lunedì 27 giugno 2011

IL FILOSOFO GEOMETRA

“Nessuno entri se non è geometra”

Questa è la frase che a grandi lettere si vedeva scritta all'ingresso dell'Accademia di Platone.
Secondo il Grande Filosofo, non era possibile arrivare a conoscere la filosofia, così come qualsiasi scienza o anche arte, se prima non si conosceva a fondo la geometria. Già, qualche burlone potrebbe obbiettare: “ma quindi per iscriversi alla facoltà di filosofia oggi dovrebbero mettere una grande scritta all'ingresso dell'ateneo che dichiari -qui si favoriscono i diplomati all'istituto tecnico per geometri piuttosto che quelli provenienti dal liceo classico?-” e la risposta è no. Si potrebbe dire anzi che se conosciamo a fondo quella scritta, non ha più importanza essere diplomati né ai geometri, né al classico, né alla scuola radio-elettra o via dicendo.
La parola geometra ha un significato ben preciso, e potrebbe essere accostato a quello che ci viene suggerito dalla parola “iniziazione”.
Dov'è che ha inizio la filosofia, e perciò l'amore per il sapere? Aristotele sosteneva che la sorgente fosse la meraviglia, e che quindi da uno stato di confusione, un caos, si generasse poi la spinta a conoscere, per mettere ordine. Dal caos si generano pensieri, una copiosa fontana di stronzate che si muovono nella testa senza direzione precisa. Durante il movimento dei pensieri, il corpo sta fermo, o si muove goffamente, fa altro, insomma è spesso completamente staccato dalla testa.
Come è possibile produrre un pensiero corretto (e evidenzio l'importanza del pensiero e non del pensiero sul mondo) se non abbiamo un oggetto definito di pensiero? Come è possibile avere un pensiero che sia proprio, e che quindi faccia parte di noi stessi e non sia una mera nozione o un fantasma che studiamo sui libri in compagnia della gobba e dell'assenza di fascino?
Non è un caso che all'Accademia di Platone si praticasse con molto rigore la ginnastica. È necessario per il filosofo essere in forma. In forma può essere inteso qui in senso anche lato, come un'allegoria (ma va preso soprattutto in senso letterale) per intendere l' essere nella forma, nella propria. Perché possa iniziare il pensiero è necessario essere posizionati fermamente sulla terra. È quando si è trovata la posizione giusta che si trova la giusta misura che ci separa, in quanto individui pensanti, dagli astri, gli alberi, le zone più sconfinate dell'universo.
Nel momento in cui noi abbiamo trovato il nostro centro, lì comincia l'iniziazione. Sono posizionato sopra la terra, conosco la distanza che mi separa dalle stelle, ho usato il compasso e la squadra, so chi sono io, so da dove provengono questi pensieri (da me stesso, cioè) posso arrivare a conoscere il mondo.
Già, conoscere il mondo, così pensavano ingenuamente gli antichi occidentali. Ma spostiamoci a oriente, e vediamo come la pensavano i maestri Zen.
Anche nello Zen si diventa geometri. Ci si siede, si medita, si trova la giusta posizione e poi si rivolge l'attenzione verso il vuoto. Bisogna pensare al vuoto, così si smette di pensare. Insomma l'importante è smettere di pensare, arrivare a non pensare a nulla... si certo, come no.
Quando si dice che il maestro Zen è arrivato a non pensare a nulla, si dimostra di essere dei meri ignoranti, perfetti asini. Il maestro è arrivato, piuttosto, a pensare di pensare il nulla! È infatti impossibile pensare al vuoto. Si può, al massimo, arrivare a pensare di pensarlo.
Quindi il Maestro Zen non insegna che è possibile non pensare, ma piuttosto spiega che è impossibile non pensare, che non sarà mai e poi mai possibile smettere di pensare.
Noi penseremo sempre.
Pensare si esercita come una ginnastica.
Il pensiero, per tutta la vita, non ce lo toglieremo mai di dosso, così come (non provateci assolutamente) noi stessi.
Ma ci vuole forza. Platone lo sapeva.



Luca Atzori

giovedì 16 giugno 2011

LA LEGGEREZZA FRAINTESA

Oggi ritengo che l'importanza della letteratura sia tanto trascurata, quanto più urgente e necessaria. Il ciarpame di pseudo-letterati, scrittori e teatranti che emergono per inquinare la nostra immaginazione (già di suo poco allenata, fra clakson e allegrie di secondo uso) sono contraddistinti da una leggerezza immensamente irritante, a metà fra leziosi mugolii e l'ironia “della sorte” dello stereotipo accecante che contraddistingue lo scenario. La causa di questo (per niente sorprendente) avanspettacolo culturale, ritengo che sia da rilevare in un esile fraintendimento dal quale è difficile venir fuori, come trovandosi ad essere serrati in un labirinto irreparabile e paradossale.
La letteratura, innanzitutto, è sempre leggera. La poesia, il romanzo, il dramma, lo sono stati da sempre. La parola “leggerezza” va però assunta nel suo più stretto significato umano, quello dove le parole si trovino a carezzare (anche fino a gettare nella più totale malinconia) il cuore del lettore. La leggerezza può essere un modo che abbiamo per concederci di essere deboli, per indagare a fondo le emozioni, la forza del dettaglio descritto nel mezzo delle pagine dove si nasconde la natura più intima di ogni ricordo, e quindi di ogni senso.
Gli occhi di chi non legge, sono abituati alla realtà, a leggere la realtà, e le proprie emozioni ne prendono la forma. Somigliano a grossi macigni, mura, tavoli, masse di gente. Emozioni grandi, ma accecanti.
La letteratura serve a rimpicciolirle le emozioni.
La letteratura è una concessione all'interiorità, che di per sé, siamo d'accordo, è costante, e che grazie a quell'alleggerimento, abbiamo modo di rafforzare, nel valore di semplicità, senza cedere alla sfida dell'ascolto.

“è la mia peculiare malinconia
composta da elementi diversi, quintessenza
di varie sostanze, e più precisamente di
tante differenti esperienze di viaggi
durante i quali quel perpetuo ruminare mi
ha sprofondato in una capricciosissima
tristezza.
Non è una melanconia compatta e opaca, dunque, ma un velo di particelle minutissime d'umori e sensazioni, un pulviscolo d' atomi come tutto ciò che costituisce l'ultima sostanza della molteplicità delle cose.”
 
(Italo Calvino, Lezioni americane)

Quella malinconia descritta da Shakespeare e ripresa da Calvino, viene detta fra le parole solventi, sublimi e leggere, dove non vi è concessa opacità, ma la freddezza del più puro sentire. Non è dalla sofferenza che la letteratura cerca di far fuggire, ma piuttosto, al contrario, dal quotidiano, dalle manie nelle quali ci intrappola un ritmo anestetico (e antiestetico) dove quell'assenza di dolore si rivela essere la condanna più insopportabile.

Spesso, invece, la letteratura, presa ad ampio raggio, si occupa piuttosto di intrattenere, distogliere dalla sensazione, portare ad un alleggerimento frivolo e violento. Un risveglio degli occhi e delle sue nevrosi, ma non significano niente, se non l'ascolto mediocre degli altri e te stesso (mediocre), la maschera assunta dai loro sorrisi isterici. Le notti alcoliche fatte di voci e rigurgiti a verità dichiarate, narrate fra gli schermi televisivi o le vetrine, dove i colori chic fanno luce agli abiti che vestono i corpi freddi e sarcastici di Paolo e Francesca corrotti dai loro demoni.
Quella che dovrebbe essere una via d'uscita fuori dalla nevrosi del quotidiano, si rivela esserne la principale via d'accesso. Le coscienze frammentate e la chiaroscurale schizofrenia descritta ad esempio in quelle neoavanguardie che declamavano crittografie, polveri da sparo, fegati e indemoniati nulla (cit) si rivela essere l'unico luogo di sur-realtà che diventi oggi proprio dell'ispirazione.

Costretti a parlare di telefoni cellulari e canali pornografici, dove ciò che inquina è il loro significato insediato come calcare nella koiné aisthesis.

Niente da dire sul fatto che sia inevitabile, e che siamo costretti a questa triste ironia, dove la nostra lotta è fatta di parole che contestino e risparmino i calci e gli schiaffoni.

Oggi possiamo solo ringhiare i nostri contenuti, e lo facciamo per la sopravvivenza.

Ma niente da dire neppure sul fatto che siamo gettati a forza in una parodia della parodia, e che, sia comicamente che tragicamente, il flusso della vita che tentiamo di portare avanti con integra dignità, lo ritroviamo spezzato. Laddove i significati sono stati fatti a pezzi abbiamo bisogno di crearne di nuovi, e forse l'unico modo che abbiamo per iniziare è partire dal silenzio. Come diceva quel certo personaggio felliniano: “Siamo soffocati dalle parole dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita... che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artista veramente degno di questo nome non bisognerebbe chiedere che questo atto di lealtà: educarsi al silenzio."


Luca Atzori

domenica 5 giugno 2011

MANZONI E ALTRI BOVINI

(Cazzeggio del mattino in post sbornia)


Che esistenza cinica quella delle rane
nel loro monacale gracidare
che si intendono al pianterreno delle case cavernose.
sempre in posa! sempre in posa! le rane
quelle rane.

Questo intervallo vallo a recuperare
lo stesso occuperà lo spazio dei tuoi vizi
laddove selfcontraddirrà
ancora non so quante volte
ancora non so.

e un cieco sorrise:

Whisky, Rhum, Tequila, Birra, Vino, Vodka
Spazza pure

Tacque

conducetelo al tramonto!
conducetelo al tramonto!

E' chiaramente un affare
fuoriuscire dal villaggio
la curiosità di spaccarvi il culo
la violenza la sottovalutate miei cari
la violenza, si.

"povera cosa è l'uomo
quando lo visitano i genii
non è più nulla" Chateaubriand lo sapeva
che il meno sapiente è il più sapiente
di tutti gli uomini etcetera insieme

Le ragazze per la strada,
le ragazze

alle conferenze su Carlo Michaelstaeder
quante ottantenni

Vedo in te un uomo civile diventato saggio,
alla prossima luna di fiori
la fuori HO VOLUTO
santificare ciò che il Cristianesimo HA DOVUTO profanizzare

è ovvio, parliamo dei pelazzi sulle ascelle
parliamo delle scoregge
e anche dellandartiammorìammazzato.

Quel che mi resta da dire è questo:

Ai postumi di un sabato sera, l'ardua sputazza.



Luca Atzori