Nel suo saggio Teoria del partigiano, Carl Schmitt traccia una netta distinzione fra la figura del combattente regolare e quello irregolare, dove la prima intende significare i soldati vestiti con l’uniforme, sottostanti a regole impartite dai superiori responsabili, giustificati insomma dallo Stato e l’ordine costituito, mentre la figura del partigiano è definita invece come irregolare, proprio in quanto non porta addosso alcuna uniforme o segno distintivo, ma è piuttosto mossa da un’ ideologia politica di cui sente di far parte, e che è anzi primaria sostanza del suo partito (da cui riscontriamo l’origine etimologica del termine, appunto, di partigiano, partisan). Ma la caratteristica più importante che ritroviamo nell’analisi condotta da Schmitt, è proprio quella fatta a proposito del Carattere Tellurico, cioè del ruolo che il combattente ha di difendere il proprio territorio invaso, la propria terra, il proprio nomos.
Qui potremmo riconnetterci con quel concetto di politico (caro a Schmitt) che si articola nella distinzione di amico e nemico.
Il partigiano dovrebbe essere colui il quale si difenda da un invasore, e dunque da un nemico (reale). Questa inimicizia, però, sostiene lo studioso, è diventata per alcuni (Lenin, Mao etc) assoluta, cioè contraddistinta da una demonizzazione intrinseca delle diverse figure che si pongono apriori in conflitto con gli elementi dell’ideologia di cui il combattente si fa portavoce. Esito ne è che l’irregolarità del partigiano diventa costretta a regolarizzarsi, cioè a usare l’uniforme, e dunque ad assumere non più il solo ruolo di difesa, ma anche (e in particolare) quella di attacco, proprio in quanto il nemico assoluto va combattuto a prescindere dal fatto che esso invada o meno il territorio. Facendo questo, però, non ci si accorge di essere approdati fra i tentacoli di quel famigerato Leviatano, che prima di ogni altra cosa desidera che le sue prede restino immobilizzate, donando loro l’illusione del dono d’ una sorta di quiete permanente. L’esito è che se ne resta incantati.
Il Leviatano è lo Stato posto al di sopra di ogni libertà.
Esso è un regolatore automatico.
Ogni qual volta la lotta partigiana incontri la quiete, essa si china di fronte al compromesso, incontrando quegli abiti che si è costretti ad indossare per rendere legittima la propria guerra. E ogni guerra è legittima solo in quanto assecondi i rapporti di forza che sussistono fra i vari Stati e le nazioni, dove proprio quella dimensione della terra, o anche del “bosco”, Wildnis per dirla con Junger, sono totalmente occultate. Da ciò ne segue che anche il ribelle e il partigiano vedono stringere sempre più il proprio campo d’azione, le proprie possibilità, proprio perché quell’ideologia che muoveva la loro lotta, è stata minimizzata in un sentimento più primordiale e non abbisognante di giustificazione alcuna: la rabbia.
Sede della lotta, è dunque oggi l’atto il quale non abbia da essere spiegato. Proprio perché il campo che più d’ogni altro vediamo essere invaso, è quello della vita, unico territorio che ci si ritrovi ad essere legittimati a difendere.
Non vi sono più occhi che possano tacciarci di qualsivoglia infamia, o controllare le nostre azioni, poichè noi siamo finalmente s-velati sulla nostra zattera, mentre ci imbattiamo nella tempesta, morsi dalla peste, deliranti di quel sentimento caritatevole, che purtuttavia rimane crudo.
Oggi bisogna solo più addestrarsi a lottare incessantemente, senza desiderare di sostiuirsi ad alcun governo. La lotta partigiana italiana, divenuta un semplice simbolo (causa repubblica democristiana), necessita di continuare a svolgersi, severamente, accettando un unico possibile approdo, cioè la morte, proprio in quanto l’unico territorio che essa difenda è la vita stessa, che è come un riflesso del partigiano stesso: mobile, irregolare, svestita, e soprattutto necessariamente sbandata.
Luca Atzori
venerdì 26 giugno 2009
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guardati "viva zapata" di elia kazan. un po' retorico, se si vuole, ma è un po' quello che scrivi qui.
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