sabato 1 agosto 2009
EDUCARSI AL SILENZIO
Nella poesia di Camillo Sbarbaro intitolata "Taci anima stanca di godere" tratta dalla raccolta "Pianissimo" del 1914, il discorso si colloca direttamente su un piano esistenzale, a segnare la condizione di chi incontri il confine della propria volontà, come limite di quello stesso Io che nel suo confinarsi annulli sé nel medesimo oggetto che doni luogo alla sua soggettività.
L'anima (con cui il poeta dialoga) è stanca, e lo è sia della gioia che della sofferenza, poiché entrambe gli si presentano dinnanzi al volto esattamente con lo stesso abito, offrendogli lo stesso effetto, che si manifesta solo più come remoto.
Sbarbaro è uno Spiritus Lenis incapace di compiere scelte, proprio perché consapevole di quanto ciò sia in sé un atto impossibile, e forse inseguito inadeguatamente proprio perché dietro quella "nolontà" si nasconda la ricerca disperata di una speranza in un nuovo barbaglio di vita ( occasione, per dirla con Montale).
Ma credo, in realtà, che ogni genere di emozione la quale sia pensabile poeticamente, venga coscientemente annullata dal poeta stesso, dirottato ormai in un sentiero dove non si scorga alcuna meta da raggiungere, ma solo più una camminata compiuta nell'avanzo del suo cammino ridotto ad essenza più propriamente compiuta.
Fra il poeta e la sua anima, dove l'uno è il consolatore e l'altra che ancora cerca di mettere luce in quella zona che in egli, invece, deve scomparire, il conflitto viene vissuto e si dichiara come un'autentica aporia. Il poeta vuole cancellare ogni forma di ricordo, ogni forma di senso, di sentimento, così come ogni legame con il passato che ormai non assume più alcun ruolo, né giustifica più alcuna sua azione.
E ogni oggetto ritorna ad essere puramente ciò che è, senza che sia possibile leggerne simbologie fra le superfici. Il poeta dichiara la fine di ogni simbolo, di ogni storicità, e ogni incantamento. Le sirene hanno perso la voce, e non è più possibile lasciarsi ingannare, avere motivo di odiare o amare la vita, proprio perché questa si mostra ai nostri occhi con il suo vero volto, in questo caso di Gorgone.
Insomma non c'è più quella separatezza che incontravamo fra amante e amato, nella poesia romantica, ma insieme ora si fondono nella verità dell'ineluttabilmente certo, da ora a ieri a domani, in quell'unica esigenza di dire un'ultima parola, ahimè indicibile se non sfuggita.
Nell'ultimo verso, sembra infatti scappare dalla penna del poeta l'ombra di un contenuto di volontà.
Quello che ritrova, e di cui egli stesso fa parte, è il deserto dove ogni spasimo e ogni gioia appaiono come miraggi e dove si hanno come uniche oasi le false certezze, o i cari inganni.
Il deserto che continua a riposare sulla nostra attualità, e che muove a bruciare, quanto più sia possibile, ogni manifestazione di soggettività, la rende tale proprio perché questa è stata, nel nostro immaginario cronologico (storico e culturale), vissuta completamente, risolta, come un romanzo che ora si chiude.
Anche se ahimè in noi restano il tempo e lo spazio, ci resta ancora il nostro respiro, la nostra anima, che ancora e sempre vorrebbe sussurrare qualcosa, e che siamo tenuti a fare tacere perché anch'essa si adegui a quella pace agghiacciante e mistica in cui siamo costretti ad agire.
Il poeta, dicevamo, è pervaso dalla volontà di ri-cercare (e ricreare) l'essere. Guardando con asciutti occhi se stesso, e non guardando più al nulla delle cose, non poggia lo sguardo in maniera totalmente rassegnata e al procedere quasi funereo delle cose, ma piuttosto lo riporta verso se stesso dove non incontra che una tenebra che lo costringe a immaginare.
Come scriveva Flaiano, dando voce a un personaggio felliniano:
"non bisognerebbe chiedere che quest'atto di lealtà: educarsi al silenzio."
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all'uno e all'altro vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato...
Invece camminiamo, camminiamo
io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore non si tocca.
Perduto ha la voce la sirena del mondo,
e il mondo è un grande deserto.
Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso.
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