giovedì 11 giugno 2009

IL GRANDE VETRO E L’ “AUTOPOIESI”


La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, opera di Marcel Duchamp meglio nota come il Grande vetro, è stata realizzata dal 1915 al 1923, e non è stata mai completata. Non la si può definire propriamente un’opera d’arte pittorica, tant’è che qualcuno l’ha indicata con il titolo (il quale certo non rende giustizia alla semplicità) di “macchina autopoietica”; ovverosia come una sorta di macchina a chiusura operazionale contraddistinta da un’ autoreferenzialità dipendente esclusivamente da un sistema interno, il quale si riorganizzerebbe autonomamente generando una sorta di “autocomportamento”.
Questa premessa ci mostra che non è propriamente di arte figurativa che qui vogliamo trattare. Sembrerebbe più un’invenzione strampalata venuta fuori dalla mente di uno scienziato pazzo, e certamente Duchamp ne aveva i prerequisiti (anche se la sua attività, con la scienza, non presenta poi così evidenti affinità).
Il dada aveva piuttosto come principale missione quella di spiegare una verità fondamentale, ovvero che dalla cosìddetta "età della crisi" (o modernità, se si preferisce) in poi ci toccasse la conseguenza di un fatto inesorabile, ovvero la fine dell’estetica. L’arte, secondo la loro concezione, non conservava più il suo valore di “interfaccia”, e questo dovrebbe confermare quanto tutto ciò che di artificiale avrebbe da allora incontrato il nostro sguardo dovesse mostrare di sé quanto nella realtà da sempre debba essere stato semplicemente “estetizzato”.
Duchamp volle rendere la sua opera una sorta di strumento magico, il quale ogni qual volta lo si fosse osservato, avrebbe cambiato di significato, e con esso le sue superfici. Insomma, una lastra di vetro soggetta ad un’ermeneutica infinita. Solo più il caso, nella sua concezione, avrebbe potuto determinare gli elementi e la loro interpretazione.
Sono state scovate molteplici simbologie alchemiche in questo suo lavoro (notare il gioco di parole fra Grande vetro e Grande Opera).
Essa è divisa in due parti: una terrestre e una celeste. Nella prima vediamo una nuvola con tre quadrati, nella seconda un parallelepipedo in prospettiva, simboleggiante un feretro vuoto. Nel titolo compare la figura di una sposa, con la quale si dice volesse indicare la Vergine Assunta: e fa sorridere pensare a quanto l’artista sia rimasto fedele alle tradizionali rappresentazioni iconografiche di Maria, nelle quali appunto le due sfere (divina e umana) erano poste sempre l’una accanto all’altra.
Ma certo, la lettura di Duchamp, in realtà, non ha in sé molto di religioso (almeno nell’accezione comune del termine), bensì si direbbe piuttosto una rilettura dell’assunzione in chiave “erotica” (ovviamente qui intesa in senso metafisico). I tre quadrati vuoti, suggeriscono la Santissima Trinità, ai quali corrispondono in basso tre rulli pieni della macchina per macinare il cioccolato.
L’opera in sé è una continua polarizzazione di principi positivi e negativi e credo che la sua essenza, la sua pietra angolare, risieda proprio in questa sua ineffabilità, in questa mancanza. L’assenza dell’ elemento che ponga una distanza fra l’opera e l’osservatore, è la particolarità che di per sé segna, io credo, la vera firma dell’autore. Il Grande vetro infatti non è ne troppo bello da vedere, ne di per sé molto comprensibile. Esso è semplicemente un oggetto incompleto (nonostante ciò possa risultare di per sé un ossimoro).
Noi vediamo oggi quanto il dada in tutta la sua smania distruttrice e farsesca, si avvicinasse in maniera totalizzante al senso tremendo del sacro. Ciò che muoveva questi “artisti” era un’antireligiosità di fondo che proprio per questo manteneva in sé l’effetto dirompente di una valorizzazione assoluta del sacro in sé. Così come in Georges Bataille e nella sua rivista nonché società segreta “Acephale”, si pensa che l’unica via d’uscita non possa essere trovata in un’ evoluzione delle forme espressive o artistiche, ma solamente, appunto, nella liturgia vissuta in tutto il suo terrore, così, non deve essere la traccia del lavoro di Duchamp a scuotere i nostri animi, ma bensì il suo stesso tentativo di realizzarsi. Non è nell’opera che possiamo trovare quel che cerchiamo, ma nel farsi stesso di essa.
Nulla a che vedere, s’intenda, con le contemporanee opere d’arte concettuali, le quali a tutto ciò non meritano nemmeno di essere paragonate.

Luca Atzori

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