tag:blogger.com,1999:blog-88973508503409107192024-02-20T19:00:42.008-08:00COGITO ERGO ESTFogliomondo di Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.comBlogger84125tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-88261625968078500772012-05-02T06:45:00.003-07:002012-05-02T06:45:34.191-07:00Il nuovo indirizzo di COGITO ERGO EST è:
http://cogitoergoest.wordpress.com/Luca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-32651823244269377092012-03-21T08:11:00.002-07:002012-03-21T08:14:15.538-07:00TORINO MAD PRIDE TEATROCome tutte le iniziative del Torino Mad pride, anche la rassegna teatrale ha come obiettivo quello di creare un'interazione fra il mondo dei cosidetti “normali” e quello dei “matti”. Una parte (calendarizzata) si svolge presso la struttura dell'ex poveri vecchi, in via San Marino 10, ed è quella che ospita compagnie di professionisti o semi-tali conosciuti nel circuito torinese, che recandosi presso la struttura dell' ASL 1 hanno modo di incontrare i pazienti dei centri diurni, c.s.m., comunità e quant'altro.<br /><br />Un'altra parte, non calendarizzata, si colloca presso i locali e teatri di Torino, dove invece chi si esibisce sono proprio persone che vivono disagi psichici i quali incontrano la vita dei “normali”.<br /><br />Perché questa netta divisione, se è proprio l'incontro e l'interazione che si ricerca?<br /><br />La realtà della ghettizzazione è imprescindibile, non si può trascurarne l'esistenza. La situazione attuale è così. La rassegna teatrale è un vero e proprio trait d'union.<br /><br />La rassegna, di per sé, è un grande evento che si muove oltre il teatro e intende simboleggiare la crescita di Torino Mad Pride, quindi la formazione della sua identità. Il lavoro che spera di svolgere è incentrato oltre che sulla cultura, anche sull'incontro. Il teatro da sempre è stato un modo per creare aggregazione, narrare, ritualizzare. Il fatto che i pazienti psichiatrici e le persone “normali” si incontrino e condividano questo genere di esperienza umana, credo vada oltre qualsiasi interpretazione che si serva di etichette. Ci si incontra fra uomini e si festeggia la diversità di ciascuno, il che è pleonastico, perché questo, credo, è il significato dell'incontro, sempre. <br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-35775616355118172722012-03-08T08:13:00.004-08:002012-03-08T11:18:01.867-08:00ODRADEK<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhze32u8eWmSWwGz_3EfhEt3FTf3g41mVRXKZQlNrwzUlkyGEelTw4ag8qwBAQm12tXFO6WXElQVRz9f1-R0zCObbLwOClzlqq5JdStv6y3jDqlj6plKQZjVGjNoiScxfMJKO8O-thf0vg/s1600/14934_kafka_franz.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 141px; height: 200px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhze32u8eWmSWwGz_3EfhEt3FTf3g41mVRXKZQlNrwzUlkyGEelTw4ag8qwBAQm12tXFO6WXElQVRz9f1-R0zCObbLwOClzlqq5JdStv6y3jDqlj6plKQZjVGjNoiScxfMJKO8O-thf0vg/s200/14934_kafka_franz.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5717560597843616866" /></a><br /><br /><br /><br />"Gli uni dicono che la parola Odradek derivi dallo slavo e cercano in questo modo di rintracciare la formazione della parola. Altri invece pensano che derivi dal tedesco, e sia soltanto influenzata dallo slavo. L'incertezza di questi due pareri però lascia forse concludere a ragione che nessuno dei due sia giusto, soprattutto che con nessuno dei due si riesca a trovare un significato della parola. Naturalmente nessuno si occuperebbe di simili studi, se non ci fosse davvero un essere che si chiama Odradek."<br /><br />Il cruccio di un padre di famiglia, Franz Kafka<br /><br />Questo era l'ìncipit del misterioso racconto di Franz Kafka, intitolato "il cruccio di un padre di famiglia". Esso si forma di una narrazione che si muove intorno alla descrizione di un oggetto, il quale a tratti sembra diventare un essere vivente, per poi mostrarsi addirittura come umano. Inizialmente Kafka lo paragona a un "rocchetto di spago piatto a forma di stella" fino ad arrivare, dopo disparate contraddizioni, a farcelo immaginare come mobile, perciò animato, e alfine addirittura giungere a rivelarci la sua capacità di parlare, per concludere iperbolicamente con la rivelazione che sia addirittura immortale. <br />Che motivo avrà avuto Kafka di scrivere un racconto a tal punto bizzarro, illogico e buffo?<br />Può esserci nascosta dietro un' intenzione filosofica, dove si voglia indagare l'ontologia di qualcosa che non può in alcun modo essere. Qualcosa che violi il principio di non contraddizione aristotelico. <br />Può essere, anche se credo che Kafka avesse l'intima intenzione di andare oltre questi più (seppur legittimi) argomenti prevedibili. Forse, sarebbe meglio pensare che il suo desiderio fosse quello di andare più nello specifico, all'interno di un particolare intrascurabile. <br />Per prima cosa, credo che Kafka alluda, con Odradek, vagamente a sé stesso. Infatti Odradek, come Kafka, non è né slavo né tedesco. Ride senza polmoni, e si sa che Kafka soffrisse problemi di natura polmonare. Viene descritto come taciturno, e un tratto caratteriale di Kafka era certo la timidezza estrema. Sembra quasi che Kafka descriva sé stesso agli occhi di un padre che sia disgustato dal proprio figlio. Come se quel padre che lui tanto odiava (e che pare corrispondesse il suo sentimento) non fosse, tutto sommato, che un padre interiore. Un padre che lui, figlio, si sarebbe trovato costretto a sopportare dentro di sé fino alla fine dei suoi giorni. Forse quell'Odradek è per questi una minaccia perché vede il suo unico desiderio di distruggerlo, farlo fuori, liberarsene. Teme che gli possa sopravvivere, come a far restare di sé unicamente la propria negazione. <br />Credo che questo pretesto intimista, già di per sé oscuro, sia destinato a un' interpretazione più strettamente letteraria. Credo che Odradek sia per Kafka la "impersonificazione spersonificata" della sua letteratura, pensata come un magma sottile e cartaceo che si muove senza direzione. Unica figlia di Kafka, come parte di lui che sopravviverà, e si muoverà come un'ombra impalpabile, fra le interpretazioni, le strumentalizzazioni, le impressioni dei lettori. Come un vagito il quale prenda vita e abdichi al desiderio primario di chi l'ha generato. <br />Come se tutto sommato potessimo pensare che Odradek non sia che il sunto di una simmetria fatale fra il padre e Kafka e il Kafka padre e il suo figlio, con la paradossale conformità fra i quattro, sempre impalpabili, sempre e inesorabilmente Odradek.<br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-24057074165814142102012-02-15T06:03:00.002-08:002012-02-15T15:12:38.592-08:00LOGOS E DELIRIOOgni condizione che non ammetta punti di appoggio, e che perciò escluda luogo, è quella definita come estatica, mistica, o anche infernale.<br />Il punto di appoggio qui inteso, si compone delle certezze, le memorie, i dogmi, i dati di pensiero che rendono possibile una collocazione all'interno dell'individualità (superficie bidimensionale). Un'azione riflessa che a partire da un dato di realtà, dona una casa al pensiero, colloca la coscienza all'interno di un determinato spazio e rende possibile una conseguente ermeneutica. In poche parole, l'esperienza della cultura, una eco che conclama la verità archiviata nelle tracce del linguaggio, l'arte e quant'altro. È un'esigenza necessaria e inevitabile, considerato che senza appoggio di alcuna sorta non potrebbe che restare un'eterna angoscia, solo desiderante, priva d'impatto, propriamente in quanto presa di coscienza di quella condizione degenerata che è la coscienza stessa (un punto d'arrivo ma senza un Padre. Abbiamo bisogno di un Padre). <br />L'uomo ha visto troppo, e perciò necessita di porre tregua al suo abbaglio con continue ammortizzazioni che lo rendano soggetto. È la morte la prima grande fine. Gli oggetti sono la conseguenza. Innumerevoli fini, costellazioni di enti, per loro natura menzogneri e distanti. <br />Per vivere abbiamo bisogno di viaggiare sempre a rasoterra, senza toccare il fondo, perché (chiosando Heidegger) è lì che la verità accade: nell'oblio.<br />Il logos di cui già parlava Eraclito, nucleo psicotico agli occhi di ogni possibile dissacratore curioso (nemico e amante dell'angoscia) è un serpente elettrico che incessantemente distrugge quel grande granito che è il nulla. E così si genera il tempo, accadono gli opposti e il nulla è il grande schermo. <br />Ma tutto ciò non può essere raccontato. Le orecchie accolgono gli avanzi, e danno agli altri gli avanzi degli avanzi. E tutto ciò che avanza è il passato. <br />Ecco che anche quello che ci accingiamo a spiegare, diventa una falsificazione, ci allontana dall'accadere di questa verità. Ogni cosa che le labbra dicano, per voce Sua, sono giuste. È la verità del delirio. Il logos parla attraverso il delirio, gli è sufficiente il dire. Ma ciò che sta dietro è incomunicabile, misterioso e indicibile. Esso è completo, non cerca frammenti. È intero nei frammenti (citando Lao Tze). <br />Amare la verità. Il pazzo è un grande filosofo, se s'innamora. Se sceglie di amare. <br />Se dovessimo mostrarne qualcosa, ci arrenderemmo al kitsch, quello che nella concezione che ne traeva Hermann Broch si genera nell'esigenza ansiosa del bello, di oggetto chiuso e perfetto che resti come avanzo, qualora l'Essere viva nel totale oblio, nel trionfo totale del senso (e luogo) comune, in riverbero d'eco, paradossalmente manifesto nella sua falsità.<br />Raccontare qualcosa agli altri è un'inezia, ma necessaria alle volte. Forse è necessario che qualcosa poco alla volta si sappia. Sarà falso, sempre, ma l'unica cosa che ci chieda questo Nessuno (dal fondo del suo silenzio, sempre detto ma mai ascoltato) è di liberarsi.<br />Un compito. E la fede è sempre cieca.<br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-1912065628307770692012-01-26T10:51:00.000-08:002012-01-26T16:24:05.182-08:00MATTI DENTRO LE RIGHE"Ci sono sempre falsi profeti. Ma nel caso della psichiatria è la profezia stessa ad essere falsa, nel suo impedire, con lo schema delle definizioni e classificazioni dei comportamenti e con la violenza con cui li reprime, la comprensione della sofferenza, delle sue origini, del suo rapporto con la realtà della vita e con la possibilità di espressione che l'uomo in essa trova o non trova." Franco Basaglia<br /><br /><br /><br /><br /><br />Soggiornare dentro un “repartino” o vivere in una casa-appartamento etc sono esperienze e condizioni che possono apportare per ciascuno un significato diverso. Per alcuni rappresentano il crisma di un'esistenza fallita, per altri un alibi, per altri ancora una campana di vetro o un inferno e via elencando.<br /> Per tutti hanno una funzione (dichiarata), ed è quella di riabilitare alla vita riconosciuta consensualmente come “normale”. <br />Consenso e norma, due concetti assai vaghi, che rendono altrettanto aleatoria una possibile risposta alla domanda: che cosa significa curare un malato mentale?<br />Qualora una persona si trovi a vivere una crisi psichica profonda, prima ancora di essere ricoverato, gli possono capitare migliaia di cose, accompagnate da due sentimenti ricorrenti: la paura e la vergogna. <br />Paura del mondo e di sé stessi, e di conseguenza vergogna. <br />Ogni qual volta si esca fuori dalle righe, ecco pronti gli occhi giudicatori, molto più sottili, attenti e invisibili di quanto ci si aspetti. Molto spesso sono gli occhi carnefici che nascondiamo dentro noi stessi.. <br />Ci sono comportamenti che sfuggono all'interpretazione, alla comprensione e alle lenti sicure con le quali siamo normalmente abituati a leggere il mondo. Così quel determinato modo di essere va nascosto, rieducato, reinserito (e spesso il concetto di educazione coincide con il cancellamento).<br />Durante i giorni o soggiorni di reclusione, avviene innanzitutto uno svuotamento dell'identità. I farmaci assumono un ruolo primario. La vita individuale viene venduta all'istituzione, e così viene prosciugata, incasellata. Viene ad aggiungersi un terzo cognome. Mario Rossi schizofrenico, Francesco Vattelapesca bipolare e via dicendo.<br />La malattia è il primo passo verso un'oggettivazione. Tutto questo per rendere la situazione più comprensibile, o meglio controllabile..<br />Parlo della vita da malato, svolta fra i centri diurni, i c.s.m, le case appartamento, conchiusa in una logica coercitiva che stampa sulla fronte della Persona uno stigma di invalidità, molto spesso comodo sia al paziente che al mondo del lavoro. Ed ecco che una persona dotata di particolare sensibilità, acquisisce magicamente gli stessi privilegi di cui gode il disabile motorio o via dicendo.<br />Una subdola e insidiosa forma di biopolitica va a delineare le potenzialità corporee di queste persone. Nelle case appartamento, repartini o altri di questi luoghi non si può fare l'amore (gli educatori concedono ai pazienti di andare con le puttane, questo è il confine del sentimento) tutte le attività che vengono svolte dai pazienti sono spesso private del loro valore ed essi stessi privati del loro merito che viene scippato dall'istituzione, così che ogni attività ricreativa (artistica o quant'altro) si mostra come terapeutica, riabilitativa. <br />Così sulla pelle del soggetto iniziano a scriversi libri su libri che portano i volti del trauma. Tutto per non creare troppo disagio nelle signorine e signorotti del centro città, dalle tanto urbane abitudini.<br />Perché non è bene che i matti ricevano troppi stimoli, perché è bene che arrivi l'ora del risperdal, perché non è possibile per essi fare scelte sensate che gli permettano di vivere nel nostro beneamato paese democratico, non è bene che votino, che lavorino, che vivano in una casa normale. Tutto questo limite è imposto dal mondo del lavoro e dall'economia tanto sana, che nel caso in cui se ne deragliassero i contorni, ti concede l'assistenza e la pietà, e magari un po' di violenza, che non fa “mai male”. Che dire? Perché, direbbero alcuni dottori: siamo interessati a mettere “i matti dentro le righe, non sopra”. <br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-86424237707771722532012-01-12T06:42:00.000-08:002012-01-15T07:36:46.722-08:00NOSTALGIA DEL TOTALMENTE ALTROC'è un saggio che ho letto e che mi sembra molto attuale, ed è di Max Horkheimer, si intitola “Nostalgia del totalmente altro” (1970). <br />È un saggio che riesce a trattare insieme una interpretazione del pensiero marxista (quindi comprendente la letteratura anche francofortese) e la teologia. <br />Horkheimer appare come un marxista fatalista. Sembra che la sua sia una presa di coscienza dell'ineluttabile e necessario mutamento storico, dal quale è possibile trarre stralci oracolari di preveggenza, in fondo esattamente come faceva Karl Marx, o come farebbe qualsiasi economista accorto.<br />La sua lungimiranza stava nel prevedere che la società dell'epoca sarebbe andata verso una crescente e progressiva razionalizzazione, fino a diventare completamente amministrata. Addirittura sarebbero spariti i grandi “capi”, le figure di potere, perché una volta insediato il potere e concluso il processo di amministrazione totale, tutto sarebbe venuto da sé.<br />L'era dell'accelerazione, della fretta. Un'era però al contempo “bipolare”. Bipolare nel senso psichiatrico del termine (allegoricamente-ma non troppo-parlando) perché alla fretta e al controllo si contrappone un nascosto bagaglio di patimento, di insoddisfazione, di inadeguatezza, di nostalgia, appunto, del totalmente altro.<br /><br />Così Horkheimer propone un argomento strettamente teologico di derivazione quasi mistico-negativa. <br />Si sa che egli fosse di religione ebraica, e difatti affronta un'analisi molto interessante sul nome stesso di Dio, scritto con un apostrofo. L'ambito del teologico viene pensato qui, come quello che riempie la più totale negazione dell'identità costituita del potere totalitario (in questo caso capitalistico). Un'irrazionale ma non razionalizzato. Tutto l'impensabile, come ritorno all'esperienza indecifrabile e perciò stesso non amministrabile.<br />Sembra che Horkheimer pensi alla sfera teologica come rappresentante di quell'unica forma di resistenza. Quasi un'arma bellica.<br /><br />« Teologia significa qui la coscienza che il mondo è fenomeno, che non è la verità assoluta, la quale solo è la realtà ultima. La teologia è - devo esprimermi con molta cautela - la speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l'ingiustizia possa essere l'ultima parola » (Horkheimer – nostalgia del totalmente altro)<br /><br />Sembra anche che (nonostante i due non fossero perfettamente in linea) ci sia una vicinanza con la famosa frase di Heidegger “solo un Dio può salvarci”. <br /><br /><br />« ma può produrre solo la speranza che ci sia un assoluto positivo. Di fronte al dolore del mondo, di fronte all'ingiustizia, è impossibile credere nel dogma dell'esistenza di un Dio onnipotente e sommamente buono. » (Horkheimer – nostalgia del totalmente altro)<br /><br />È quella speranza che sorge dalla più totale disperazione. La speranza di una giustizia finale, che potrebbe essere parafrasata con la “speranza della fine”. Una speranza che forse deve rimanere tale, proprio perché pensata in vista di un assoluto non potrebbe che contraddire sé stessa. Credo personalmente che sia la speranza di ciò che già c'è, o anzi di ciò che va oltre l'essere, oltre il definito, oltre quell' hegeliano cammino verso il sapere assoluto. <br />Una semplice nostalgia, un semplice sentimento. Un sentimento da conservare, come arma estrema di lotta. <br />La negazione più assoluta e silente.<br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-674974223799279102012-01-02T06:49:00.000-08:002012-01-03T07:21:21.955-08:00BODY ART di Don deLillo<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh2m-kILaUw_IJPVS98A64BjMURAzQR-WFTb17XOk-3IS4O9LQL12xDMS4nCrqRqTLsAYn17DXsoKKVUMpnDnWSRhv9KnfkqiR0z-DBnR7CYR1AxsEAL7fJKOYONbiZK5woT5J7YTu4hRQ/s1600/dondelillo-bodyart.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 200px; height: 200px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh2m-kILaUw_IJPVS98A64BjMURAzQR-WFTb17XOk-3IS4O9LQL12xDMS4nCrqRqTLsAYn17DXsoKKVUMpnDnWSRhv9KnfkqiR0z-DBnR7CYR1AxsEAL7fJKOYONbiZK5woT5J7YTu4hRQ/s200/dondelillo-bodyart.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5693047588890138098" /></a><br />“Il tempo sembra passare. Il mondo accade, gli attimi si svolgono, e tu ti fermi a guardare un ragno attaccato alla ragnatela. C'è una luce nitida, un senso di cose delineate con precisione, strisce di lucentezza liquida sulla baia. In una giornata chiara e luminosa dopo un temporale, quando la più piccola delle foglie cadute è trafitta di consapevolezza, tu sai con maggiore sicurezza chi sei. Nel rumore del vento tra i pini, il mondo viene alla luce, in modo irreversibile, e il ragno resta attaccato alla regnatela agitata dal vento.”<br /><br />Trovo che Body art di Don de lillo si presenti come uno dei casi più interessanti e coinvolgenti all'interno del panorama narrativo contemporaneo (o in questo caso anche cosiddetto post-moderno). Un romanzo breve quanto intenso. Scritto con uno stile a tratti poetico, a tratti minuzioso, dettagliato, cinematografico, spigoloso, visionario. <br />La storia (dalla trama molto semplice) tratta di un lutto vissuto dalla protagonista, Hartke, una bodyartista, in seguito al suicidio del suo compagno, il regista Rey Robles, con le naturali conseguenze post-abbandono, vissute fin nel profondo delle viscere, fino ad arrivare a interagire con un'allucinazione che si muove dentro casa sua: un uomo deforme che parla in un linguaggio a tratti incomprensibile, dall'aspetto e i contorni vagamente irreali. Lo soprannomina Mr Tuttle, come un suo insegnante di scienze del liceo. <br />È come se Mr tuttle, fosse l'impersonificazione del suo lutto stesso. <br /><br /><br />La cura e l'attenzione sul corpo che la protagonista ripone nella sua arte, credo che rappresentino una vera metafora (fisica) dell'anima. C'è, in quel che narra de Lillo, una forte coincidenza fra il corpo e l'anima. È come se dal momento in cui Robles muore, una parte dell'anima di Hartke venisse amputata. Una parte della sua anima che era Robles stesso. Quindi a lei tocca ora confrontarsi con la sua mancanza, il suo vuoto, come se in realtà quell'amputazione fosse paradossalmente un completamento (fuor di cinismo).<br />Questo vuoto prende la forma di un personaggio. Dice: “essere qui mi è capitato. Io sono con il momento. Lascerò il momento. Sedia. Tavolo, corridoio, parete, tutto per il momento...” momento che si mostra a mio parere come l'identificazione di quel luogo dell'anima e del corpo cui lui stesso appartiene (più che proviene). È come se lui appartenesse a un qualcosa che pulsa in Hartke. Quella parte priva di identità, che si muove nello spazio-tempo, senza un fine, un progetto. Forse la parte più sacra. Quella parte che Deleuze avrebbe fatto abitare all'interno dell' Aion, al di fuori del tempo Cronos. Come se una volta venuta a mancare la protesi amorosa rappresentata da Robles, ella si trovasse a confrontarsi con lo stato di cose del suo corpo, in quella zona specifica. Forse la zona del cuore, o la zona dello stomaco. La mancanza fa traspirare in lei la visione della sua stessa condizione nel luogo corporale e dell'anima (quindi coincidenti). <br /> È come se quell'allucinazione fosse una materializzazione visiva (o chissà) della sua stessa malattia. Il suo lutto. La sua condizione di incompletezza. Forse proprio perché Harke cerca di liberarsi del suo corpo, come se il processo in lei fosse quello di rendere sempre più minima la materia di cui è fatta. Come se quella condizione che lei vive, fosse un po' la sua stessa morte irrisolta. Un tentativo di sopire e di mettere a tacere un desiderio, un attaccamento. Come se in fondo la stessa esistenza di Robles, fosse parte della sua vita stessa, e ora non gli toccasse che diventare sempre più uno. <br />Un romanzo che spiega la inesorabile realtà della solitudine. Un romanzo sul solipsismo. Su quanto forse il fallimento di un amore (per qualsiasi ragione) spezzi una sorta di miracolo, obblighi di conseguenza gli uomini ad amare sé stessi. Tornare ad essere il proprio completamento. Come se in fondo liberarsi dal proprio corpo, non significhi nient'altro che completarsi, come non poggiare più su alcunché.<br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-53555482349237237992011-12-24T13:29:00.000-08:002011-12-27T10:36:04.312-08:00IL PARADOSSO DI LEOPARDISosteneva Francesco de Sanctis, che nella poesia di Leopardi riposasse un recondito e profondo vitalismo. Osservazione acuta, ma al contempo superficiale e inesatta se si vuole prestare occhio all'opera del poeta nell'insieme. Perché è vero che quella continua e ossessiva rappresentazione della morte crei per effetto contrario il riaccendimento della vita stessa, ma è anche vero che è proprio lo stesso dolore ad essere il centro di attenzione nel tormentoso paradosso Leopardiano. Il dolore come resto fossile della vita autentica. <br /><br />In che cosa consiste più precisamente questo paradosso?<br /><br />C'è nella poesia di Leopardi un attrazione spuria per la purezza più originaria. Una fascinazione di provenienza reazionaria e al contempo assetata di liberazione. Consapevole, quindi, della condanna cui poggiamo che porta il nome di Storia. Un perenne stato di distanziamento dalla felicità, ma visto da vicino nel suo accadere necessario. <br />Ed ecco che rievocato il senso di questo paradosso, comprendiamo come per Leopardi non possa esserci felicità nell'aspetto di vita vicino al sociale, all'allegro convivialismo, nella comunicazione rimembrante, la risata istantanea e condivisa. L'amore che Leopardi mostra verso la vita è totale, afferra tutta la sua sostanza come a presagire l'ultimo sospiro. Un amore che lo portò a ingobbirsi, nella ricerca di poter giungere a ciò che si è perso. <br />Anelare sospirante all'impossibile, come unico spirito nascosto.<br /><br /><br />“Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. “ Zibaldone 1820<br /><br /><br />La consapevolezza della condizione umana nella peculiarità del suo esser rea d'aver inventato il piacere, la gioia, il dolore stesso. La natura diabolica della divisione. L'uscita fuori dal giardino dell'eden, dove non vi è piacere né dolore. L'amor fati come resa illusoriamente finale, perché sempre addossata come destino ineluttabile. Il dolore stesso è una condizione necessaria. Si presenta come aspetto della vita stessa. Come l'unico effettivo. Come se in Leopardi tutto il possibile fosse esistente, e per ciò stesso ci si debba confrontare appieno, fino a rimanere in quel “bruscolo” che è poco più di un nulla, che siamo noi, dove niente accade di distinto per ciascuno. Quella povera cosa che noi siamo, che è nell'effettiva condizione della sofferenza, e rende possibile la duplice natura come conditio della contemplazione. <br /><br /><br />“...Bella Morte, pietosa<br />Tu sola al mondo dei terreni affanni,<br />Se celebrata mai<br />Fosti da me, s'al tuo divino stato<br />L'onte del volgo ingrato<br />Ricompensar tentai,<br />Non tardar più, t'inchina<br />A disusati preghi,<br />Chiudi alla luce omai<br />Questi occhi tristi, o dell'età reina.<br />Me certo troverai, qual si sia l'ora<br />Che tu le penne al mio pregar dispieghi,<br />Erta la fronte, armato,<br />E renitente al fato,<br />La man che flagellando si colora<br />Nel mio sangue innocente<br />Non ricolmar di lode,<br />Non benedir, com'usa<br />Per antica viltà l'umana gente;<br />Ogni vana speranza onde consola<br />Se coi fanciulli il mondo,<br />Ogni conforto stolto<br />Gittar da me; null'altro in alcun tempo<br />Sperar, se non te sola;... “ amore e morte, i canti<br /><br /><br />È onnipresente l'ambiguità e il doppio, nella poetica leopardiana. Come quando egli confonde l'amore con la morte. Forse perché è la lotta contro l'indifferenza che solo nell' amore e la morte stesse si rende manifesta. L'indifferenza dell'ingiustificato. Di tutto ciò che non sorge come anelito espressivo di verità, se con questo termine intendiamo l'unità originaria nei confronti della quale siamo resi ciechi, e che declamiamo in preghiera silente dentro il cuore, come atto creatore ex nihilo, dove forse la speranza è quella di tendere non tanto alla creazione, ma più precisamente al ricongiungimento. E forse si nasconde proprio lì la chiave della coincidentia oppositorum fra amore e morte, laddove nell'unità indistinta, non esiste per definizione, alcuna distinzione.<br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-62952014336351520732011-12-23T08:51:00.000-08:002011-12-30T17:40:15.917-08:00PERCHE' SONO IMPORTANTI I RITUALI?Interpretare i sogni è possibile solo disponendo la posizione della realtà. È sempre durante la veglia che noi possiamo appropriarci dei sogni e quindi attribuire ai segni di cui sono composti, una traduzione di ogni intenzionalità recondita del nostro inconscio.<br />Durante il sogno ci sembra tutto vero, non possiamo pensare di stare sognando, perché quella è la nostra realtà. <br /><br />Due sono i principi: distanza e relazione.<br /><br />Il sogno è tale in rapporto alla realtà lo rende tale, nel distinguo con sé stessa. Essa è simile a un sogno ravvicinato che rimanda a un'altra dimensione ulteriore, quella che noi siamo soliti (secondo il linguaggio che utilizziamo al suo interno) definire come il sacro, il tremendo, ciò che “va oltre la nostra conoscenza”. La realtà è però carica di segni e di simboli, esattamente come il sogno. Il sogno ci parla ed è lì per comunicarci qualcosa. Ebbene anche la realtà. <br />Attenzione, di per sé sia il sogno che la realtà scaturiscono dal caos, quindi in sé non avrebbero significato, se non fosse per l'interpretazione in sé. Essa scaturisce sempre dalla soggettività, dall'attribuzione di significato, dalla lettura e la donazione di senso che vengono riferiti a un certo elemento o aspetto che sappiamo provenire si dal caos ma non per caso. <br />Dunque l'inconscio ci parla attraverso i sogni e qualcos'altro ci parla attraverso la realtà. La problematica che insorge a questo punto è quella che consegue alla presa d'atto che la realtà è si interpretabile in ogni suo aspetto, cioè rimandabile alla propria soggettività e traducibile , ma che se noi facessimo questo senza poggiare su alcuna determinazione cronologica e narrativa di inizio e fine, i segni ci travolgerebbero come uno tsunami che ci condurrebbe verso la follia.<br />È necessario perciò ricreare la stessa distanza che si crea con il sogno e che rende possibile l'interpretazione, con la realtà. Distanziarsi da essa e dare un inizio e una fine. Rendere la realtà qualcosa d'altro. Portarsi ad un'altra dimensione. <br /> Alla radice è il rituale. Creare un rituale rende possibile una fuoriuscita dal piano del reale per riportarci verso la dimensione del sacro, tramite la quale possiamo leggere la realtà e interpretarne i segni. Ad essi diamo inizio e fine. Li rendiamo simili ai sogni. Costruiamo uno specchio e sopra di esso iniziamo a leggere. <br /><br />“quando cerchi di conoscere le cose non trovi che lo specchio. Quando cerchi di conoscere lo specchio non trovi che le cose”. Friedrich Nietzsche<br /><br />Uscire fuori dalla realtà significa compiere un sacrificio. Distruzione del significato delle cose. Eccedere l'utile e la ragione. Eccedere la progettualità. Con questo avviene che noi ci si dispropri dell'abbandono originario cui “apparteniamo” da e per sempre. Ogni attimo di realtà è un piccolo segmento posizionato all'interno dell'illimitato, così come il sogno lo è all'interno del reale. <br />I rituali sono sogni fabbricati che utilizziamo per portarci a una consapevolezza sovrana che guardi al messaggio che proviene dall'oltre. <br />Senza i rituali potremmo iniziare a credere nella realtà, e quindi di conseguenza, perdere il nostro senno.<br /><br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-68543039499439824762011-12-22T06:47:00.000-08:002011-12-22T06:48:54.537-08:00LA VOLONTA' DIVISArecensione di Dino Mangiascarpe<br /><br />21 dicembre 2011<br /><br />Con Emilio Bonelli <br />Regia di Luca Attori<br />Musiche Alessandro de Caro<br />Grafica Monica Petronzi<br />Tecnico luci Ezio Olivato<br /><br />Produzione P.ARS<br /><br />Seconda tappa: gli uomini bisogna guardarli dall’alto<br /><br />Per questa seconda tappa, è stato scelto come luogo di collocazione de la “Volontà divisa”, il Rainbow, un locale nella zona del quadrilatero romano di Torino. È stata scelta la zona sotterranea, dove in tre diverse stanze è stata trasferita la drammaturgia scenica della prima versione svoltasi all’Espace il 13 dicembre. <br />Paolo Hilbert, un sociopatico disgustato dal genere umano, progetta una sparatoria con la quale spera di sfogare il suo antico rancore. Pressappoco questa è la tematica.<br />Nella rappresentazione di Luca Atzori, Paolo usa come interlocutore un pesciolino rosso dentro un acquario, forse a cercare un confronto con qualcuno o qualcosa che possa si ascoltarlo, ma insieme non capirlo.<br />Che dire sulla resa?<br />L’attore dimostra certamente di avere una grande espressività e una determinata forza nel mantenere in piedi tutta la vicenda.<br />Ma l’esito del lavoro sembra dannatamente incompleto. Certo, è un work in progress. Ma sorgono spontanee alcune considerazioni:<br />Innanzitutto, trasferire una messinscena pensata appositamente per uno spazio teatrale, all’interno di tre stanze strette, significa inevitabilmente ri-contestualizzare tutto il lavoro conservandone le parti più essenziali. Se però consideriamo il fatto che l’attore è costretto a interagire con il pubblico in una situazione in cui non gli è concesso di pensare insieme a dove posizionarsi, che movimenti fare, come dire le battute e sotto quali luci posizionarsi, allora possiamo intuire che probabilmente è saggio escogitare un modo per donare all’attore la completa consapevolezza (fisica e perciò mentale) del personaggio.<br />Emilio Bonelli risultava talvolta essere macchinoso nel suo spostarsi da una stanza e l’altra, come se dovesse adempiere a un dovere. Talvolta si avvisava l’urgenza di dire la battuta, certo nel migliore dei modi possibili e con tutta la forza drammatica necessaria, ma pur sempre ai fini di adempiere a un compito. <br />Il primo pensiero che ho fatto è stato “non hanno lavorato abbastanza sul personaggio. Ovvero non hanno approfondito a livello fisico, non si sono addentrati nelle profondità. Non hanno abbastanza analizzato ed esplorato”. Poi ho pensato, che invece, il problema è che a Emilio, Luca ha dato si le indicazioni su come svolgere il lavoro, conducendolo verso un’espressività il più autentica possibile, ma il tutto occupandosi solo della resa attoriale, carica del difetto di non essersi svelata (all’interno della location del nove) in tutta la sua potenzialità di significato. Mi è sorto così una considerazione “ma è proprio solo l’attore che deve fare un lavoro sul personaggio, oppure anche il regista?”.<br />Il regista, è vero che se desidera fare un lavoro che non resti limitato al semplice invio di comandi, deve partecipare con l’attore nella costruzione della messa in scena, ma a maggior ragione egli stesso dovrà essere l’attore, anche se non andrà in scena.<br />Fra attore e regista, nei lavori ben svolti, credo si venga a creare una relazione empatica, per la quale l’esito non mente mai sull’effettiva condizione cui si è giunti mediante la creazione. Forse, Paolo Hilbert, non è stato digerito ancora nemmeno da Luca Atzori, ed è per questo che si pone un limite alla intensità espressiva di Bonelli. È vero che il lavoro lo fa l’attore, ma alle volte è davvero sufficiente (almeno in uno spettacolo di narrazione come questo) che sia il regista ad aver approfondito prima il personaggio. Intendo nella sua immaginazione. La fisicità, la condizione esistenziale, i tic, sono conseguenza di una approfondita comprensione del testo. Non è necessaria la fedeltà assoluta al testo, ma almeno la visione chiara della propria interpretazione. Questo lavoro, se svolto dal regista, permette poi una collaborazione dove avvenga un risparmio di tempo, perché a quel punto la conduzione sarà molto più diretta, e non si lascerà l’attore in una palude creativa dalla quale ambire di trarre una sorgente. Porre come alternativa alla procedura stil-novistica dei teatri stabili, un metodo che cerca di tirar fuori dall’attore le emozioni sopra l’impalcatura di una drammaturgia scenica che ambisca a parlare da sé, risulta essere incompleto. Perché è la vita di questo personaggio a dover scaturire. La sua realtà. Non importa se poi verrà spezzata, annientata, anche ridotta se vogliamo al silenzio, ma quel viaggio negli inferi deve essere svolto. E non basta farlo fare all’attore, deve impegnarsi anche il regista. Anzi, di più. Il regista, deve sentire, quando lo spettacolo sta per iniziare, la stessa ansia e lo stesso ribollire dell’attore. Perché così è, il teatro è un’alchimia. Ricordare i propri sogni e interpretarli, è come ricordarsi della realtà e farne un rituale, o, appunto, uno spettacolo teatrale, che ci chiede di interpretarlo. Scriverei, se ne avessi tempo, un libro intitolato l’interpretazione della realtà, come seguito all’interpretazione dei sogni di Freud, ma invece della psicoanalisi l’argomento sarebbe il teatro<br /><br />Ma a parte le divagazioni, io credo che l’attore non sia mai da solo (salvo nei casi in cui l' attore sia anche regista e quant’altro). La responsabilità di tutto quel che avviene, è di chi dirige. <br />La collaborazione avviene quando l’attore fa in discesa il percorso che per il regista è stato una salita. Quindi si, è vero, ci si deve confrontare con un attore di formazione classica, ma a maggior ragione, se le indicazioni fossero ancora più dettagliate ( e non nego che già lo siano state) l’attore avrebbe modo di fare il suo lavoro senza dover troppo muoversi nel vuoto alla ricerca di una comprensione. Attore e regista sono uniti, come da un filo invisibile. Li lega la creazione che richiede a entrambi lo stesso sforzo. Non è la messa in scena a dover suscitare interesse, ma quanto sia completa la concretizzazione di un personaggio.<br />Stanislavskji proponeva agli attori e ai registi un lavoro dell’attore (su sé stesso e sul personaggio) ? benissimo. Allora proponiamo anche un lavoro del regista. Proponiamo al regista di conoscere meglio il fantasma e vedrà che poi farlo calzare, diventerà molto più semplice. La taglia che veste l’attore la conosce già, ora tocca solo completare bene la seduta spiritica nella quale da novello si è imbattuto.Luca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-84644408069698410562011-12-16T06:10:00.000-08:002011-12-16T06:12:51.451-08:00<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjl9BZ6ZmNAxjg9CUMhGqUnh24YedyERbEZsIcs05rWUrBIbVnAbOqHkWVrvmazpG6a9QQ4vg7cimJUfXdiH7F7PAjXnj5SsXmBvkjnH0O_Kw2tvh4WBOucS0sC8sE7AUYei1yWbbsNQxc/s1600/silvia%252520lorenzo.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 200px; height: 150px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjl9BZ6ZmNAxjg9CUMhGqUnh24YedyERbEZsIcs05rWUrBIbVnAbOqHkWVrvmazpG6a9QQ4vg7cimJUfXdiH7F7PAjXnj5SsXmBvkjnH0O_Kw2tvh4WBOucS0sC8sE7AUYei1yWbbsNQxc/s200/silvia%252520lorenzo.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5686728865014497954" /></a><br />ANIMA MIA CHE METTI LE ALI<br /> <br />Intervista a Silvia Lorenzo<br /> <br /><br /><br />di Luca Atzori<br /> <br /><br /><br /><br /><br />Ho visto al San Pietro in vincoli, uno spettacolo intitolato “Anima mia che metti le ali” che mi ha colpito profondamente. Tematica interessante riportata con una forte magia (aiutata dalla suggestione del luogo in cui è stato rappresentato). Mi ha colpito la cura nel dettaglio che l'attrice ha dimostrato, la profondità, lo scavo, l'atmosfera vivida nel suo essere altresì oscura. <br />L'attrice (che in questo caso meglio sarebbe definire come artista) è Silvia Lorenzo. La sua formazione (professionale) iniziata con Domenico Castaldo, è di stampo Grotowskiano. Ha poi approfondito lo studio del canto, della danza etc fino a sviluppare un suo metodo personale.<br /> L'ho incontrata in un bar di Torino e abbiamo scambiato quattro chiacchiere.<br /> <br /><br /><br /><br /><br /><br />In questo periodo stai facendo girare il tuo spettacolo “Anima mia che metti le ali”. Puoi parlarmene? Dirmi come è nato, di che cosa tratta, perché è nato etc...<br /> Questo spettacolo è nato perché io ero alla ricerca di una storia che avesse come protagonista una donna fuori dal comune. Una donna ricca di frizioni interiori. Una donna sì forte, ma al contempo piena di paure. <br />Ho cercato questa donna fra i personaggi del teatro, ma non sono rimasta pienamente soddisfatta. Così, prendendo spunto dalla mia passione per la psicoanalisi, sono arrivata al personaggio di Sabina Spielrein. Un mio amico mi ha consigliato di leggere un suo libro e ho scoperto una certa affinità, mi sono sentita accordata con i suoi desideri, le sue emozioni, la sua personalità. Solo lei era andata più a fondo, è diventata folle. <br />Così ho raggruppato alcune sue lettere e ho iniziato a progettare uno spettacolo che fosse basato su di esse. Ho contattato diversi registi che potessero essermi di aiuto, ma ho poi deciso di fare da sola. In realtà una persona mi ha dato una mano, Thimoty Keller, il quale ha drammatizzato il testo.<br /> <br />Qual è stato il processo di preparazione dello spettacolo?<br /> Ho raccolto le lettere e le ho trasferite sulla scena. Ho attraversato una fase iniziale di creazione, fatta di improvvisazioni e scrittura scenica. Per ogni scena c'era un quadro e un buio. Ad ogni momento ho fatto corrispondere un'immagine. <br />Quando lo spettacolo era “pronto” gli mancava però una cosa fondamentale, ovvero una regia. Così ho chiesto aiuto a un regista polacco Prsemek Wasillikovski.<br /> <br />Che tipo di lavoro avete svolto insieme?<br /> Premettendo che seguo un tipo di training di stampo grotowskiano, portando avanti un metodo che ho sviluppato io personalmente, al fine di preparare il corpo ad essere vivo in ogni minima parte e dettaglio, ho approfondito con lui tutta la sfera che riguardava il personaggio, l'esplorazione nel profondo, insomma un percorso di stile Stanislavskiano. Ho lavorato contemporaneamente sul personaggio e su me stessa. <br /><br />Il tuo spettacolo è anche intriso di vocalità <br />Per me l'uso della voce è molto importante. Ho studiato con diversi cantanti, durante la mia formazione. Ho poi iniziato a esplorare la “voce del corpo”, ovvero la voce come conseguenza di un movimento fisico, sempre connessa al tipo di lavoro che ho sempre svolto. <br /><br />Perché hai deciso di fare questo spettacolo?<br /> Perché volevo esplorare la mia interiorità. Avvicinarmi a un testo psicoanalitico e insieme a una donna psicoanalista e insieme folle, mi ha permesso di lavorare in maniera approfondita sia su me stessa che su me come attrice.<br /> <br /><br />Questo spettacolo avrà prossimi sviluppi?<br /> Prossimamente andrò a Bologna e ci lavorerò con un regista, al fine di limarlo. È uno spettacolo in crescita e voglio farlo girare ancora, lo farei girare ancora per anni e anni. Sarà un modo per plasmare una mia opera e insieme me stessa.Luca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-57357296525188625442011-11-30T10:38:00.000-08:002011-12-08T11:25:20.668-08:00UCCIDIAMO L'ARTISTA!Tutto il novecento, è stato, per l'arte, un secolo di risoluzione dei linguaggi. Sono stati affrontati tutti i mezzi espressivi e se ne sono approfondite, per ciascuno, le rispettive potenzialità tecniche. <br />È stato il secolo della cosiddetta “sperimentazione”. <br />In ambito musicale si è passati dalla dodecafonia alla musica seriale, fino alla musica concreta, alla musica monotonale di Giacinto Scelsi e via dicendo arrivando ai filosofi della musica (leggera) come Brian Eno e tutte le varie avanguardie musicali del sottosuolo. <br />In ambito teatrale si è approfondito il discorso concernente l'attore e la regia, passando da Stanislavskij a Mejerhold, Gordon Craig, fino ad arrivare a Grotowski, poi il living theatre che sfondava la quarta parete e Carmelo Bene che amplificava la voce etc.<br />Nell'arte visiva, poi, fra le avanguardie storiche, la fotografia, l'arte concettuale fino alle forme di arte relazionale e così via...<br />Insomma, che secolo è il nostro?<br />Le voci poststrutturaliste strillano a basso tono dentro le orecchie di ognuno, che è stato già fatto tutto. Che ormai non ha più senso fare arte perché tutto è già stato scoperto. Gli artisti rispondono con spirito contestatorio, insieme assecondandone le tesi, producendo arte che tenti di stupire, scandalizzare, innovare etc, cosicché qualcuno possà dire “ah caspita, innovativo!” e l'altro più furbo, a fianco, “nah già visto”.<br />Tutto ciò succede ancora, perché l'arte non è stata abbastanza risolta. O meglio di questo non se ne è presa a pieno la consapevolezza. Essa viene considerata ancora all'interno del suo valore economico, viene oggettivata. Il rapporto soggetto (fruitore) e oggetto (opera) è ancora vivo. <br />Non c'è niente di grave, in fondo è stato fatto tanto per distruggerla, ma si vede che ancora c'è del lavoro da fare. C'è da dire che gli sperimentatori del secolo passato ci hanno tolto il peso di tanto, tanto lavoro. Però, effettivamente, adesso a noi tocca fare una cosa molto semplice, ovvero impadronirci di tutto quello che questi hanno fatto e servircene per esprimere al meglio i nostri contenuti. <br />Se non c'è più niente da inventare, tanto meglio, adesso possiamo concentrarci su quel che abbiamo da dire. Forse è proprio il momento in cui l'arte la si può finalmente fare in libertà, secondo le proprie esigenze, rinunciando a dire “io ho scoperto questo” e via dicendo.<br />Ma in fondo a che cosa tendiamo noi, se non ad una distruzione totale di questa educatrice dell'umanità? Essa è per noi come una madre, che lentamente ci sta lasciando la mano, per dirci “adesso vai nel mondo, e vivi artisticamente”. L'arte è un'educatrice, e l'umanità è sulla fase di terminare la propria adolescenza. <br />Ora l'artista è una figura che sta scomparendo, e si può fare ben poco perché questa cosa non accada. E intendo sottolineare che è una gran fortuna che questo stia succedendo. Era ora!<br />Più semplicemente ci troviamo ad essere uomini che si servono dell'arte per comunicare qualcosa. Almeno così dovrebbe essere. Uscire fuori dalle logiche monetarie dell' “opera quotata” “artista quotato” e via dicendo. Iniziare a considerare che se mai dovessimo essere pagati (come di dovere, sempre) dovrebbe essere per garantirci di vivere e permetterci di svolgere il nostro lavoro. Ma sono convinto che stiamo giungendo verso un'era in cui ci toccherà lentamente di rinunciare alla gloria del nostro ego. La svolta sarà doverosamente collettiva, e quei pochi ego rimasti, lo saranno in sacrificio. <br />Mad pride è una realtà antiartistica. Intende togliere all'arte il suo valore, per portarlo interamente nella vita. La vita rivuole indietro il delirio! Noi intendiamo emanciparlo, da qualsiasi catalogazione. Intendiamo uscire fuori dalla confusione fra essenza e personalità.<br />Non esistono artisti, registi, scrittori, attori, ladri, matti, etc ma esistono uomini. Gli uomini hanno a loro disposizione la scacchiera di tutto quel che già è stato “scoperto” precedentemente. Ora l'unica cosa da fare è iniziare a osare di servirsene (e studiarlo, senza troppi sforzi, se non esperienziali). <br />Si arriverà ad un giorno in cui non ci sarà più bisogno di arte. Sarà quando torneremo a somigliare ai nostri nonni preistorici, ma con quella saggezza in più. Quella che ci è stata donata dai nostri sbagli.<br />L'arte è uno sbaglio. La cultura è uno sbaglio. La Storia è uno sbaglio. La politica è uno sbaglio. La civiltà è uno sbaglio.<br />Uccidiamo l'artista!<br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-91240019334339962622011-11-26T04:01:00.000-08:002011-11-26T04:02:44.414-08:00MAD PRIDE FESTIVAL TEATROMad pride festival non intende presentarsi come una normale rassegna. <br />Anche Mad Pride festival ci tiene a evidenziare la propria diversità con fierezza e orgoglio. <br />A partire dal 2012 Mad pride festival inizierà ad insinuarsi fra i teatri, i locali, le strutture psichiatriche, le sedi delle associazioni che si occupino del disagio mentale etc.<br />Ci saranno diversi tratti che ne contraddistingueranno la “personalità”:<br /><br />Le compagnie teatrali composte da utenti psichiatrici si esibiranno o in locali o in teatri.<br />Le compagnie composte da “normali” teatranti si esibiranno in strutture psichiatriche o comunque vicine agli utenti (case appartamento, associazioni etc) e dovranno trattare argomenti che siano affini al disagio, la follia e quant'altro.<br />Ogni serata di Mad pride festival sarà distinguibile da una girandola presente nella location e ovviamente la mia presenza più presentazione ad ogni inizio spettacolo.<br />Mad pride festival è una rassegna libera, e tende a muoversi in libertà. È una rassegna assolutamente vagabonda.<br />Una piccola percentuale di quel che guadagneranno gli artisti andrà a Mad pride al fine di portare avanti le nostre attività.<br />La nostra finalità è quella di creare un vero e proprio evento che possa generare uno scambio fra due realtà (quella dei “normali” e quella dei “folli”) in maniera che possano essere scardinate (anche solo lontanamente, un giorno) tutte le paure che ancora incombono nelle relazioni fra di esse. <br />Vorremmo raccogliere le volontà di tutta la città di Torino affinché una semplice “rassegna” si trasformi in un vero e proprio evento a lunga durata.<br />I matti devono avere diritto di uscire di casa loro senza per forza avere di mezzo i loro operatori che li controllino ad ogni movimento che facciano.<br />I matti devono avere la possibilità di vedere svolgersi nelle strutture create per loro, spettacoli delle compagnie operanti a torino.<br />“Il teatro è una dichiarazione di follia” C.B.<br />Questo è quanto.<br /><br /><br />Invito tutte le compagnie e le location interessate a contattarmi al numero 3498453004, oppure all'indirizzo email atzori.l@tiscali.it.<br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-35864329676113285422011-11-20T10:50:00.000-08:002011-11-20T11:06:22.158-08:00(E?) OVVERO DELL'E(S)SENZA - recensione dello spettacolo (studio) di Amalia de Bernardis<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhaSobM-NaqqZTxeYpT3O2hwApo2xgyWVefdqZzTz1Aj2pvZtCpjwUTI24WYb9Luo7rb3KvYN2B2biBOF_MGfQdwurWdTbtJiYnpLmjxI3X-aWbdzvqPYUIRAY8dgFyjgaecAA849LknFM/s1600/372831_244559532267743_1541900507_n.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 180px; height: 165px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhaSobM-NaqqZTxeYpT3O2hwApo2xgyWVefdqZzTz1Aj2pvZtCpjwUTI24WYb9Luo7rb3KvYN2B2biBOF_MGfQdwurWdTbtJiYnpLmjxI3X-aWbdzvqPYUIRAY8dgFyjgaecAA849LknFM/s200/372831_244559532267743_1541900507_n.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5677155302013962578" /></a><br />regia,drammaturgia,cura della visione Amalia De Bernardis<br />suggestioni e montaggio video Damiano Monaco<br />suggestioni musicali Pierpaolo Laustino<br />con Pierpaolo Laustino, Claudia Giacosa, Amalia De Bernardis<br /><br />Venerdì 18 Novembre 2011 - Magazzini sul po<br /><br /><br /><br />Sono convinto che scrivere qualsiasi cosa a proposito di uno spettacolo come quello di Amalia de Bernardis, sia del tutto insensato, perché apporterebbe con sé un certo parallelismo di senso, quindi inutile (dal mio punto di vista).<br /> Intendo dire che a mio parere, in “e ovvero dell'essenza”non c'è niente di oggettivo da capire (ovviamente dal mio punto di vista personale e soggettivo). <br />La mia mente non ama fare sforzi. Non li fa non perché sia pigra, ma perché soprattutto quando si pone nella posizione dello spettatore, chiede come minimo sindacale di essere trattata come regina, superbamente lo chiede, certo. Ma è così, ecco. <br />Posso dire che cosa io da spettatore ho pensato vedendo questo spettacolo.<br />Non so se ho personalmente del teatro una concezione chiara. Non credo che nessuno ce l'abbia. Qualora ci si sieda a teatro però credo che sia fondamentale che allo spettatore non venga richiesto nessuno sforzo intellettuale. A teatro non esiste miopia. O vedi, o non vedi.<br />C'è qualcosa di simile alla pornografia. Vedere e basta.<br />Non importa con quali occhi, ma l'importante è vedere. <br />Ci si siede e ci si aspetta di vedere succedere qualcosa. Creare uno strappo su quella che è la stanza segreta dell'artista, ma resa pubblica, senza che ci sia di intorno un qualche residuo di ego, o qualche intenzione recondita. <br />Non credo, personalmente, nel teatro del sottointeso.<br />Procedere con la ridondanza dell'elemento scenico comperato dal macellaio. Il video che occupa mezza stanza e che riporta “per metafora” le interiora dello spettatore. Sentire sussurrate parole che si è costretti a rinunciare ad ascoltare sin da principio. Tutto questo genera un sottile senso di stizza. <br />Perché quel che ho visto è stato un coacervo di materia. Tanti movimenti, tanta simbologia violata. Tanta attenzione richiesta, sin da farla naufragare l' attenzione. <br />Naufragare corale degli spettatori.<br />Ma l'organicità era insufficiente. Non si è fatto davvero il salto dal quale non si torna indietro. Tanta fascinazione. Movimenti illusori. Tanta materia, quindi anche essa illusoria. Tutto troppo spezzato. Tutto troppo ingombrante. Sgrammaticato, si, volutamente. Ma tutto troppo intenzionale. Tutto forse sembrava dire “questo è quel che penso io”. Tutto troppo sotto-inteso. Desiderio di vomitare qualcosa, ma un vomito trattenuto, troppo trattenuto. <br /><br />Indubbio dire che l'idea (per quel che ho intuito) fosse geniale nella sua ambizione. Interessante sicuramente il percorso.<br /><br />Ma che cosa deve fare il teatro? Deve trasmettere? Deve parlare ancora di sé? Che cosa può dire il teatro di sé? <br /><br />Amalia de Bernardis sa benissimo che procedere con la risoluzione dei vari linguaggi artistici è pressoché inutile. Amalia parla dell'urgenza, del contenuto, del genio a discapito del talento.<br />Posso dire, da spettatore occasionale e sincero, che ho visto durante quello spazio di tempo (che non iniziava e non finiva) crescere la mia testa e farsi un pallone. <br />La mia è l'opinione di uno spettatore stupidissimo. Perché io a teatro divento stupido come un insetto. Stupido come un bambino o un folle. Un folle che chiede di essere distratto dai suoi deliri e che ne chiede di nuovi.<br />Io non voglio leggere le spiegazioni di niente. Io voglio vedere.<br />E sta volta non ho visto né sentito niente. Forse era quello che ci si aspettava. Forse anche le nostre valutazioni cambiano in base al tempo, in base a come ci si siede, e come ci si sente. Forse è anche questo il bello del teatro. Mi sono sentito seduto e osservante eccetera eccetera... <br /><br />Luca Atzori (nei panni dello spettatore stupidissimo)Luca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-20374025306853129852011-11-11T11:09:00.000-08:002011-12-08T10:12:35.554-08:00CHE COS'E' LA FEDE?Gli uomini non sanno accogliere presso di sé l'angoscia, poiché essa non ha termine, non ha luogo, non ha colore, non ha voce. E' la strada che ciascuno ha preso in origine, e non c'è tenebra che possa essere resa meno accecante dal tessuto di una tenda. <br />Nessuno ha deciso per nessuno. L'angoscia potrebbe condurre in nessun luogo. Essa è il luogo dell'attesa infinita. Ogni uomo, in realtà, sa in cuor suo che cos'è l'angoscia, e proprio per questo ne è costretto a fugare. <br />Il dolore dell'angoscia rende l'uomo vivo. Perché il solo sapere di essere al mondo, il solo essersi inventati di essere al mondo, in questo indicibile nulla, ci presenta la vita nella sua totalità. Una totalità che sfiora il niente, se non fosse per il respiro.<br />Il respiro che sentiamo nell'angoscia è quello che i Vangeli chiamavano lo Spirito Santo.<br /><br />Che cos'è la fede?<br /><br />La cecità dell'angoscia è necessaria all'abbandono e alla caduta ineluttabile. Ineluttabile è l'ascesa, lo sforzo. Lo sforzo di creare dal nulla, ma senza poggiare su alcunché. Senza accomodarsi mai. Accettare la fatica della vita. <br /><br />Per avere fede bisogna essere Atei.<br /><br />Non bisogna aver accettato alcun Dio. Non bisogna essersi soffermati su alcuna certezza o alcun credo. Avere fede significa raccogliere presso di sé il silenzio, e nient'altro.<br />Accogliere il silenzio nel cuore.<br />Gesù Cristo disse: “ solo chi è uguale a un bambino potrà entrare nel regno dei cieli”.<br />Bisogna perciò vivere la morte interamente, e non lasciare alcun pezzo di sé. La materia è l'unica illusione.<br />Spiega bene che cosa sia la fede un bellissimo film del 1955, con la regia di Dreyer: Ordet. In quel film si racconta di un pazzo convinto di essere Gesù di Nazareth. La sua cognata muore e lui tenendo per mano una bambina fa risorgere la donna.<br />La sua fede è dovuta al suo profondo dolore. Vero e senza misure. Perché ci si possa risvegliare e giungere così ad una forma di gioia ed estasi totale bisogna accogliere il dolore interamente. Il dolore è ciò che noi sentiamo. Ma siamo resi indifferenti da un'anestesia generale, un oblio. Mentre è all'innocenza che bisogna tendere, ma attraverso il lungo travaglio della consapevolezza.<br />E' solo attraverso la più totale concessione della volontà che si fa simili al nulla. E quando si è simili al nulla, allora non resta che creare. <br /><br />"In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio". Vangelo di Giovanni<br /><br />La Parola.<br /><br />Ma il dovere dell'allegria.<br /><br /> E nel mentre il nostro volto bambino si fa mostro, e si nasconde. Noi portiamo presso di noi la nostra maschera e lasciamo vagabonda la nostra anima.<br />Sant'Agostino diceva che la verità la si può trovare solo con l'indagine interiore. Dove? È forse l'anima la prigione del corpo? <br />Il nostro corpo imprigionato nello spazio tempo, nell'essere. Ma cercando dentro noi stessi troviamo quella continuità con tutto ciò che accade in un unico istante.<br />Noi troppo spesso proviamo vergogna per quella bellezza che conserviamo dentro.<br /><br />Per avere fede bisogna esser pronti ad essere soli. Essere pronti a capire che saremmo stati soli comunque. Anzi, più soli. <br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-82425124053998049502011-11-06T14:08:00.000-08:002011-11-06T14:40:07.800-08:00BATAILLE E LA SOVRANITA': UN HEGELISMO SENZA RISERVEL’introduzione alla lettura di Hegel, di Alexandre Kojève, è il testo attraverso il quale Bataille si avvicina al grande filosofo tedesco, una raccolta di lezioni incentrate principalmente sull'argomento dialettica servo/padrone. Il servo viene visto come “facitore di storia” dove il suo stesso lavoro rappresenta il momento del negativo. Il processo dialettico viene configurato come un passaggio che porta ad una liberazione, attraverso il lavoro. La Fenomenologia dello spirito può essere definita, infatti, come una “filosofia del lavoro”. Servo e padrone sono interdipendenti, perché il primo lavora per il secondo, mentre questi capitalizza il primo, al fine di perpetrare il senso del lavoro medesimo. Bataille propone una figura differente, ed è quella del sovrano. <br /> <br /> <br />Che cosa si intende per sovranità? <br /> <br />“La sovranità di cui io parlo, ha poco a che vedere con quella degli Stati, definita dal diritto internazionale. Parlo, in generale, di un aspetto opposto nella vita a quello servile o subordinato.” Bataille La sovranità<br /> <br />Il sovrano può essere definito come colui che non ha alcun bisogno di accumulare, che non dipende da nessuno. Colui che tende a proiettarsi nella perdita più totale, per risiedere nel non-senso. La sfera della sovranità prevede che ci si sia estromessi dalla paura della morte (condizione propria del servo, per dirla in termini hegeliani) e si sia giunti alla regione del divino.<br /> Le sue “effusioni” sono quelle dell’angoscia, del riso, dell’erotismo, dello spreco. Bataille considera la sovranità come quella violenza che contraddistingue l’universo inteso come intimità pura, dove non vi sono distinzioni fra “la mia gamba sinistra e quella destra”. Il sovrano non può concepire la possibilità di avere qualcuno asservito, poiché egli è al di sopra di qualsiasi progetto. <br /> <br />Si giunge al di fuori del negativo estromettendolo dalla dialettica, non concedendogli il contrario del positivo e quindi uscendo fuori dal senso del lavoro, passando da una “economia ristretta” a una “economia generale”, nell’accezione che ne trae Jacques Derrida nel testo dal titolo omonimo (Dall’economia ristretta a un’economia generale. Un hegelismo senza riserve). È in quest’opera che Derrida parla di un “laceramento spasmodico del negativo”, come modo per giungere a un negativo senza riserve. <br /> <br /> <br /> Il sovrano è colui che vive l’esperienza interiore come uno scavo profondo nel negativo in pura perdita, dove vediamo avvenire una “riduzione del senso”. Si resta sì nel negativo, senza però passare attraverso quella che Hegel chiama la Aufhebung. Si rinuncia (restando poggiati al riso) al traguardo di una qualsivoglia totalità.<br /> <br /> <br /> Nella prima pagina della seconda parte de L’esperienza interiore, intitolata Il supplizio, si legge: “vivo di esperienza sensibile e non di spiegazione logica. Ho del divino un’esperienza così folle che si riderà di me se ne parlo”12.<br /> Il supplizio è quella condizione (l’unica) in cui è possibile fare esperienza del divino, ed è quella in cui nulla è possibile. È il momento in cui è possibile “trasformare l’angoscia in delizia”; è lì che inizia quella che Bataille chiama la Chance. <br /> La supplica è per Bataille condizione umana imprescindibile. Passando di possibile in possibile si arriva infine a eludere il senso dell’io. Inizia l’esperienza, che non sarà mai possibile raccontare. È a tale proposito che Bataille adopera la figura allegorica del labirinto. Egli parte dalla constatazione che alla base di ogni vita umana esista un “principio di insufficienza”: ciascuno ricerca l’essere, ma questo non lo si può incontrare da nessuna parte. Non è possibile pensare di poter racchiudere qualcosa, perché per Bataille l’unica cosa che possiamo trovare è l’insufficienza stessa. Dunque l’esperienza in sé viene vista come un esercizio filosofico vero e proprio, al quale non è possibile arrestarsi davanti a qualsivoglia tempio conoscitivo, ma piuttosto si presenta come una perenne fuga. <br /> <br /> Se Bataille va considerato come una sorta di hegeliano e insieme al contempo un “anti-hegeliano”, bisogna tutt’al più non dimenticare quella che egli definiva come una comunione con Nietzsche, nel quale egli vede non un semplice ateo, demolitore della dottrina cristiana, ma più propriamente un sacrificatore. Il filosofo che esaltava il dionisiaco, viene preso come esempio per spiegare quell’idea di sacrificio secondo la quale si accede al sacro solo con l’uscita fuori dal piano del trascendente, per arrivare alla fusione con quella totalità originaria propria dell’indistinto.<br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-12395300946024643782011-10-27T10:38:00.001-07:002011-10-28T05:20:58.259-07:00PERVERSIONI LETTERARIELA POESIA E' UN SACRIFICIO<br /> <br />Scrivere una poesia, significa operare nel più stretto senso del termine, un sacrificio delle parole. Intendo che queste vengono estromesse dalla loro appartenenza al mondo reale delle cose, si affrancano dalla loro funzione servile, e vengono portate in una sfera di inutile e pura privazione, sovrana . Le parole, con la poesia vengono condotte “dal noto all’ignoto” . Si fa di esse delle vittime.<br />Nella poesia avviene un abuso delle parole, dove diventano possibili accostamenti che normalmente sarebbero impossibili e privi di utilità. Il cavallo può diventare un “cavallo di burro” e non assumere più quell’importanza determinata dall’utilità che esso ha per l’uomo. Il cavallo, qualora sia stato reso poetico, viene estromesso da un progetto, straripa da qualsiasi forma di determinazione. Con la poesia si opera un vero e proprio abbandono della progettualità, per questo il suo è un aspetto apertamente sacrificale. In essa non vi sono più tracce del piano proprio della morale e dell'etica. Non vi è alcun rinvio, perché in essa domina l’istante, la parola stessa assume un valore che è proprio , non rimanda ad alcun significato ulteriore, non serve a giungere a niente.<br />È attraverso il linguaggio che nella poesia si eccede il possibile. <br /> <br />“La paura, l’ironia, l’angoscia che provate in presenza del poeta che porta la poesia su tutta la propria persona, non ingannatevi, è pura felicità, felicità sottratta agli sguardi e alla sua propria natura” (Georges Bataille – Esperienza interiore)<br /> <br />Attraverso la poesia ci distanziamo dall’angoscia. Si strappa alle parole il loro potere, la loro funzione, e anche la malinconia diventa cantabile e “felice”. Ci si pone con essa al di fuori di ogni limitazione, preoccupazione. <br />Su che cosa dovrebbe fondarsi il progetto, infatti, se non su una certa ansia di realtà, un pensiero rivolto al futuro, alla prassi, alla realtà del mondo delle cose?<br />Il poeta, anche egli, tende alla totalità, e tenta di fuggire dal possibile. Per far questo sacrifica le parole. La poesia risulta così essere una forma di sacrificio.<br /> La poesia non rispecchia perciò lo spazio delle cose effettivamente perdute, perché se così fosse si sarebbe ricondotti totalmente all’ignoto. Essa va piuttosto pensata come il ricettacolo delle rovine rimaste, e per ciò stesso, possedute. Nella poesia il desiderio continua a durare, anzi, si può dire che una certa “funzione” della poesia sia proprio quella di mantenerlo in vita. <br /><br /><br />ALBERTINE<br /><br />Un personaggio estremamente poetico lo traiamo da la “Recherce” di Proust, Albertine : “grande Dea del tempo” . Ella si rendeva desiderabile, quanto più non fosse afferrabile. Sembra quasi che qui il desiderio con lei si spenga in conseguenza di un’oggettivazione. Mediante l’individuazione dell’oggetto, qualora questo non sia più una vaga e opaca ombra che si celi nell’ignoto, si ha il possesso, si spegne perciò quell’ aspirazione che contraddistingue l’amore. Esso cessa qualora venga posseduto l’oggetto che si ama. Eppure, ciò nonostante, il desiderio è mosso proprio dalla volontà di possedere. Diventa insostenibile qualora non sia esaudito. Così è solo tramite la memoria che possiamo afferrare l’istante in cui quell’oggetto è stato raggiunto, nel culmine del desiderio. Si opera quindi una distinzione fra l’intelligenza e la memoria. Alla prima appartiene il progetto alla seconda, invece, il tempo. Nella conoscenza, si ha un’uccisione dell’ignoto, proprio perché essa genera il raffreddamento di quella tensione che per mantenere viva è necessario collocare in uno spazio dove non possediamo chiarezza dell’oggetto cui aneliamo. Quell’oggetto ci è dato, lo abbiamo in nostro possesso, quindi dal momento che la felicità è stata raggiunta, quel che ci resta è l’oggetto, ma non più il desiderio della felicità stessa, che di per sé è andato perso. Forse perché appartenendo all’ignoto è per sua stessa natura inafferrabile. Forse perché non può essere collocato in alcun ambito della distinzione individuale. Non può darsi come noto. È fatalmente collocato oltre. E’ per questo che la memoria diventa la sede dove conservare un tratto di quella felicità, perché essa si fonda sulle impressioni, che sono per loro stessa essenza inafferrabili, si sottraggono alla presa, nonostante si diano in superficie, senza però rendere possibile il loro raggiungimento, in quanto esse non sono effettivamente “cose reali”.<br /> La ricerca del tempo perduto è il testamento di Proust. Un’opera che tende al disgregamento, anela alla morte, passando attraverso il raccoglimento dei ricordi. “lasciamo che il nostro corpo si disgreghi” <br /><br /> La scrittura diventa la conseguenza della perdita, un atto di conservazione, dove restano solo le rovine, i pezzi di quel che nella realtà è diventato impossibile cogliere.<br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-29637271981469256522011-10-01T09:36:00.001-07:002012-01-04T16:25:01.787-08:00PARABOLA NUMERO 2: PERCHE' ASCOLTARE GLI ANZIANI.Arrivò l'ora del pranzo e ci sedemmo tutti a tavola. Le serve iniziavano ad imbandire la tavola. L'odore era forte e la nostra fame invadente. Il Maestro fermò subitaneamente le nostre braccia già pronte ad afferrare le pietanze e disse: “non vi sazierete se non dopo aver ascoltato la mia parabola”.<br /><br />Così iniziò a raccontarci la parabola del serpente, la scimmia e l'uomo.<br /><br />“Un tempo c'era un uomo che si sentiva tremendamente stupido e immaturo. Egli aveva una casa di legno vicino alla giungla. Non riusciva a sopportare la propria stupidità, a tal punto che bestemmiava il proprio nome e si lamentava del fatto stesso di essere nato. <br />Decise di andare alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarlo, un maestro. Uscì dunque di casa e si incamminò entrando in un tratto della giungla attraverso la quale per forza doveva passare per accedere al mondo civilizzato.<br />Camminò e incontro il serpente che gli domandò “che cosa vai cercando, stupido uomo?” e lui rispose “cerco un maestro”. Il serpente gli disse “l'hai trovato!”. L'uomo lo guardò e rise sguaiatamente. Gli domandò “e che cosa avresti da insegnarmi?” il serpente gli disse “avvicinati e te lo dirò. Io ho tutto da insegnarti”. Così, l'uomo, con superiorità gli si avvicinò e ascoltò le sue parole. <br />Ma dopo un po' si rese conto che di certo un serpente non poteva insegnargli un benemerito nulla. Così lo interruppe e se ne andò.<br />Camminò ancora e incontrò la scimmia che gli domandò “che cosa vai cercando, stupido uomo?” e lui rispose “cerco un maestro”. La scimmia gli disse “l'hai trovato!”. L'uomo la guardò e rise sguaiatamente. Le domandò “e che cosa avresti da insegnarmi?” la scimmia gli disse “avvicinati e te lo dirò. Io ho tutto da insegnarti”. Così, l'uomo, con superiorità gli si avvicinò e ascoltò le sue parole.<br />Ma dopo un po' si rese conto che di certo una scimmia non poteva insegnargli qualcosa. Così interruppe anche lei e se ne andò.<br />Superata la giungla, giunse finalmente al villaggio. Lì incontrò finalmente un maestro. Gli si inchinò davanti e disse “oh maestro, io sono giunto fino a qui per voi, per apprendere qualcosa”. Il maestro gli disse “che cosa posso insegnarti io?” e lui “oh maestro, tutto! Tutto!” il maestro lo guardò e gli disse “io non ho niente da insegnarti”. <br />Lui non capiva. Gli disse “ma come maestro, voi che sapete tutto! Mi han detto che voi siete l'uomo più saggio del pianeta!”. Il maestro gli disse “hai incontrato lungo il tuo cammino la scimmia e il serpente?”. E lui “si quegli stupidi animali che si spacciavano per maestri... quegli sciocchi”. <br />Il maestro gli si avvicinò e gli disse “ora torna da loro, e fatti insegnare tutto quel che hanno da insegnarti. Poiché è da loro che per primi devi imparare, non da me. Quando ti avranno insegnato tutto, torna pure qui e allora avrai imparato”. <br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-73314290063753638232011-09-27T07:19:00.000-07:002011-09-27T07:38:01.378-07:00LE PRESE IN GIRO DELL'ESSEREOgni percorso si sia deciso di intraprendere, porterà, è ineluttabile, ad una meta sempre particolare. Qualsiasi fede spirituale (o anche non, come ad esempio la scienza e tutti i restanti esempi che si possan prendere) si pone una finalità da raggiungere, e chi la abbraccia si mette in una condizione per la quale solo gli elementi interni a quel credo medesimo, possono servire al fine stesso: di per sé sempre esclusivo.<br />I cristiani e i musulmani ricercano la salvezza e il paradiso mediante differenti percorsi, nonostante le due fedi siano ben distinte, e la stessa salvezza cui tende uno è differente da quella cui tende l'altro. Il buddhista tende ad annientare la sofferenza e porre fine al ciclo del samsara. Lo scienziato ricerca tramite teorie esperimenti e ricerche di conoscere l'universo. La filosofia tende alla verità.<br />Ciascuno di questi contesti, rappresenta un sistema che ha inizio e fine in sé stesso. Ognuno contestualizzato linguisticamente al proprio interno, contiene già in sé l'unico fine possibile, necessario a determinare la struttura interna a sé come elemento di sistema organizzato. La finalità è sempre decisa sin dall'inizio (o addirittura tramite esso). Ogni percorso presenta però la natura della problematicità. Senza questa non potrebbe darsi nessuna evoluzione, nessun passaggio possibile. Il sistema in sé è perfetto, visto nell'insieme, ma al suo interno, perché questo possa essere reso coerente, saranno stati individuati una serie di errori plausibili, che abbiano determinato la natura stessa della perfezione interna. Questo perché ogni sistema è la rappresentazione di una certa data situazione di realtà. Prendiamo ad esempio la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Con il processo dialettico, presente soprattutto nelle due figure del servo e del padrone (il primo come facitore di storia tramite il lavoro e il secondo che capitalizza il primo al fine di un progetto determinato) si tende all'assoluto. Ma innanzitutto, questo assoluto che cos'è se non un'Identità assoluta, quindi di per sé esempio di un limite che determini il tutto visto necessariamente all'interno della parte. La realtà, di per sé coerente, descritta nella Fenomenologia dello spirito, racconta di uno specifico contesto che è quello della modernità e del lavoro. La Fenomenologia dello spirito potrebbe essere pensata come grande romanzo sul lavoro. Ma se ci estromettiamo da una dialettica e ci poniamo in un'ottica invece paradossale e ironica, vediamo come questo risulti essere un particolare in mezzo a tanti. Fenomenologia dello spirito come il Corano, come la Costituzione italiana etc. <br />L'unica cosa che resta da fare per un'indagine che prenda atto della condizione di compiutezza propria della ragione, è di smontare i giocattoli. Nel fondo di ogni cosa si troverà quel concetto che Heidegger indicava come il più ovvio e il più generale, ovvero l'Essere. <br />L'Essere è innanzitutto il primo postulato. Inizia e finisce in sé stesso. <br />Ad esempio quando io dico che la rosa è rossa, la mia frase avrà senso all'interno della categoria stessa dell'essere, perché al di fuori di quell'essere stesso la rosa non sarà assolutamente rossa. Al di fuori dell'essere non si darà niente che sia pensabile. <br />L'Essere è il responsabile del fondamento di ogni realtà, che sia essa materiale o spirituale. <br />Dovremmo immaginarci l'Essere, però, come un bullo che abbia deciso di prenderci in giro. Fare un gioco dove ogni contestualizzazione di verità conserva in sé delle regole che per determinare la realtà di quello stesso sistema, hanno bisogno di essere insieme seguite e violate ma sempre all'interno di sé stesse. Così si viene presi in giro. Si viene trasportati nel giro, dove vi è un limite di possibilità determinato. Il carnefice è in questo caso l'Essere. Esso è indistruttibile, imbattibile. Può essere affrontato solo con l'umile forma di rispetto che è l'ironia. Al limite dell'Essere diventare consapevoli che ciò che è, non è che un particolare in mezzo al resto, dove non sappiamo cosa d'altro possa esserci, semplicemente perché siamo ad ogni modo inclusi sempre (e paradossalmente) nell'Essere.<br />Lo stesso vale per questo mio discorso.<br />Che resta da fare?<br />Passare dall'angoscia al riso. Farsi una grande risata davanti alla verità della verità/falsità. <br />Oltre l'Essere non c'è che l'impensabile, che noi stessi possiamo dire esserci proprio all'interno della categoria dell'Essere stesso. Ma al di fuori... si, nient'altro.<br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-42287199668740006452011-08-16T04:16:00.001-07:002011-08-16T06:24:57.825-07:00APOLOGIA DELLA SUPERFICIALITA'
<br />Ogni volta che si tenti di approfondire la conoscenza di un qualcosa che ci ha dato dal principio una cattiva impressione, si andrà sempre verso il peggio, ci si troverà costretti a interfacciarsi con ciò che noi non saremo mai in grado di amare, e spesso se ne diventerà paradossalmente (e ridicolmente) succubi.
<br />Per le persone di buon gusto, è difficile, ma è anche un dovere quello di imparare ad essere totalmente superficiali. L'impressione che noi abbiamo delle cose, ci porta sempre il nostro luogo di sensazione in rapporto a quella cosa specifica. Quell'impressione ci dice sempre la verità su quello che per noi la cosa può significare, e insieme ce ne illustra l'utilità potenziale. Si vuole spesso non voler risultare “snob” cadendo così nella trappola degli umili, tradendo la fiducia nei propri sensi.
<br />I sensi (quando sono tali, e non semplici convinzioni o pregiudizi) non mentono mai, alla faccia di Cartesio e dei suoi sciocchi dubbi.
<br />Il senso del disgusto è una virtù estetica. Qualora sia fine a sé stesso diventa un vizio. Il disgusto, non avviene per il piacere del disgusto in sé, ma verso le cose in relazione alla nostra soggettività, per ciò stesso con attenzione verso la sfera della nostra progettualità, e quindi, in poche parole, esso è servitore della nostra esistenza presa nell'insieme. Lo stesso dicasi per ogni forma di sincero apprezzamento che porti come tale benessere e piacevolezza.
<br />È vero però che non ci si può semplicemente soffermare solo sulle apparenze e non si può restare in superficie. A un certo punto della vita ci si rende conto che è necessario “crescere”. Che cosa significa in fondo questa parola tanto impegnativa quanto dolorosa (seppure sia un vocabolo da sempre necessario)?
<br />Significa semplicemente non farsi più imboccare. In ogni senso. Ciascuno dovrà cioè tendere alla superficialità, ma come punto di arrivo. Nel mentre, tutta la sfera di cose che avremo deciso che ci piacciono o non ci piacciono, quelle dovranno essere messe in discussione. Che cosa veramente ci piace? È possibile vivere fino in fondo ogni cosa, pur restando in superficie?
<br />La risposta alla prima domanda è semplice: ci piace ciò che ci fa star bene.
<br />La risposta alla seconda è che si tratta di un esercizio molto difficile che richiede la profondità più vuota e abissale.
<br />Tutto ciò che bisogna arrivare a ottenere, è il silenzio del dubbio. Incontrare un qualsiasi oggetto, persona, evento, averne una cattiva impressione ma accontentarsi, non può che essere nocivo, oltre che completamente inutile. Tutto ciò nasce dal senso di colpa che ci induce la parola “superficialità”. Bisogna ripensare questa parola come la virtù dell'intuizione, propria solo di chi abbia capito fino a fondo il proprio gusto, e perciò se stesso. Dalle sensazioni parte l'esperienza dalla quale consegue la conoscenza. Tradire le sensazioni significa abbracciare l'ignoranza.
<br />Tutto ciò che ci provocherà disgusto andrà evitato, o trattato con disprezzo. Tutto ciò che ci provocherà interesse andrà trattato con attenzione, e viceversa per ciò che non ci interesserà. Tutto ciò che ci farà innamorare andrà amato, e viceversa valga per l'odio.
<br />Per arrivare a questo bisogna però non lasciarsi cullare da una nevrosi fatta di false convinzioni o chimere dai falsi riflessi, ma bisognerà essere arrivati a pieno contatto con il proprio centro.
<br />Chi sa, non ha bisogno di pensare. Al sapiente basta sentire.
<br />Essere superficiali significa avere imparato ad amare la macchina più adorabile che esista al mondo, che è quella che siamo noi stessi.
<br />
<br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-55604766928170655292011-08-09T08:43:00.000-07:002011-08-09T08:51:27.674-07:00DISGRAZIA E REDENZIONE
<br />
<br />
<br />
<br />La disgrazia è l'apparenza della redenzione.
<br />Noi siamo perennemente in guerra con la nostra redenzione.
<br />La nostra redenzione non ha apparenza, per questo è ineffabile.
<br />Noi possiamo abbandonarci, senza coscienza.
<br />Tutto ciò che riguarda l'apparenza è una negazione della nostra disgrazia.
<br />Non c'è traccia di disgrazia nella redenzione.
<br />Era redenzione, quella disgrazia.
<br />Ma era disgrazia, nell'apparenza.
<br />Arrendersi alla redenzione.
<br />Noi possiamo adagiarci nell'euforia, ma finché servirà a celare la disgrazia o donare sorrisi agli altri, sarà solo una truffa, un bluff, quella felicità, intendo.
<br />Dopo il bluff tornerà la disgrazia, con gli interessi.
<br />Bisogna arrendersi.
<br />Perché arrendersi?
<br />Perché condannati alla verità.
<br />Ci siamo condannati da soli, perché abbiamo odiato il falso.
<br />Il falso è il coperchio della redenzione, dapprima della disgrazia.
<br />È la morte.
<br />Amare la vita, è una disgrazia?
<br />Tutto arriva prima o poi.
<br />Raschiare le proprie possibilità fino a toccare l'impossibile.
<br />Farsi muti.
<br />Da lì un miracolo.
<br />Si, è una disgrazia.
<br />Ma è necessario.
<br />È una maledizione il vero. Una maledizione inflitta dal falso.
<br />
<br />
<br />(ogni tanto guardo le stelle stampate sul cielo nero, e divento certo che la geometria è un disegno fatto su un foglio di carta, bianco...)
<br />
<br />Mi chiamo Luca Atzori, e ho sei anni.Luca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-1542529462992177402011-07-13T08:56:00.000-07:002011-07-13T09:18:13.030-07:00MAD PRIDE: L'ECLISSI DEL SE'Mad Pride intende riporre la sua attenzione verso la pazzia, ma con una giusta precisazione da fare: essere pazzi non fa figo. Il concetto del “fare figo” è esattamente ciò che maggiormente contrasta con i propositi che sorreggono l'etica di Mad pride.<br />Innanzitutto bisogna subito porre una distinzione fra quella che viene intesa come la nostra personalità e quello che invece potremmo definire il nostro vero sé.<br />La personalità è spesso costretta ad essere qualcosa di più che una maschera. Essa diventa una menzogna. <br />Normalmente si è costretti a mentire su sé stessi, lanciando sorrisi, sguardi, parole, che sono di per sé segnali convenzionali lanciati come frecce e dispersi nella memoria che gli altri porteranno di noi stessi come una facciata vivente, il ricordo di un demone. <br />Facendo questo creiamo uno scudo per il nostro sé, dove la verità delle emozioni e dei nostri pensieri, viene dapprima occultata, poi dimenticata e fatta marcire.<br />Dobbiamo immaginare di essere osservati da un occhio che giudichi solo il vero, solo ciò che abbiamo compiuto con le nostre azioni. Quest'occhio ci guarda mostrandoci il nostro sé, che ci appare come un bambino, un vagabondo marcio e ubriaco, abbandonato a sé stesso, anzi nemmeno, abbandonato agli altri, come cani affamati. <br />Nel mentre però la nostra menzogna si porta avanti con grande gioia, con determinazione, anestetizzando il resto. <br />Una felicità di facciata. Una felicità informata. Niente di fattuale. Il vuoto felice, ma con il calcare ai bordi, un calcare che cresce fino a riempire.<br /><br />Mad pride ritiene che la pazzia sia l'effetto di un totale denudamento del sé, oltre che una frammentazione dell'io. Il sé è messo a contatto con le cose messe in relazione alla propria esperienza, ed è come se potesse dire a sé stesso “ecco, questo sono io”. Molto spesso nella pazzia quello che ci vengono mostrati sono mostri, fantasmi, incubi, immagini insopportabili, ma vere, esattamente quanto è vera la nostra fragilità. <br />Mad pride sostiene che sia possibile uno sviluppo, rendere possibile la crescita del sé, farlo diventare adulto, senza che sia per ciò stesso costretto a cristallizzare idee che non gli appartengano, dunque, in sostanza, rendendo possibile il mutamento della materia stessa, come fosse un processo alchemico. <br />Mad pride ritiene che al giorno d'oggi questo processo sia ostacolato. <br />Per prima cosa bisognerà essere orgogliosi del proprio Sé, per quanto possa apparire agli occhi della società come ributtante o risibile. Da lì imparare a conviverci. Renderlo sovrano, creatore, datore della propria norma di vita.<br /><br />Mad pride se ne fotte delle esigenze del mondo del lavoro, della morale, dell'educazione “borghese”, delle mille abitudini che ci fanno schiavi, da quelle legate al divertimento, alla carriera, alla narcotizzazione, all'abbigliamento, al sesso etcetera.<br />Mad pride vuole rendere dignità al denudamento totale del sé, e non per semplice filantropia, né per esigenze assistenziali, ma piuttosto perché da lì si ritiene possibile lo sviluppo dello spirito.<br />È vergognoso che la maggior parte della gente tenga nascosto qualcosa di sé che mostrerà spesso solo nell'intimità con gli altri, e in maniera immatura, perché è di energia, tutto sommato, che si parla, e nessuno ci insegna a gestirla.<br /><br />I pazzi sono immaturi perché la paura blocca la crescita del loro sé. <br /><br />È questo lo scandalo che vuole rivendicare Mad Pride.<br />Basta con l'emarginazione e la demonizzazione di chi è “diverso” per condizione emotiva e psichica. Basta con il bullismo della mediocrità. Basta con l'egoismo che rende vigliacchi e non orgogliosi. Basta con il voler essere a tutti i costi come quell'altro che sorride (a sua volta come un altro, che come un altro, che come un altro, che come un altro, che in fondo nemmeno esiste). <br /><br />Ovvio, l'unico modo per rendere possibile questo è iniziare a protestare contro lo strapotere della psichiatria e della massa arrogante, e per far ciò, creare una comunità di intenti, incontrarsi e cambiare prospettive.<br /><br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-84613112426564231702011-06-27T17:06:00.000-07:002011-06-28T04:49:39.975-07:00IL FILOSOFO GEOMETRA“Nessuno entri se non è geometra” <br /><br />Questa è la frase che a grandi lettere si vedeva scritta all'ingresso dell'Accademia di Platone. <br />Secondo il Grande Filosofo, non era possibile arrivare a conoscere la filosofia, così come qualsiasi scienza o anche arte, se prima non si conosceva a fondo la geometria. Già, qualche burlone potrebbe obbiettare: “ma quindi per iscriversi alla facoltà di filosofia oggi dovrebbero mettere una grande scritta all'ingresso dell'ateneo che dichiari -qui si favoriscono i diplomati all'istituto tecnico per geometri piuttosto che quelli provenienti dal liceo classico?-” e la risposta è no. Si potrebbe dire anzi che se conosciamo a fondo quella scritta, non ha più importanza essere diplomati né ai geometri, né al classico, né alla scuola radio-elettra o via dicendo.<br />La parola geometra ha un significato ben preciso, e potrebbe essere accostato a quello che ci viene suggerito dalla parola “iniziazione”. <br />Dov'è che ha inizio la filosofia, e perciò l'amore per il sapere? Aristotele sosteneva che la sorgente fosse la meraviglia, e che quindi da uno stato di confusione, un caos, si generasse poi la spinta a conoscere, per mettere ordine. Dal caos si generano pensieri, una copiosa fontana di stronzate che si muovono nella testa senza direzione precisa. Durante il movimento dei pensieri, il corpo sta fermo, o si muove goffamente, fa altro, insomma è spesso completamente staccato dalla testa. <br />Come è possibile produrre un pensiero corretto (e evidenzio l'importanza del pensiero e non del pensiero sul mondo) se non abbiamo un oggetto definito di pensiero? Come è possibile avere un pensiero che sia proprio, e che quindi faccia parte di noi stessi e non sia una mera nozione o un fantasma che studiamo sui libri in compagnia della gobba e dell'assenza di fascino?<br />Non è un caso che all'Accademia di Platone si praticasse con molto rigore la ginnastica. È necessario per il filosofo essere in forma. In forma può essere inteso qui in senso anche lato, come un'allegoria (ma va preso soprattutto in senso letterale) per intendere l' essere nella forma, nella propria. Perché possa iniziare il pensiero è necessario essere posizionati fermamente sulla terra. È quando si è trovata la posizione giusta che si trova la giusta misura che ci separa, in quanto individui pensanti, dagli astri, gli alberi, le zone più sconfinate dell'universo. <br />Nel momento in cui noi abbiamo trovato il nostro centro, lì comincia l'iniziazione. Sono posizionato sopra la terra, conosco la distanza che mi separa dalle stelle, ho usato il compasso e la squadra, so chi sono io, so da dove provengono questi pensieri (da me stesso, cioè) posso arrivare a conoscere il mondo. <br />Già, conoscere il mondo, così pensavano ingenuamente gli antichi occidentali. Ma spostiamoci a oriente, e vediamo come la pensavano i maestri Zen.<br />Anche nello Zen si diventa geometri. Ci si siede, si medita, si trova la giusta posizione e poi si rivolge l'attenzione verso il vuoto. Bisogna pensare al vuoto, così si smette di pensare. Insomma l'importante è smettere di pensare, arrivare a non pensare a nulla... si certo, come no. <br />Quando si dice che il maestro Zen è arrivato a non pensare a nulla, si dimostra di essere dei meri ignoranti, perfetti asini. Il maestro è arrivato, piuttosto, a pensare di pensare il nulla! È infatti impossibile pensare al vuoto. Si può, al massimo, arrivare a pensare di pensarlo. <br />Quindi il Maestro Zen non insegna che è possibile non pensare, ma piuttosto spiega che è impossibile non pensare, che non sarà mai e poi mai possibile smettere di pensare. <br />Noi penseremo sempre. <br />Pensare si esercita come una ginnastica. <br />Il pensiero, per tutta la vita, non ce lo toglieremo mai di dosso, così come (non provateci assolutamente) noi stessi. <br />Ma ci vuole forza. Platone lo sapeva.<br /><br /><br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-67975749076193863812011-06-16T08:33:00.003-07:002011-06-20T13:19:15.659-07:00LA LEGGEREZZA FRAINTESAOggi ritengo che l'importanza della letteratura sia tanto trascurata, quanto più urgente e necessaria. Il ciarpame di pseudo-letterati, scrittori e teatranti che emergono per inquinare la nostra immaginazione (già di suo poco allenata, fra clakson e allegrie di secondo uso) sono contraddistinti da una leggerezza immensamente irritante, a metà fra leziosi mugolii e l'ironia “della sorte” dello stereotipo accecante che contraddistingue lo scenario. La causa di questo (per niente sorprendente) avanspettacolo culturale, ritengo che sia da rilevare in un esile fraintendimento dal quale è difficile venir fuori, come trovandosi ad essere serrati in un labirinto irreparabile e paradossale.<br />La letteratura, innanzitutto, è sempre leggera. La poesia, il romanzo, il dramma, lo sono stati da sempre. La parola “leggerezza” va però assunta nel suo più stretto significato umano, quello dove le parole si trovino a carezzare (anche fino a gettare nella più totale malinconia) il cuore del lettore. La leggerezza può essere un modo che abbiamo per concederci di essere deboli, per indagare a fondo le emozioni, la forza del dettaglio descritto nel mezzo delle pagine dove si nasconde la natura più intima di ogni ricordo, e quindi di ogni senso. <br />Gli occhi di chi non legge, sono abituati alla realtà, a leggere la realtà, e le proprie emozioni ne prendono la forma. Somigliano a grossi macigni, mura, tavoli, masse di gente. Emozioni grandi, ma accecanti.<br />La letteratura serve a rimpicciolirle le emozioni. <br />La letteratura è una concessione all'interiorità, che di per sé, siamo d'accordo, è costante, e che grazie a quell'alleggerimento, abbiamo modo di rafforzare, nel valore di semplicità, senza cedere alla sfida dell'ascolto.<br /><br /> “è la mia peculiare malinconia<br />composta da elementi diversi, quintessenza<br />di varie sostanze, e più precisamente di<br />tante differenti esperienze di viaggi<br />durante i quali quel perpetuo ruminare mi<br />ha sprofondato in una capricciosissima<br />tristezza. <br />Non è una melanconia compatta e opaca, dunque, ma un velo di particelle minutissime d'umori e sensazioni, un pulviscolo d' atomi come tutto ciò che costituisce l'ultima sostanza della molteplicità delle cose.”<br /> <br />(Italo Calvino, Lezioni americane)<br /><br />Quella malinconia descritta da Shakespeare e ripresa da Calvino, viene detta fra le parole solventi, sublimi e leggere, dove non vi è concessa opacità, ma la freddezza del più puro sentire. Non è dalla sofferenza che la letteratura cerca di far fuggire, ma piuttosto, al contrario, dal quotidiano, dalle manie nelle quali ci intrappola un ritmo anestetico (e antiestetico) dove quell'assenza di dolore si rivela essere la condanna più insopportabile.<br /><br />Spesso, invece, la letteratura, presa ad ampio raggio, si occupa piuttosto di intrattenere, distogliere dalla sensazione, portare ad un alleggerimento frivolo e violento. Un risveglio degli occhi e delle sue nevrosi, ma non significano niente, se non l'ascolto mediocre degli altri e te stesso (mediocre), la maschera assunta dai loro sorrisi isterici. Le notti alcoliche fatte di voci e rigurgiti a verità dichiarate, narrate fra gli schermi televisivi o le vetrine, dove i colori chic fanno luce agli abiti che vestono i corpi freddi e sarcastici di Paolo e Francesca corrotti dai loro demoni. <br />Quella che dovrebbe essere una via d'uscita fuori dalla nevrosi del quotidiano, si rivela esserne la principale via d'accesso. Le coscienze frammentate e la chiaroscurale schizofrenia descritta ad esempio in quelle neoavanguardie che declamavano crittografie, polveri da sparo, fegati e indemoniati nulla (cit) si rivela essere l'unico luogo di sur-realtà che diventi oggi proprio dell'ispirazione. <br /><br />Costretti a parlare di telefoni cellulari e canali pornografici, dove ciò che inquina è il loro significato insediato come calcare nella koiné aisthesis.<br /><br />Niente da dire sul fatto che sia inevitabile, e che siamo costretti a questa triste ironia, dove la nostra lotta è fatta di parole che contestino e risparmino i calci e gli schiaffoni. <br /><br />Oggi possiamo solo ringhiare i nostri contenuti, e lo facciamo per la sopravvivenza. <br /><br />Ma niente da dire neppure sul fatto che siamo gettati a forza in una parodia della parodia, e che, sia comicamente che tragicamente, il flusso della vita che tentiamo di portare avanti con integra dignità, lo ritroviamo spezzato. Laddove i significati sono stati fatti a pezzi abbiamo bisogno di crearne di nuovi, e forse l'unico modo che abbiamo per iniziare è partire dal silenzio. Come diceva quel certo personaggio felliniano: “Siamo soffocati dalle parole dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita... che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artista veramente degno di questo nome non bisognerebbe chiedere che questo atto di lealtà: educarsi al silenzio." <br /><br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8897350850340910719.post-13613306918707179332011-06-05T15:48:00.000-07:002011-06-19T04:46:29.919-07:00MANZONI E ALTRI BOVINI(Cazzeggio del mattino in post sbornia)<br /><br /><br />Che esistenza cinica quella delle rane<br />nel loro monacale gracidare <br />che si intendono al pianterreno delle case cavernose. <br />sempre in posa! sempre in posa! le rane<br />quelle rane.<br /><br />Questo intervallo vallo a recuperare<br />lo stesso occuperà lo spazio dei tuoi vizi<br />laddove selfcontraddirrà <br />ancora non so quante volte<br />ancora non so.<br /><br />e un cieco sorrise:<br /><br />Whisky, Rhum, Tequila, Birra, Vino, Vodka<br />Spazza pure<br /><br />Tacque <br /><br />conducetelo al tramonto! <br />conducetelo al tramonto!<br /><br />E' chiaramente un affare<br />fuoriuscire dal villaggio <br />la curiosità di spaccarvi il culo<br />la violenza la sottovalutate miei cari<br />la violenza, si.<br /><br />"povera cosa è l'uomo<br />quando lo visitano i genii<br />non è più nulla" Chateaubriand lo sapeva<br />che il meno sapiente è il più sapiente<br />di tutti gli uomini etcetera insieme<br /><br />Le ragazze per la strada,<br />le ragazze<br /><br />alle conferenze su Carlo Michaelstaeder<br />quante ottantenni<br /><br />Vedo in te un uomo civile diventato saggio, <br />alla prossima luna di fiori<br />la fuori HO VOLUTO<br />santificare ciò che il Cristianesimo HA DOVUTO profanizzare<br /><br />è ovvio, parliamo dei pelazzi sulle ascelle<br />parliamo delle scoregge <br />e anche dellandartiammorìammazzato. <br /><br />Quel che mi resta da dire è questo:<br /><br />Ai postumi di un sabato sera, l'ardua sputazza.<br /><br /><br /><br />Luca AtzoriLuca Atzorihttp://www.blogger.com/profile/01903206842689448655noreply@blogger.com0