giovedì 27 maggio 2010

IL FORMICAIO

Le formiche esistono esclusivamente in vista del formicaio, anzi si potrebbe dire più semplicemente che il formicaio è fatto di formiche, così come il tessuto nervoso è composto di neuroni .
È impressionante vedere come le formiche si muovano in maniera così organizzata e notare che sono totalmente ignare di quel che sta accadendo in se stesse e nel mondo attorno. Costruiscono tunnel, ponti fatti di formiche, si organizzano per procurarsi le giuste provviste e nessuna di esse si rende conto di nulla.
Il formicaio in sé presenta però una forma di compiutezza (sarebbe azzardato dire che sia cosciente, e sarebbe inoltre un inutile proiettare a concetti che appartengono alla nostra area), ed è quella di se stesso come inizio e fine di sé medesimo: un tutto distinto dalle sue parti e unico come ciascuna di esse.
Gli uomini presentano a mio parere una sottile analogia con le formiche, così come l'umanità con il formicaio.
Nonostante quella umana sia la razza più evoluta, e dunque capace di fare più cose e dominare (oltre che distruggere) meglio la natura, non può sfuggire a un meccanismo necessario.
Non esiste, tanto per cominciare, nessuno che possieda un determinato sapere e che ne sia dunque il detentore. Nessuno può vantare il possesso di nulla. Tutti accedono a un linguaggio (verbale, matematico, scientifico, artistico etc.)
Tutto il linguaggio va a costituire una rete dentro cui si rende manifesto il senso in se stesso.
Tutto il senso è in sé, ed in sé è paradossale.
Ma gli uomini, visti dall'alto non possono che presentare una enorme somiglianza con quelle stesse formiche. La loro stessa incoscienza. Questo fa pensare che quello di coscienza, sia un concetto impossibile e conchiuso in se stesso. Ovvero tutto il sapere che noi sosteniamo di possedere, è in realtà un mostrarsi di una rete di connessioni interne al piano relazionale che intercorre fra gli uomini stessi, e che va a costituire il loro stesso senso entro cui non ci apprestiamo che verso il limite della totalità. La stessa autocoscienza non è che coscienza di un soggetto conoscente che esiste in sé solo in relazione a un oggetto che a sua volta è legato a tutto il reticolato e che anzi viene reso possibile solo dalla connessione che presenta con gli altri oggetti, e che in sé nella sua stessa concettualità trova limite nello stesso senso che intende mostrare con se stesso (vale per piano autocoscienza, coscienza, incoscienza etc).
Insomma ciò che determiniamo come senso è costruito a partire dalla relazione che le cose vengono a creare insieme ad il livello in cui possono trovare la propria significazione.
Per questo l'uomo è in realtà totalmente “incosciente”. L'uomo accede al sapere, conosce anche se stesso se vogliamo, ma è sempre inginocchiato verso una piazza che costituisce l'impalcatura della sua stessa attività pensante, da cui spesso è dominato (paradossalmente proprio quando crede di esserne il padrone).
Essere dominati dalle parole, credere che esse indichino qualcosa di reale, credere di esserne i possessori, credere questo significa rientrare in un piano percettivo in cui l'interiorità è affossata da un tremendo baccano.
Essere finalmente coscienti del proprio silenzio interiore (e dire silenzio, suggerisce Bataille, significa pronunciare la parola più perversa e al contempo poetica) genera la coscienza che il linguaggio è in sé un sistema chiuso, ma nel senso che in esso si genera continuamente senso a partire dal moto che va a costituire la stessa necessità di cui è costituita la sua unicità separata.
La verità non è adaequatio rei et intellectus, non è coscienza che un soggetto ha di un oggetto, ma è semmai il modo in cui l'oggetto e il soggetto stesso si manifestano in sé: aletheia, e tanto più vivido ci si mostra, quanto più “silenzio” accogliamo dentro noi stessi.

Luca Atzori

sabato 8 maggio 2010

NON C'E' NULLA DAPPERTUTTO




Intervista a Silvia Giachello


di Luca Atzori

Silvia Giachello, giovane fotografa e videoartista torinese, ha iniziato presto a viaggiare per l'Europa. Dopo aver vissuto due anni a Londra, ha studiato e si è laureata a Bologna al Dams, ed è ora dottoranda presso il Politecnico di Torino.
Porta avanti un discorso artistico che abbraccia le arti grafiche, la fotografia e la videoarte.
I suoi lavori più che fotografie vengono definiti dalla stessa artista come “elaborazioni”.


Innanzitutto che cosa puoi dirci riguardo il tuo percorso artistico, come è iniziato?
È iniziato per gioco, come spesso accade. Ho iniziato ad utilizzare il computer con l'intenzione di trasformare le immagini, come con l'intenzione di volerne mutare la primissima forma che catturavo. Poi ho iniziato ad avvertire una sorta di fascino per lo spazio vuoto, e lì credo sia iniziato il mio percorso vero e proprio.

Parli di spazio vuoto. Sei influenzata dalle discipline orientali?
Sicuramente fra i miei interessi si possono includere le filosofie orientali. Dal tao allo zen, il concetto giapponese del ki. A livello artistico sono attratta inoltre dalle grafiche giapponesi.

Dunque per te la ricerca artistica va in parallelo con quella interiore/esistenziale?
Ho passato sei mesi a lavorare su alcuni lavori a cui ho dato il nome di Meditazioni in bianco, ed è stata una ricerca che è andata certamente di pari passo con un'indagine che svolgevo su me stessa. Man mano riducevo tutto all'essenza, fino a vedere il segno come conseguenza dello spazio vuoto che scaturisce dall'immagine.


Quali tecniche utilizzi e prediligi?
Per quel che riguarda la serie dei paesaggi essenziali e delle meditazioni la tecnica che uso è quella di partire dal pieno per eliminare parti dell'immagine. Arrivare al vuoto. Le Meditazioni sono quaranta immagini tratte dallo stesso negativo. È un modo per vedere le infinite variazioni generate dalla stessa matrice. Negli ultimi lavori, come Boulevard, dove lavoro sul corpo nella danza e sul ritratto, la macchina tenta di ricostruire una figura attraverso frammenti di luce nel buio. Ma non ne deriva che un'immagine dove non è più possibile distinguere confini e contorni. I soggetti in questo modo appaiono in tutta la loro profonda ambiguità, esplosioni della figura dove il limite diventa materia creativa. È importante precisare che queste fotografie non sono affatto modificate se non con tecniche che appartengono anche alla stampa analogica, con la differenza che intendo sfruttare la qualità anche materica del pixel.

Come sei giunta dai primi lavori astratti a questa ultima fase ritrattistica?
Inizialmente ero più interessata ad indagare sulla forma pura, poi mi è venuto naturale approdare ai corpi. Mi sembrava poi particolarmente interessante applicare questa tecnica al ritratto dove il volto umano viene reso simile a un paesaggio e vengono messe in risalto forme a cui normalmente non prestiamo attenzione. Richiama memorie di cui non si è consapevoli.

Ho notato, in alcuni tuoi lavori astratti, che questo discorso relativo all'emergere di figure a cui normalmente non si fa caso, viene sviluppato quasi come fosse un gioco con le nuvole.
È come con quelle immagini che viste con un certo focus producono una forma tridimensionale, ma in questo caso l'interpretazione visiva è soggetta a infinite possibilità di lettura e di esplorazione. Ci si deve focalizzare su di un certo piano che non è quello previsto dalla cornice.