Quando ci si trova a filosofare intorno all'attimo, non si può intenderlo se non come un evento che stia al di fuori del senso, ed infatti a tal proposito consideriamo la vita come un unico attimo, in una permanente pre-istoria.
Quando dico la parola attimo, intendo il " momento dell'atto", lo stesso che veniva inteso da Aristotele come realizzatore di qualcosa.
Aristotele usava il termine "entelechia", che significa compiutezza, perfezione, e che venne utilizzato in seguito dal filosofo Leibniz in riferimento alle sue monadi, le quali avrebbero dovuto ricavare la loro unità nient'altro che da se stesse.
L'attimo, dunque, è una monade.
Usiamo qui la parola "preistorico" nel suo senso più letterale, ovvero come antecedente la Storia.
Tutto ciò che è Storico, è tutto ciò che di falso c'è sempre stato; questo lo diciamo intendendolo nel senso in cui avrebbe potuto Adorno con il suo celebre aforisma "il tutto è falso".
Falso perché conseguente a una rielaborazione, e quindi ad una una ricostruzione di quell' atto, il quale di per sé non potrebbe possedere ragioni ulteriori (per nessuna "ragione" al mondo).
L'attimo è impalpabile e inconoscibile, e come tale è il vero noumeno.
Quando noi usiamo il linguaggio, incontriamo quel qualcosa che nell'attimo non potremmo in alcun modo comprendere, e questo è il senso.
Il senso si rende manifesto solo ed esclusivamente nella significazione (la quale dona sé stessa a partire da sé stessa), e quindi nella sfera Storica e rimemorante, ci troviamo davanti ad una continua lettura ermeneutica, da cui in ogni parte vengono scorte le componenti di nuovi sensi, in un processo infinito.
Ogni fenomeno, come punto di vista, viene preso, considerato e reso tale in ogni angolazione possibile per la Coscienza.
Mi sovviene quella rilettura che fece Carmelo Bene del testo di Alfred de Musset "Lorenzaccio", in cui nella frase finale il protagonista, che aveva meditato e organizzato in tutto il dramma l'uccisione del duca Alessandro, dopo aver compiuto l'atto dice "non nego la Storia, ma io non c'ero" estromettendosi totalmente dal campo dell'azione.
La Storia, dunque, non è nient'altro che una ri-scrittura della memoria e dei suoi vuoti.
Facciamo caso che l'umanità abbia avuto inizio esattamente come accade per la vita di un essere umano. Immaginiamoci un' umanità neonata, dotata di una pura volontà, e per ciò stesso incorrotta. Un'umanità piangente e desiderante.
La volontà di potenza, meglio intesa nella rilettura di Deleuze come affrancamento totale dall'io, e non come brama di dominio e prevaricazione.
Ebbene quell'umanità non possiederebbe alcun senso, e questo sin dal principio (alla faccia di ogni assurdità metafisica).
Dopodiché arriva la scrittura, dunque la registrazione, il ricordo. Ci si "migliora". Si inventa un metodo... (ogni metodo funziona come inganno). Ci si trova fra le mani una Storia.
Ma che cos'è questa Storia?
E' sempre nient'altro che Storia di Altro. Non può essere mai, infatti, la Nostra Storia (anche perché quel Nostro è sempre posseduto da Altro).
Per questo l'attimo rimane sempre identico a se stesso, e come tale sempre pre-istorico: perché dall' atto, ogni qualsiasi interpretazione dotata di senso, non può esserle pensata in alcun modo conseguente.
La Storia sta all'attimo, come l'io sta al soggetto.
Così, quando Nietzsche farneticava intorno all'eterno ritorno, intendeva forse dir questo: che non vi è mai stata una Storia, e che ogni attimo è sempre il medesimo. Tutto il resto è una grande Narrazione che utilizziamo al fine di essere artefici della nostra evoluzione, in attesa di quel giorno in cui finalmente potremmo dirci "fortificati", ed essere totalmente gettati nel regno ineffabile e indicibile dell'atto, fuori dal segmento già compiuto che si rende manifesto nell' inizio e nella fine.
Se "la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa", alla terza i gentili signori saranno pur molto stanchi.
Luca Atzori
venerdì 6 novembre 2009
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