venerdì 27 novembre 2009

OBLOMOV


Il romanzo "Oblomov", scritto da Ivan Goncarov nel 1859, risulta essere un Classico più che attuale.
Oblomov è un personaggio caratterizzato da una pigrizia patologica, abituato a osservarsi e osservare vivere, senza agire mai direttamente, evitando di essere causa di qualsiasi mutamento fisico e sociale nel mondo che lo circonda. L'unica attività che lo occupa è quella del suo rapporto con il servo Zachar (e il discorso vale reciprocamente).
Tutto questo fino al momento in cui la cantante lirica Olga non gli dona la forza di risvegliarsi, dimenticarsi di sé, portare la propria attenzione su una persona, dunque sul mondo attorno, risvegliando in sé la vita e assopendo il sempre (distratto) vigile occhio del sognatore.

Ma è un'illusione che si solidifica in breve tempo. Ciò che ama Oblomov è, infatti, un sogno... un sogno meraviglioso. E' composto da una sequenza che si ripete nei loro racconti spassionati, fra alberi di betulle e rami di serenelle.

Oblomov immerge la sua nevrosi in un luogo onirico appena realizzato. L'unica argomentazione diventa la Possibilità stessa dell'amore, e così all'infinito, per non andare mai oltre.
Quello che possiede Oblomov è un potenziale inattuabile. Ciò che Olga gli ripete è che l'amore è un Dovere (tutto ciò che egli rifugge con rigore).

Rigore è una parola chiave. Proprio perché la condizione del protagonista è quella di un nevrotico. La malattia dell'anima alla continua ricerca di rituali, di azioni dotate di significato. Azioni che rispettino i loro stessi riflessi onirici.
Nevrosi spesso salvifiche, quando i fiumi stanno per straripare.
La possibilità diventa quindi preponderante. Il solo esempio di realtà pensabile.

Oblomov è in sostanza autenticamente intimo e la sua inerzia è quella di chi sia pienamente immerso nella propria storia soggettiva, e che per ciò stesso ricopra un campo di respiro molto più ampio, inadatto alle azioni quotidiane prive di significato, intessute in una rete di perenne compromesso.
Oblomov è la personificazione della purezza e del sentimento. Inetto e impossibile.


Luca Atzori

venerdì 6 novembre 2009

CONSIDERAZIONI SULL'ATTIMO PREISTORICO

Quando ci si trova a filosofare intorno all'attimo, non si può intenderlo se non come un evento che stia al di fuori del senso, ed infatti a tal proposito consideriamo la vita come un unico attimo, in una permanente pre-istoria.
Quando dico la parola attimo, intendo il " momento dell'atto", lo stesso che veniva inteso da Aristotele come realizzatore di qualcosa.
Aristotele usava il termine "entelechia", che significa compiutezza, perfezione, e che venne utilizzato in seguito dal filosofo Leibniz in riferimento alle sue monadi, le quali avrebbero dovuto ricavare la loro unità nient'altro che da se stesse.

L'attimo, dunque, è una monade.

Usiamo qui la parola "preistorico" nel suo senso più letterale, ovvero come antecedente la Storia.
Tutto ciò che è Storico, è tutto ciò che di falso c'è sempre stato; questo lo diciamo intendendolo nel senso in cui avrebbe potuto Adorno con il suo celebre aforisma "il tutto è falso".
Falso perché conseguente a una rielaborazione, e quindi ad una una ricostruzione di quell' atto, il quale di per sé non potrebbe possedere ragioni ulteriori (per nessuna "ragione" al mondo).

L'attimo è impalpabile e inconoscibile, e come tale è il vero noumeno.

Quando noi usiamo il linguaggio, incontriamo quel qualcosa che nell'attimo non potremmo in alcun modo comprendere, e questo è il senso.
Il senso si rende manifesto solo ed esclusivamente nella significazione (la quale dona sé stessa a partire da sé stessa), e quindi nella sfera Storica e rimemorante, ci troviamo davanti ad una continua lettura ermeneutica, da cui in ogni parte vengono scorte le componenti di nuovi sensi, in un processo infinito.

Ogni fenomeno, come punto di vista, viene preso, considerato e reso tale in ogni angolazione possibile per la Coscienza.

Mi sovviene quella rilettura che fece Carmelo Bene del testo di Alfred de Musset "Lorenzaccio", in cui nella frase finale il protagonista, che aveva meditato e organizzato in tutto il dramma l'uccisione del duca Alessandro, dopo aver compiuto l'atto dice "non nego la Storia, ma io non c'ero" estromettendosi totalmente dal campo dell'azione.

La Storia, dunque, non è nient'altro che una ri-scrittura della memoria e dei suoi vuoti.

Facciamo caso che l'umanità abbia avuto inizio esattamente come accade per la vita di un essere umano. Immaginiamoci un' umanità neonata, dotata di una pura volontà, e per ciò stesso incorrotta. Un'umanità piangente e desiderante.
La volontà di potenza, meglio intesa nella rilettura di Deleuze come affrancamento totale dall'io, e non come brama di dominio e prevaricazione.
Ebbene quell'umanità non possiederebbe alcun senso, e questo sin dal principio (alla faccia di ogni assurdità metafisica).
Dopodiché arriva la scrittura, dunque la registrazione, il ricordo. Ci si "migliora". Si inventa un metodo... (ogni metodo funziona come inganno). Ci si trova fra le mani una Storia.
Ma che cos'è questa Storia?
E' sempre nient'altro che Storia di Altro. Non può essere mai, infatti, la Nostra Storia (anche perché quel Nostro è sempre posseduto da Altro).
Per questo l'attimo rimane sempre identico a se stesso, e come tale sempre pre-istorico: perché dall' atto, ogni qualsiasi interpretazione dotata di senso, non può esserle pensata in alcun modo conseguente.

La Storia sta all'attimo, come l'io sta al soggetto.

Così, quando Nietzsche farneticava intorno all'eterno ritorno, intendeva forse dir questo: che non vi è mai stata una Storia, e che ogni attimo è sempre il medesimo. Tutto il resto è una grande Narrazione che utilizziamo al fine di essere artefici della nostra evoluzione, in attesa di quel giorno in cui finalmente potremmo dirci "fortificati", ed essere totalmente gettati nel regno ineffabile e indicibile dell'atto, fuori dal segmento già compiuto che si rende manifesto nell' inizio e nella fine.


Se "la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa", alla terza i gentili signori saranno pur molto stanchi.

Luca Atzori