rennt, protagonista del film Videodrome di David Cronenberg, del 1983. Egli è il proprietario della Civic Tv, un canale specializzato nella trasmissione di programmi a contenuto pornografico e violento.
Dal momento in cui questi entra a contatto con un canale pirata che trasmette solo scene di tortura a sfondo prevalentemente sessuale, tutto comincia a mutarsi nell’angosciante vicenda di un’ esistenza ai limiti del reale. Il nome del canale è Videodrome.
Il professor Oblivion, il quale Max incontra in un Talk show, si rende visibile solo dietro uno schermo televisivo. Egli viene a scoprire che questi in realtà è morto da ben un anno, e sopravvive solo più dietro l'immagine mediatica.
Inizia così una scalata verso un labirinto che provoca il mutamento (per l’ appunto) nella stessa carne di Max come nella sua stessa mente.
Cronenberg si ispirò, per il personaggio di Oblivion, a Marshall Mc Luhan (noto sociologo e studioso dei media il cui motto era “il mezzo è il messaggio”).
Il film ci mostra difatti un processo di evoluzione segnato dalla manipolazione che i media operano sulla carne e sulla materia. Il protagonista si ammala di una malattia degenerativa che lo porta ad una progressiva plasmazione avente come demiurgo l’impenetrabile mondo della tecnologia.
Lentamente diviene una vera e propria lotta, la quale (volendo) può essere paragonata all’evoluzione creatrice di Bergson. La coscienza del protagonista tenta in ogni maniera di svincolarsi da questo degrado, seppure avendo perso completamente il centro d’orbita del sé, ritrovandosi affacciato ai molteplici universi percepiti da un punto di vista prettamente oggettivo.
Videodrome segna dunque il trionfo dell’oggettivazione più pura. La condizione nella quale l’uomo si fa definitivamente oggetto, lasciandosi divorare completamente dal messaggio televisivo. Questo poiché come diceva Wittgenstein il mondo si scopre essere effettivamente solo più tutto ciò che accade (nello spazio logico).
Ma la realtà mediatica è molto più definita, pronta, bella e infiocchettata. E' così che gli oggetti mediatici si manifestano al punto che la carne non è in grado di reggerli, ritrovandosi così costretta alla mutazione, o meglio al cammino verso l’inorganicità.
Il lato più tremendo di questo film, è che il regista non vuole mai suggerire la sua visione etica della faccenda, ma descrive solo una condizione ineluttabile verso la quale effettivamente si va muovendosi progressivamente, ovvero la compenetrazione dell’uomo con l’inferfaccia digitale e la sfera tecnologica. La sfera del virtuale che va così confondendosi con quella reale. Che cos’è la realtà in fondo se non uno stato di cose? E come possono le cose esistere se non senza una relazione? Dunque qualsiasi relazione fra esse genera per forza un mondo, rendendo tutto assolutamente possibile e nulla vero.
“La televisione è la realtà e la realtà è meno della televisione” dice Oblivion.
E internet? Abbiamo trovato forse una realtà più reale ancora della televisione?



Luca Atzori

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