sabato 24 dicembre 2011

IL PARADOSSO DI LEOPARDI

Sosteneva Francesco de Sanctis, che nella poesia di Leopardi riposasse un recondito e profondo vitalismo. Osservazione acuta, ma al contempo superficiale e inesatta se si vuole prestare occhio all'opera del poeta nell'insieme. Perché è vero che quella continua e ossessiva rappresentazione della morte crei per effetto contrario il riaccendimento della vita stessa, ma è anche vero che è proprio lo stesso dolore ad essere il centro di attenzione nel tormentoso paradosso Leopardiano. Il dolore come resto fossile della vita autentica.

In che cosa consiste più precisamente questo paradosso?

C'è nella poesia di Leopardi un attrazione spuria per la purezza più originaria. Una fascinazione di provenienza reazionaria e al contempo assetata di liberazione. Consapevole, quindi, della condanna cui poggiamo che porta il nome di Storia. Un perenne stato di distanziamento dalla felicità, ma visto da vicino nel suo accadere necessario.
Ed ecco che rievocato il senso di questo paradosso, comprendiamo come per Leopardi non possa esserci felicità nell'aspetto di vita vicino al sociale, all'allegro convivialismo, nella comunicazione rimembrante, la risata istantanea e condivisa. L'amore che Leopardi mostra verso la vita è totale, afferra tutta la sua sostanza come a presagire l'ultimo sospiro. Un amore che lo portò a ingobbirsi, nella ricerca di poter giungere a ciò che si è perso.
Anelare sospirante all'impossibile, come unico spirito nascosto.


“Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. “ Zibaldone 1820


La consapevolezza della condizione umana nella peculiarità del suo esser rea d'aver inventato il piacere, la gioia, il dolore stesso. La natura diabolica della divisione. L'uscita fuori dal giardino dell'eden, dove non vi è piacere né dolore. L'amor fati come resa illusoriamente finale, perché sempre addossata come destino ineluttabile. Il dolore stesso è una condizione necessaria. Si presenta come aspetto della vita stessa. Come l'unico effettivo. Come se in Leopardi tutto il possibile fosse esistente, e per ciò stesso ci si debba confrontare appieno, fino a rimanere in quel “bruscolo” che è poco più di un nulla, che siamo noi, dove niente accade di distinto per ciascuno. Quella povera cosa che noi siamo, che è nell'effettiva condizione della sofferenza, e rende possibile la duplice natura come conditio della contemplazione.


“...Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni,
Se celebrata mai
Fosti da me, s'al tuo divino stato
L'onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai,
Non tardar più, t'inchina
A disusati preghi,
Chiudi alla luce omai
Questi occhi tristi, o dell'età reina.
Me certo troverai, qual si sia l'ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
Erta la fronte, armato,
E renitente al fato,
La man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente
Non ricolmar di lode,
Non benedir, com'usa
Per antica viltà l'umana gente;
Ogni vana speranza onde consola
Se coi fanciulli il mondo,
Ogni conforto stolto
Gittar da me; null'altro in alcun tempo
Sperar, se non te sola;... “ amore e morte, i canti


È onnipresente l'ambiguità e il doppio, nella poetica leopardiana. Come quando egli confonde l'amore con la morte. Forse perché è la lotta contro l'indifferenza che solo nell' amore e la morte stesse si rende manifesta. L'indifferenza dell'ingiustificato. Di tutto ciò che non sorge come anelito espressivo di verità, se con questo termine intendiamo l'unità originaria nei confronti della quale siamo resi ciechi, e che declamiamo in preghiera silente dentro il cuore, come atto creatore ex nihilo, dove forse la speranza è quella di tendere non tanto alla creazione, ma più precisamente al ricongiungimento. E forse si nasconde proprio lì la chiave della coincidentia oppositorum fra amore e morte, laddove nell'unità indistinta, non esiste per definizione, alcuna distinzione.

Luca Atzori

venerdì 23 dicembre 2011

PERCHE' SONO IMPORTANTI I RITUALI?

Interpretare i sogni è possibile solo disponendo la posizione della realtà. È sempre durante la veglia che noi possiamo appropriarci dei sogni e quindi attribuire ai segni di cui sono composti, una traduzione di ogni intenzionalità recondita del nostro inconscio.
Durante il sogno ci sembra tutto vero, non possiamo pensare di stare sognando, perché quella è la nostra realtà.

Due sono i principi: distanza e relazione.

Il sogno è tale in rapporto alla realtà lo rende tale, nel distinguo con sé stessa. Essa è simile a un sogno ravvicinato che rimanda a un'altra dimensione ulteriore, quella che noi siamo soliti (secondo il linguaggio che utilizziamo al suo interno) definire come il sacro, il tremendo, ciò che “va oltre la nostra conoscenza”. La realtà è però carica di segni e di simboli, esattamente come il sogno. Il sogno ci parla ed è lì per comunicarci qualcosa. Ebbene anche la realtà.
Attenzione, di per sé sia il sogno che la realtà scaturiscono dal caos, quindi in sé non avrebbero significato, se non fosse per l'interpretazione in sé. Essa scaturisce sempre dalla soggettività, dall'attribuzione di significato, dalla lettura e la donazione di senso che vengono riferiti a un certo elemento o aspetto che sappiamo provenire si dal caos ma non per caso.
Dunque l'inconscio ci parla attraverso i sogni e qualcos'altro ci parla attraverso la realtà. La problematica che insorge a questo punto è quella che consegue alla presa d'atto che la realtà è si interpretabile in ogni suo aspetto, cioè rimandabile alla propria soggettività e traducibile , ma che se noi facessimo questo senza poggiare su alcuna determinazione cronologica e narrativa di inizio e fine, i segni ci travolgerebbero come uno tsunami che ci condurrebbe verso la follia.
È necessario perciò ricreare la stessa distanza che si crea con il sogno e che rende possibile l'interpretazione, con la realtà. Distanziarsi da essa e dare un inizio e una fine. Rendere la realtà qualcosa d'altro. Portarsi ad un'altra dimensione.
Alla radice è il rituale. Creare un rituale rende possibile una fuoriuscita dal piano del reale per riportarci verso la dimensione del sacro, tramite la quale possiamo leggere la realtà e interpretarne i segni. Ad essi diamo inizio e fine. Li rendiamo simili ai sogni. Costruiamo uno specchio e sopra di esso iniziamo a leggere.

“quando cerchi di conoscere le cose non trovi che lo specchio. Quando cerchi di conoscere lo specchio non trovi che le cose”. Friedrich Nietzsche

Uscire fuori dalla realtà significa compiere un sacrificio. Distruzione del significato delle cose. Eccedere l'utile e la ragione. Eccedere la progettualità. Con questo avviene che noi ci si dispropri dell'abbandono originario cui “apparteniamo” da e per sempre. Ogni attimo di realtà è un piccolo segmento posizionato all'interno dell'illimitato, così come il sogno lo è all'interno del reale.
I rituali sono sogni fabbricati che utilizziamo per portarci a una consapevolezza sovrana che guardi al messaggio che proviene dall'oltre.
Senza i rituali potremmo iniziare a credere nella realtà, e quindi di conseguenza, perdere il nostro senno.


Luca Atzori

giovedì 22 dicembre 2011

LA VOLONTA' DIVISA

recensione di Dino Mangiascarpe

21 dicembre 2011

Con Emilio Bonelli
Regia di Luca Attori
Musiche Alessandro de Caro
Grafica Monica Petronzi
Tecnico luci Ezio Olivato

Produzione P.ARS

Seconda tappa: gli uomini bisogna guardarli dall’alto

Per questa seconda tappa, è stato scelto come luogo di collocazione de la “Volontà divisa”, il Rainbow, un locale nella zona del quadrilatero romano di Torino. È stata scelta la zona sotterranea, dove in tre diverse stanze è stata trasferita la drammaturgia scenica della prima versione svoltasi all’Espace il 13 dicembre.
Paolo Hilbert, un sociopatico disgustato dal genere umano, progetta una sparatoria con la quale spera di sfogare il suo antico rancore. Pressappoco questa è la tematica.
Nella rappresentazione di Luca Atzori, Paolo usa come interlocutore un pesciolino rosso dentro un acquario, forse a cercare un confronto con qualcuno o qualcosa che possa si ascoltarlo, ma insieme non capirlo.
Che dire sulla resa?
L’attore dimostra certamente di avere una grande espressività e una determinata forza nel mantenere in piedi tutta la vicenda.
Ma l’esito del lavoro sembra dannatamente incompleto. Certo, è un work in progress. Ma sorgono spontanee alcune considerazioni:
Innanzitutto, trasferire una messinscena pensata appositamente per uno spazio teatrale, all’interno di tre stanze strette, significa inevitabilmente ri-contestualizzare tutto il lavoro conservandone le parti più essenziali. Se però consideriamo il fatto che l’attore è costretto a interagire con il pubblico in una situazione in cui non gli è concesso di pensare insieme a dove posizionarsi, che movimenti fare, come dire le battute e sotto quali luci posizionarsi, allora possiamo intuire che probabilmente è saggio escogitare un modo per donare all’attore la completa consapevolezza (fisica e perciò mentale) del personaggio.
Emilio Bonelli risultava talvolta essere macchinoso nel suo spostarsi da una stanza e l’altra, come se dovesse adempiere a un dovere. Talvolta si avvisava l’urgenza di dire la battuta, certo nel migliore dei modi possibili e con tutta la forza drammatica necessaria, ma pur sempre ai fini di adempiere a un compito.
Il primo pensiero che ho fatto è stato “non hanno lavorato abbastanza sul personaggio. Ovvero non hanno approfondito a livello fisico, non si sono addentrati nelle profondità. Non hanno abbastanza analizzato ed esplorato”. Poi ho pensato, che invece, il problema è che a Emilio, Luca ha dato si le indicazioni su come svolgere il lavoro, conducendolo verso un’espressività il più autentica possibile, ma il tutto occupandosi solo della resa attoriale, carica del difetto di non essersi svelata (all’interno della location del nove) in tutta la sua potenzialità di significato. Mi è sorto così una considerazione “ma è proprio solo l’attore che deve fare un lavoro sul personaggio, oppure anche il regista?”.
Il regista, è vero che se desidera fare un lavoro che non resti limitato al semplice invio di comandi, deve partecipare con l’attore nella costruzione della messa in scena, ma a maggior ragione egli stesso dovrà essere l’attore, anche se non andrà in scena.
Fra attore e regista, nei lavori ben svolti, credo si venga a creare una relazione empatica, per la quale l’esito non mente mai sull’effettiva condizione cui si è giunti mediante la creazione. Forse, Paolo Hilbert, non è stato digerito ancora nemmeno da Luca Atzori, ed è per questo che si pone un limite alla intensità espressiva di Bonelli. È vero che il lavoro lo fa l’attore, ma alle volte è davvero sufficiente (almeno in uno spettacolo di narrazione come questo) che sia il regista ad aver approfondito prima il personaggio. Intendo nella sua immaginazione. La fisicità, la condizione esistenziale, i tic, sono conseguenza di una approfondita comprensione del testo. Non è necessaria la fedeltà assoluta al testo, ma almeno la visione chiara della propria interpretazione. Questo lavoro, se svolto dal regista, permette poi una collaborazione dove avvenga un risparmio di tempo, perché a quel punto la conduzione sarà molto più diretta, e non si lascerà l’attore in una palude creativa dalla quale ambire di trarre una sorgente. Porre come alternativa alla procedura stil-novistica dei teatri stabili, un metodo che cerca di tirar fuori dall’attore le emozioni sopra l’impalcatura di una drammaturgia scenica che ambisca a parlare da sé, risulta essere incompleto. Perché è la vita di questo personaggio a dover scaturire. La sua realtà. Non importa se poi verrà spezzata, annientata, anche ridotta se vogliamo al silenzio, ma quel viaggio negli inferi deve essere svolto. E non basta farlo fare all’attore, deve impegnarsi anche il regista. Anzi, di più. Il regista, deve sentire, quando lo spettacolo sta per iniziare, la stessa ansia e lo stesso ribollire dell’attore. Perché così è, il teatro è un’alchimia. Ricordare i propri sogni e interpretarli, è come ricordarsi della realtà e farne un rituale, o, appunto, uno spettacolo teatrale, che ci chiede di interpretarlo. Scriverei, se ne avessi tempo, un libro intitolato l’interpretazione della realtà, come seguito all’interpretazione dei sogni di Freud, ma invece della psicoanalisi l’argomento sarebbe il teatro

Ma a parte le divagazioni, io credo che l’attore non sia mai da solo (salvo nei casi in cui l' attore sia anche regista e quant’altro). La responsabilità di tutto quel che avviene, è di chi dirige.
La collaborazione avviene quando l’attore fa in discesa il percorso che per il regista è stato una salita. Quindi si, è vero, ci si deve confrontare con un attore di formazione classica, ma a maggior ragione, se le indicazioni fossero ancora più dettagliate ( e non nego che già lo siano state) l’attore avrebbe modo di fare il suo lavoro senza dover troppo muoversi nel vuoto alla ricerca di una comprensione. Attore e regista sono uniti, come da un filo invisibile. Li lega la creazione che richiede a entrambi lo stesso sforzo. Non è la messa in scena a dover suscitare interesse, ma quanto sia completa la concretizzazione di un personaggio.
Stanislavskji proponeva agli attori e ai registi un lavoro dell’attore (su sé stesso e sul personaggio) ? benissimo. Allora proponiamo anche un lavoro del regista. Proponiamo al regista di conoscere meglio il fantasma e vedrà che poi farlo calzare, diventerà molto più semplice. La taglia che veste l’attore la conosce già, ora tocca solo completare bene la seduta spiritica nella quale da novello si è imbattuto.

venerdì 16 dicembre 2011


ANIMA MIA CHE METTI LE ALI

Intervista a Silvia Lorenzo



di Luca Atzori





Ho visto al San Pietro in vincoli, uno spettacolo intitolato “Anima mia che metti le ali” che mi ha colpito profondamente. Tematica interessante riportata con una forte magia (aiutata dalla suggestione del luogo in cui è stato rappresentato). Mi ha colpito la cura nel dettaglio che l'attrice ha dimostrato, la profondità, lo scavo, l'atmosfera vivida nel suo essere altresì oscura.
L'attrice (che in questo caso meglio sarebbe definire come artista) è Silvia Lorenzo. La sua formazione (professionale) iniziata con Domenico Castaldo, è di stampo Grotowskiano. Ha poi approfondito lo studio del canto, della danza etc fino a sviluppare un suo metodo personale.
L'ho incontrata in un bar di Torino e abbiamo scambiato quattro chiacchiere.






In questo periodo stai facendo girare il tuo spettacolo “Anima mia che metti le ali”. Puoi parlarmene? Dirmi come è nato, di che cosa tratta, perché è nato etc...
Questo spettacolo è nato perché io ero alla ricerca di una storia che avesse come protagonista una donna fuori dal comune. Una donna ricca di frizioni interiori. Una donna sì forte, ma al contempo piena di paure.
Ho cercato questa donna fra i personaggi del teatro, ma non sono rimasta pienamente soddisfatta. Così, prendendo spunto dalla mia passione per la psicoanalisi, sono arrivata al personaggio di Sabina Spielrein. Un mio amico mi ha consigliato di leggere un suo libro e ho scoperto una certa affinità, mi sono sentita accordata con i suoi desideri, le sue emozioni, la sua personalità. Solo lei era andata più a fondo, è diventata folle.
Così ho raggruppato alcune sue lettere e ho iniziato a progettare uno spettacolo che fosse basato su di esse. Ho contattato diversi registi che potessero essermi di aiuto, ma ho poi deciso di fare da sola. In realtà una persona mi ha dato una mano, Thimoty Keller, il quale ha drammatizzato il testo.

Qual è stato il processo di preparazione dello spettacolo?
Ho raccolto le lettere e le ho trasferite sulla scena. Ho attraversato una fase iniziale di creazione, fatta di improvvisazioni e scrittura scenica. Per ogni scena c'era un quadro e un buio. Ad ogni momento ho fatto corrispondere un'immagine.
Quando lo spettacolo era “pronto” gli mancava però una cosa fondamentale, ovvero una regia. Così ho chiesto aiuto a un regista polacco Prsemek Wasillikovski.

Che tipo di lavoro avete svolto insieme?
Premettendo che seguo un tipo di training di stampo grotowskiano, portando avanti un metodo che ho sviluppato io personalmente, al fine di preparare il corpo ad essere vivo in ogni minima parte e dettaglio, ho approfondito con lui tutta la sfera che riguardava il personaggio, l'esplorazione nel profondo, insomma un percorso di stile Stanislavskiano. Ho lavorato contemporaneamente sul personaggio e su me stessa.

Il tuo spettacolo è anche intriso di vocalità
Per me l'uso della voce è molto importante. Ho studiato con diversi cantanti, durante la mia formazione. Ho poi iniziato a esplorare la “voce del corpo”, ovvero la voce come conseguenza di un movimento fisico, sempre connessa al tipo di lavoro che ho sempre svolto.

Perché hai deciso di fare questo spettacolo?
Perché volevo esplorare la mia interiorità. Avvicinarmi a un testo psicoanalitico e insieme a una donna psicoanalista e insieme folle, mi ha permesso di lavorare in maniera approfondita sia su me stessa che su me come attrice.


Questo spettacolo avrà prossimi sviluppi?
Prossimamente andrò a Bologna e ci lavorerò con un regista, al fine di limarlo. È uno spettacolo in crescita e voglio farlo girare ancora, lo farei girare ancora per anni e anni. Sarà un modo per plasmare una mia opera e insieme me stessa.

mercoledì 30 novembre 2011

UCCIDIAMO L'ARTISTA!

Tutto il novecento, è stato, per l'arte, un secolo di risoluzione dei linguaggi. Sono stati affrontati tutti i mezzi espressivi e se ne sono approfondite, per ciascuno, le rispettive potenzialità tecniche.
È stato il secolo della cosiddetta “sperimentazione”.
In ambito musicale si è passati dalla dodecafonia alla musica seriale, fino alla musica concreta, alla musica monotonale di Giacinto Scelsi e via dicendo arrivando ai filosofi della musica (leggera) come Brian Eno e tutte le varie avanguardie musicali del sottosuolo.
In ambito teatrale si è approfondito il discorso concernente l'attore e la regia, passando da Stanislavskij a Mejerhold, Gordon Craig, fino ad arrivare a Grotowski, poi il living theatre che sfondava la quarta parete e Carmelo Bene che amplificava la voce etc.
Nell'arte visiva, poi, fra le avanguardie storiche, la fotografia, l'arte concettuale fino alle forme di arte relazionale e così via...
Insomma, che secolo è il nostro?
Le voci poststrutturaliste strillano a basso tono dentro le orecchie di ognuno, che è stato già fatto tutto. Che ormai non ha più senso fare arte perché tutto è già stato scoperto. Gli artisti rispondono con spirito contestatorio, insieme assecondandone le tesi, producendo arte che tenti di stupire, scandalizzare, innovare etc, cosicché qualcuno possà dire “ah caspita, innovativo!” e l'altro più furbo, a fianco, “nah già visto”.
Tutto ciò succede ancora, perché l'arte non è stata abbastanza risolta. O meglio di questo non se ne è presa a pieno la consapevolezza. Essa viene considerata ancora all'interno del suo valore economico, viene oggettivata. Il rapporto soggetto (fruitore) e oggetto (opera) è ancora vivo.
Non c'è niente di grave, in fondo è stato fatto tanto per distruggerla, ma si vede che ancora c'è del lavoro da fare. C'è da dire che gli sperimentatori del secolo passato ci hanno tolto il peso di tanto, tanto lavoro. Però, effettivamente, adesso a noi tocca fare una cosa molto semplice, ovvero impadronirci di tutto quello che questi hanno fatto e servircene per esprimere al meglio i nostri contenuti.
Se non c'è più niente da inventare, tanto meglio, adesso possiamo concentrarci su quel che abbiamo da dire. Forse è proprio il momento in cui l'arte la si può finalmente fare in libertà, secondo le proprie esigenze, rinunciando a dire “io ho scoperto questo” e via dicendo.
Ma in fondo a che cosa tendiamo noi, se non ad una distruzione totale di questa educatrice dell'umanità? Essa è per noi come una madre, che lentamente ci sta lasciando la mano, per dirci “adesso vai nel mondo, e vivi artisticamente”. L'arte è un'educatrice, e l'umanità è sulla fase di terminare la propria adolescenza.
Ora l'artista è una figura che sta scomparendo, e si può fare ben poco perché questa cosa non accada. E intendo sottolineare che è una gran fortuna che questo stia succedendo. Era ora!
Più semplicemente ci troviamo ad essere uomini che si servono dell'arte per comunicare qualcosa. Almeno così dovrebbe essere. Uscire fuori dalle logiche monetarie dell' “opera quotata” “artista quotato” e via dicendo. Iniziare a considerare che se mai dovessimo essere pagati (come di dovere, sempre) dovrebbe essere per garantirci di vivere e permetterci di svolgere il nostro lavoro. Ma sono convinto che stiamo giungendo verso un'era in cui ci toccherà lentamente di rinunciare alla gloria del nostro ego. La svolta sarà doverosamente collettiva, e quei pochi ego rimasti, lo saranno in sacrificio.
Mad pride è una realtà antiartistica. Intende togliere all'arte il suo valore, per portarlo interamente nella vita. La vita rivuole indietro il delirio! Noi intendiamo emanciparlo, da qualsiasi catalogazione. Intendiamo uscire fuori dalla confusione fra essenza e personalità.
Non esistono artisti, registi, scrittori, attori, ladri, matti, etc ma esistono uomini. Gli uomini hanno a loro disposizione la scacchiera di tutto quel che già è stato “scoperto” precedentemente. Ora l'unica cosa da fare è iniziare a osare di servirsene (e studiarlo, senza troppi sforzi, se non esperienziali).
Si arriverà ad un giorno in cui non ci sarà più bisogno di arte. Sarà quando torneremo a somigliare ai nostri nonni preistorici, ma con quella saggezza in più. Quella che ci è stata donata dai nostri sbagli.
L'arte è uno sbaglio. La cultura è uno sbaglio. La Storia è uno sbaglio. La politica è uno sbaglio. La civiltà è uno sbaglio.
Uccidiamo l'artista!

Luca Atzori

sabato 26 novembre 2011

MAD PRIDE FESTIVAL TEATRO

Mad pride festival non intende presentarsi come una normale rassegna.
Anche Mad Pride festival ci tiene a evidenziare la propria diversità con fierezza e orgoglio.
A partire dal 2012 Mad pride festival inizierà ad insinuarsi fra i teatri, i locali, le strutture psichiatriche, le sedi delle associazioni che si occupino del disagio mentale etc.
Ci saranno diversi tratti che ne contraddistingueranno la “personalità”:

Le compagnie teatrali composte da utenti psichiatrici si esibiranno o in locali o in teatri.
Le compagnie composte da “normali” teatranti si esibiranno in strutture psichiatriche o comunque vicine agli utenti (case appartamento, associazioni etc) e dovranno trattare argomenti che siano affini al disagio, la follia e quant'altro.
Ogni serata di Mad pride festival sarà distinguibile da una girandola presente nella location e ovviamente la mia presenza più presentazione ad ogni inizio spettacolo.
Mad pride festival è una rassegna libera, e tende a muoversi in libertà. È una rassegna assolutamente vagabonda.
Una piccola percentuale di quel che guadagneranno gli artisti andrà a Mad pride al fine di portare avanti le nostre attività.
La nostra finalità è quella di creare un vero e proprio evento che possa generare uno scambio fra due realtà (quella dei “normali” e quella dei “folli”) in maniera che possano essere scardinate (anche solo lontanamente, un giorno) tutte le paure che ancora incombono nelle relazioni fra di esse.
Vorremmo raccogliere le volontà di tutta la città di Torino affinché una semplice “rassegna” si trasformi in un vero e proprio evento a lunga durata.
I matti devono avere diritto di uscire di casa loro senza per forza avere di mezzo i loro operatori che li controllino ad ogni movimento che facciano.
I matti devono avere la possibilità di vedere svolgersi nelle strutture create per loro, spettacoli delle compagnie operanti a torino.
“Il teatro è una dichiarazione di follia” C.B.
Questo è quanto.


Invito tutte le compagnie e le location interessate a contattarmi al numero 3498453004, oppure all'indirizzo email atzori.l@tiscali.it.

Luca Atzori

domenica 20 novembre 2011

(E?) OVVERO DELL'E(S)SENZA - recensione dello spettacolo (studio) di Amalia de Bernardis


regia,drammaturgia,cura della visione Amalia De Bernardis
suggestioni e montaggio video Damiano Monaco
suggestioni musicali Pierpaolo Laustino
con Pierpaolo Laustino, Claudia Giacosa, Amalia De Bernardis

Venerdì 18 Novembre 2011 - Magazzini sul po



Sono convinto che scrivere qualsiasi cosa a proposito di uno spettacolo come quello di Amalia de Bernardis, sia del tutto insensato, perché apporterebbe con sé un certo parallelismo di senso, quindi inutile (dal mio punto di vista).
Intendo dire che a mio parere, in “e ovvero dell'essenza”non c'è niente di oggettivo da capire (ovviamente dal mio punto di vista personale e soggettivo).
La mia mente non ama fare sforzi. Non li fa non perché sia pigra, ma perché soprattutto quando si pone nella posizione dello spettatore, chiede come minimo sindacale di essere trattata come regina, superbamente lo chiede, certo. Ma è così, ecco.
Posso dire che cosa io da spettatore ho pensato vedendo questo spettacolo.
Non so se ho personalmente del teatro una concezione chiara. Non credo che nessuno ce l'abbia. Qualora ci si sieda a teatro però credo che sia fondamentale che allo spettatore non venga richiesto nessuno sforzo intellettuale. A teatro non esiste miopia. O vedi, o non vedi.
C'è qualcosa di simile alla pornografia. Vedere e basta.
Non importa con quali occhi, ma l'importante è vedere.
Ci si siede e ci si aspetta di vedere succedere qualcosa. Creare uno strappo su quella che è la stanza segreta dell'artista, ma resa pubblica, senza che ci sia di intorno un qualche residuo di ego, o qualche intenzione recondita.
Non credo, personalmente, nel teatro del sottointeso.
Procedere con la ridondanza dell'elemento scenico comperato dal macellaio. Il video che occupa mezza stanza e che riporta “per metafora” le interiora dello spettatore. Sentire sussurrate parole che si è costretti a rinunciare ad ascoltare sin da principio. Tutto questo genera un sottile senso di stizza.
Perché quel che ho visto è stato un coacervo di materia. Tanti movimenti, tanta simbologia violata. Tanta attenzione richiesta, sin da farla naufragare l' attenzione.
Naufragare corale degli spettatori.
Ma l'organicità era insufficiente. Non si è fatto davvero il salto dal quale non si torna indietro. Tanta fascinazione. Movimenti illusori. Tanta materia, quindi anche essa illusoria. Tutto troppo spezzato. Tutto troppo ingombrante. Sgrammaticato, si, volutamente. Ma tutto troppo intenzionale. Tutto forse sembrava dire “questo è quel che penso io”. Tutto troppo sotto-inteso. Desiderio di vomitare qualcosa, ma un vomito trattenuto, troppo trattenuto.

Indubbio dire che l'idea (per quel che ho intuito) fosse geniale nella sua ambizione. Interessante sicuramente il percorso.

Ma che cosa deve fare il teatro? Deve trasmettere? Deve parlare ancora di sé? Che cosa può dire il teatro di sé?

Amalia de Bernardis sa benissimo che procedere con la risoluzione dei vari linguaggi artistici è pressoché inutile. Amalia parla dell'urgenza, del contenuto, del genio a discapito del talento.
Posso dire, da spettatore occasionale e sincero, che ho visto durante quello spazio di tempo (che non iniziava e non finiva) crescere la mia testa e farsi un pallone.
La mia è l'opinione di uno spettatore stupidissimo. Perché io a teatro divento stupido come un insetto. Stupido come un bambino o un folle. Un folle che chiede di essere distratto dai suoi deliri e che ne chiede di nuovi.
Io non voglio leggere le spiegazioni di niente. Io voglio vedere.
E sta volta non ho visto né sentito niente. Forse era quello che ci si aspettava. Forse anche le nostre valutazioni cambiano in base al tempo, in base a come ci si siede, e come ci si sente. Forse è anche questo il bello del teatro. Mi sono sentito seduto e osservante eccetera eccetera...

Luca Atzori (nei panni dello spettatore stupidissimo)

venerdì 11 novembre 2011

CHE COS'E' LA FEDE?

Gli uomini non sanno accogliere presso di sé l'angoscia, poiché essa non ha termine, non ha luogo, non ha colore, non ha voce. E' la strada che ciascuno ha preso in origine, e non c'è tenebra che possa essere resa meno accecante dal tessuto di una tenda.
Nessuno ha deciso per nessuno. L'angoscia potrebbe condurre in nessun luogo. Essa è il luogo dell'attesa infinita. Ogni uomo, in realtà, sa in cuor suo che cos'è l'angoscia, e proprio per questo ne è costretto a fugare.
Il dolore dell'angoscia rende l'uomo vivo. Perché il solo sapere di essere al mondo, il solo essersi inventati di essere al mondo, in questo indicibile nulla, ci presenta la vita nella sua totalità. Una totalità che sfiora il niente, se non fosse per il respiro.
Il respiro che sentiamo nell'angoscia è quello che i Vangeli chiamavano lo Spirito Santo.

Che cos'è la fede?

La cecità dell'angoscia è necessaria all'abbandono e alla caduta ineluttabile. Ineluttabile è l'ascesa, lo sforzo. Lo sforzo di creare dal nulla, ma senza poggiare su alcunché. Senza accomodarsi mai. Accettare la fatica della vita.

Per avere fede bisogna essere Atei.

Non bisogna aver accettato alcun Dio. Non bisogna essersi soffermati su alcuna certezza o alcun credo. Avere fede significa raccogliere presso di sé il silenzio, e nient'altro.
Accogliere il silenzio nel cuore.
Gesù Cristo disse: “ solo chi è uguale a un bambino potrà entrare nel regno dei cieli”.
Bisogna perciò vivere la morte interamente, e non lasciare alcun pezzo di sé. La materia è l'unica illusione.
Spiega bene che cosa sia la fede un bellissimo film del 1955, con la regia di Dreyer: Ordet. In quel film si racconta di un pazzo convinto di essere Gesù di Nazareth. La sua cognata muore e lui tenendo per mano una bambina fa risorgere la donna.
La sua fede è dovuta al suo profondo dolore. Vero e senza misure. Perché ci si possa risvegliare e giungere così ad una forma di gioia ed estasi totale bisogna accogliere il dolore interamente. Il dolore è ciò che noi sentiamo. Ma siamo resi indifferenti da un'anestesia generale, un oblio. Mentre è all'innocenza che bisogna tendere, ma attraverso il lungo travaglio della consapevolezza.
E' solo attraverso la più totale concessione della volontà che si fa simili al nulla. E quando si è simili al nulla, allora non resta che creare.

"In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio". Vangelo di Giovanni

La Parola.

Ma il dovere dell'allegria.

E nel mentre il nostro volto bambino si fa mostro, e si nasconde. Noi portiamo presso di noi la nostra maschera e lasciamo vagabonda la nostra anima.
Sant'Agostino diceva che la verità la si può trovare solo con l'indagine interiore. Dove? È forse l'anima la prigione del corpo?
Il nostro corpo imprigionato nello spazio tempo, nell'essere. Ma cercando dentro noi stessi troviamo quella continuità con tutto ciò che accade in un unico istante.
Noi troppo spesso proviamo vergogna per quella bellezza che conserviamo dentro.

Per avere fede bisogna esser pronti ad essere soli. Essere pronti a capire che saremmo stati soli comunque. Anzi, più soli.

Luca Atzori

domenica 6 novembre 2011

BATAILLE E LA SOVRANITA': UN HEGELISMO SENZA RISERVE

L’introduzione alla lettura di Hegel, di Alexandre Kojève, è il testo attraverso il quale Bataille si avvicina al grande filosofo tedesco, una raccolta di lezioni incentrate principalmente sull'argomento dialettica servo/padrone. Il servo viene visto come “facitore di storia” dove il suo stesso lavoro rappresenta il momento del negativo. Il processo dialettico viene configurato come un passaggio che porta ad una liberazione, attraverso il lavoro. La Fenomenologia dello spirito può essere definita, infatti, come una “filosofia del lavoro”.  Servo e padrone sono interdipendenti, perché il primo lavora per il secondo, mentre questi capitalizza il primo, al fine di perpetrare il senso del lavoro medesimo. Bataille propone una figura differente, ed è quella del sovrano.
 
 
Che cosa si intende per sovranità?
 
“La sovranità di cui io parlo, ha poco a che vedere con quella degli Stati, definita dal diritto internazionale. Parlo, in generale, di un aspetto opposto nella vita a quello servile o subordinato.” Bataille La sovranità
 
Il sovrano può essere definito come colui che non ha alcun bisogno di accumulare, che non dipende da nessuno. Colui che tende a proiettarsi nella perdita più totale, per risiedere nel non-senso. La sfera della sovranità prevede che ci si sia estromessi dalla paura della morte (condizione propria del servo, per dirla in termini hegeliani) e si sia giunti alla regione del divino.
   Le sue “effusioni” sono quelle dell’angoscia, del riso, dell’erotismo, dello spreco. Bataille considera la sovranità come quella violenza che contraddistingue l’universo inteso come intimità pura, dove non vi sono distinzioni fra “la mia gamba sinistra e quella destra”. Il sovrano non può concepire la possibilità di avere qualcuno asservito, poiché egli è al di sopra di qualsiasi progetto.
 
Si giunge al di fuori del negativo estromettendolo dalla dialettica,  non concedendogli il contrario del positivo e quindi uscendo fuori dal senso del lavoro, passando da una “economia ristretta” a una “economia generale”, nell’accezione che ne trae Jacques Derrida nel testo dal titolo omonimo (Dall’economia ristretta a un’economia generale. Un hegelismo senza riserve). È in quest’opera che Derrida parla di un “laceramento spasmodico del negativo”, come modo per giungere a un negativo senza riserve.
  
 
   Il sovrano è colui che vive l’esperienza interiore come uno scavo profondo nel negativo in pura perdita, dove vediamo avvenire una “riduzione del senso”. Si resta sì nel negativo, senza però passare attraverso quella che Hegel chiama la Aufhebung. Si rinuncia (restando poggiati al riso) al traguardo di una qualsivoglia totalità.
 
  
   Nella prima pagina della seconda parte de L’esperienza interiore, intitolata Il supplizio, si legge: “vivo di esperienza sensibile e non di spiegazione logica. Ho del divino un’esperienza così folle che si riderà di me se ne parlo”12.
   Il supplizio è quella condizione (l’unica) in cui è possibile fare esperienza del divino, ed è quella in cui nulla è possibile. È il momento in cui è possibile “trasformare l’angoscia in delizia”; è lì che inizia quella che Bataille chiama la Chance.
   La supplica è per Bataille condizione umana imprescindibile. Passando di possibile in possibile si arriva infine a eludere il senso dell’io. Inizia l’esperienza, che non sarà mai possibile raccontare. È a tale proposito che Bataille adopera la figura allegorica del labirinto. Egli parte dalla constatazione che alla base di ogni vita umana esista un “principio di insufficienza”: ciascuno ricerca l’essere, ma questo non lo si può incontrare da nessuna parte. Non è possibile pensare di poter racchiudere qualcosa, perché per Bataille l’unica cosa che possiamo trovare è l’insufficienza stessa. Dunque l’esperienza in sé viene vista come un esercizio filosofico vero e proprio, al quale non è possibile arrestarsi davanti a qualsivoglia tempio conoscitivo, ma piuttosto si presenta come una perenne fuga.
 
   Se Bataille va considerato come una sorta di hegeliano e insieme al contempo un “anti-hegeliano”, bisogna tutt’al più non dimenticare quella che egli definiva come una comunione con Nietzsche, nel quale egli vede non un semplice ateo, demolitore della dottrina cristiana, ma più propriamente un sacrificatore. Il filosofo che esaltava il dionisiaco, viene preso come esempio per spiegare quell’idea di sacrificio secondo la quale si accede al sacro solo con l’uscita fuori dal piano del trascendente, per arrivare alla fusione con quella totalità originaria propria dell’indistinto.

Luca Atzori

giovedì 27 ottobre 2011

PERVERSIONI LETTERARIE

LA POESIA E' UN SACRIFICIO

Scrivere una poesia, significa operare nel più stretto senso del termine, un sacrificio delle parole. Intendo che queste vengono estromesse dalla loro appartenenza al mondo reale delle cose, si affrancano dalla loro funzione servile, e vengono portate in una sfera di inutile e pura privazione, sovrana . Le parole, con la poesia vengono condotte “dal noto all’ignoto” . Si fa di esse delle vittime.
Nella poesia avviene un abuso delle parole, dove diventano possibili accostamenti che normalmente sarebbero impossibili e privi di utilità. Il cavallo può diventare un “cavallo di burro” e non assumere più quell’importanza determinata dall’utilità che esso ha per l’uomo. Il cavallo, qualora sia stato reso poetico, viene estromesso da un progetto, straripa da qualsiasi forma di determinazione. Con la poesia si opera un vero e proprio abbandono della progettualità, per questo il suo è un aspetto apertamente sacrificale. In essa non vi sono più tracce del piano proprio della morale e dell'etica. Non vi è alcun rinvio, perché in essa domina l’istante, la parola stessa assume un valore che è proprio , non rimanda ad alcun significato ulteriore, non serve a giungere a niente.
È attraverso il linguaggio che nella poesia si eccede il possibile.
 
“La paura, l’ironia, l’angoscia che provate in presenza del poeta che porta la poesia su tutta la propria persona, non ingannatevi, è pura felicità, felicità sottratta agli sguardi e alla sua propria natura” (Georges Bataille – Esperienza interiore)
 
Attraverso la poesia ci distanziamo dall’angoscia. Si strappa alle parole il loro potere, la loro funzione, e anche la malinconia diventa cantabile e “felice”. Ci si pone con essa al di fuori di ogni limitazione, preoccupazione.
Su che cosa dovrebbe fondarsi il progetto, infatti, se non su una certa ansia di realtà, un pensiero rivolto al futuro, alla prassi, alla realtà del mondo delle cose?
Il poeta, anche egli, tende alla totalità, e tenta di fuggire dal possibile. Per far questo sacrifica le parole. La poesia risulta così essere una forma di sacrificio.
 La poesia non rispecchia perciò lo spazio delle cose effettivamente perdute, perché se così fosse si sarebbe ricondotti totalmente all’ignoto. Essa va piuttosto pensata come il ricettacolo delle rovine rimaste, e per ciò stesso, possedute. Nella poesia il desiderio continua a durare, anzi, si può dire che una certa “funzione” della poesia sia  proprio quella di mantenerlo in vita.


ALBERTINE

Un personaggio estremamente poetico lo traiamo da la “Recherce” di Proust, Albertine : “grande Dea del tempo” . Ella si rendeva desiderabile, quanto più non fosse afferrabile. Sembra quasi che qui il desiderio con lei si spenga in conseguenza di un’oggettivazione. Mediante l’individuazione dell’oggetto, qualora questo non sia più una vaga e opaca ombra che si celi nell’ignoto, si ha il possesso, si spegne perciò quell’ aspirazione che contraddistingue l’amore. Esso cessa qualora venga posseduto l’oggetto che si ama. Eppure, ciò nonostante, il desiderio è mosso proprio dalla volontà di possedere. Diventa insostenibile qualora non sia esaudito.  Così è solo tramite la memoria che possiamo afferrare l’istante in cui quell’oggetto è stato raggiunto, nel culmine del desiderio. Si opera quindi una distinzione fra l’intelligenza e la memoria. Alla prima appartiene il progetto alla seconda, invece, il tempo. Nella conoscenza, si ha un’uccisione dell’ignoto, proprio perché essa genera il raffreddamento di quella tensione che per mantenere viva è necessario collocare in uno spazio dove non possediamo chiarezza dell’oggetto cui aneliamo. Quell’oggetto ci è dato, lo abbiamo in nostro possesso, quindi dal momento che la felicità è stata raggiunta, quel che ci resta è l’oggetto, ma non più il desiderio della felicità stessa, che di per sé è andato perso. Forse perché appartenendo all’ignoto è per sua stessa natura inafferrabile. Forse perché non può essere collocato in alcun ambito della distinzione individuale. Non può darsi come noto. È fatalmente collocato oltre. E’ per questo che la memoria diventa la sede dove conservare un tratto di quella felicità, perché essa si fonda sulle impressioni, che sono per loro stessa essenza inafferrabili, si sottraggono alla presa, nonostante si diano in superficie, senza però rendere possibile il loro raggiungimento, in quanto esse non sono effettivamente “cose reali”.
 La ricerca del tempo perduto è il testamento di Proust. Un’opera che tende al disgregamento, anela alla morte, passando attraverso il raccoglimento dei ricordi. “lasciamo che il nostro corpo si disgreghi”

La scrittura diventa la conseguenza della perdita, un atto di conservazione, dove restano solo le rovine, i pezzi di quel che nella realtà è diventato impossibile cogliere.

Luca Atzori

sabato 1 ottobre 2011

PARABOLA NUMERO 2: PERCHE' ASCOLTARE GLI ANZIANI.

Arrivò l'ora del pranzo e ci sedemmo tutti a tavola. Le serve iniziavano ad imbandire la tavola. L'odore era forte e la nostra fame invadente. Il Maestro fermò subitaneamente le nostre braccia già pronte ad afferrare le pietanze e disse: “non vi sazierete se non dopo aver ascoltato la mia parabola”.

Così iniziò a raccontarci la parabola del serpente, la scimmia e l'uomo.

“Un tempo c'era un uomo che si sentiva tremendamente stupido e immaturo. Egli aveva una casa di legno vicino alla giungla. Non riusciva a sopportare la propria stupidità, a tal punto che bestemmiava il proprio nome e si lamentava del fatto stesso di essere nato.
Decise di andare alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarlo, un maestro. Uscì dunque di casa e si incamminò entrando in un tratto della giungla attraverso la quale per forza doveva passare per accedere al mondo civilizzato.
Camminò e incontro il serpente che gli domandò “che cosa vai cercando, stupido uomo?” e lui rispose “cerco un maestro”. Il serpente gli disse “l'hai trovato!”. L'uomo lo guardò e rise sguaiatamente. Gli domandò “e che cosa avresti da insegnarmi?” il serpente gli disse “avvicinati e te lo dirò. Io ho tutto da insegnarti”. Così, l'uomo, con superiorità gli si avvicinò e ascoltò le sue parole.
Ma dopo un po' si rese conto che di certo un serpente non poteva insegnargli un benemerito nulla. Così lo interruppe e se ne andò.
Camminò ancora e incontrò la scimmia che gli domandò “che cosa vai cercando, stupido uomo?” e lui rispose “cerco un maestro”. La scimmia gli disse “l'hai trovato!”. L'uomo la guardò e rise sguaiatamente. Le domandò “e che cosa avresti da insegnarmi?” la scimmia gli disse “avvicinati e te lo dirò. Io ho tutto da insegnarti”. Così, l'uomo, con superiorità gli si avvicinò e ascoltò le sue parole.
Ma dopo un po' si rese conto che di certo una scimmia non poteva insegnargli qualcosa. Così interruppe anche lei e se ne andò.
Superata la giungla, giunse finalmente al villaggio. Lì incontrò finalmente un maestro. Gli si inchinò davanti e disse “oh maestro, io sono giunto fino a qui per voi, per apprendere qualcosa”. Il maestro gli disse “che cosa posso insegnarti io?” e lui “oh maestro, tutto! Tutto!” il maestro lo guardò e gli disse “io non ho niente da insegnarti”.
Lui non capiva. Gli disse “ma come maestro, voi che sapete tutto! Mi han detto che voi siete l'uomo più saggio del pianeta!”. Il maestro gli disse “hai incontrato lungo il tuo cammino la scimmia e il serpente?”. E lui “si quegli stupidi animali che si spacciavano per maestri... quegli sciocchi”.
Il maestro gli si avvicinò e gli disse “ora torna da loro, e fatti insegnare tutto quel che hanno da insegnarti. Poiché è da loro che per primi devi imparare, non da me. Quando ti avranno insegnato tutto, torna pure qui e allora avrai imparato”.

Luca Atzori

martedì 27 settembre 2011

LE PRESE IN GIRO DELL'ESSERE

Ogni percorso si sia deciso di intraprendere, porterà, è ineluttabile, ad una meta sempre particolare. Qualsiasi fede spirituale (o anche non, come ad esempio la scienza e tutti i restanti esempi che si possan prendere) si pone una finalità da raggiungere, e chi la abbraccia si mette in una condizione per la quale solo gli elementi interni a quel credo medesimo, possono servire al fine stesso: di per sé sempre esclusivo.
I cristiani e i musulmani ricercano la salvezza e il paradiso mediante differenti percorsi, nonostante le due fedi siano ben distinte, e la stessa salvezza cui tende uno è differente da quella cui tende l'altro. Il buddhista tende ad annientare la sofferenza e porre fine al ciclo del samsara. Lo scienziato ricerca tramite teorie esperimenti e ricerche di conoscere l'universo. La filosofia tende alla verità.
Ciascuno di questi contesti, rappresenta un sistema che ha inizio e fine in sé stesso. Ognuno contestualizzato linguisticamente al proprio interno, contiene già in sé l'unico fine possibile, necessario a determinare la struttura interna a sé come elemento di sistema organizzato. La finalità è sempre decisa sin dall'inizio (o addirittura tramite esso). Ogni percorso presenta però la natura della problematicità. Senza questa non potrebbe darsi nessuna evoluzione, nessun passaggio possibile. Il sistema in sé è perfetto, visto nell'insieme, ma al suo interno, perché questo possa essere reso coerente, saranno stati individuati una serie di errori plausibili, che abbiano determinato la natura stessa della perfezione interna. Questo perché ogni sistema è la rappresentazione di una certa data situazione di realtà. Prendiamo ad esempio la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Con il processo dialettico, presente soprattutto nelle due figure del servo e del padrone (il primo come facitore di storia tramite il lavoro e il secondo che capitalizza il primo al fine di un progetto determinato) si tende all'assoluto. Ma innanzitutto, questo assoluto che cos'è se non un'Identità assoluta, quindi di per sé esempio di un limite che determini il tutto visto necessariamente all'interno della parte. La realtà, di per sé coerente, descritta nella Fenomenologia dello spirito, racconta di uno specifico contesto che è quello della modernità e del lavoro. La Fenomenologia dello spirito potrebbe essere pensata come grande romanzo sul lavoro. Ma se ci estromettiamo da una dialettica e ci poniamo in un'ottica invece paradossale e ironica, vediamo come questo risulti essere un particolare in mezzo a tanti. Fenomenologia dello spirito come il Corano, come la Costituzione italiana etc.
L'unica cosa che resta da fare per un'indagine che prenda atto della condizione di compiutezza propria della ragione, è di smontare i giocattoli. Nel fondo di ogni cosa si troverà quel concetto che Heidegger indicava come il più ovvio e il più generale, ovvero l'Essere.
L'Essere è innanzitutto il primo postulato. Inizia e finisce in sé stesso.
Ad esempio quando io dico che la rosa è rossa, la mia frase avrà senso all'interno della categoria stessa dell'essere, perché al di fuori di quell'essere stesso la rosa non sarà assolutamente rossa. Al di fuori dell'essere non si darà niente che sia pensabile.
L'Essere è il responsabile del fondamento di ogni realtà, che sia essa materiale o spirituale.
Dovremmo immaginarci l'Essere, però, come un bullo che abbia deciso di prenderci in giro. Fare un gioco dove ogni contestualizzazione di verità conserva in sé delle regole che per determinare la realtà di quello stesso sistema, hanno bisogno di essere insieme seguite e violate ma sempre all'interno di sé stesse. Così si viene presi in giro. Si viene trasportati nel giro, dove vi è un limite di possibilità determinato. Il carnefice è in questo caso l'Essere. Esso è indistruttibile, imbattibile. Può essere affrontato solo con l'umile forma di rispetto che è l'ironia. Al limite dell'Essere diventare consapevoli che ciò che è, non è che un particolare in mezzo al resto, dove non sappiamo cosa d'altro possa esserci, semplicemente perché siamo ad ogni modo inclusi sempre (e paradossalmente) nell'Essere.
Lo stesso vale per questo mio discorso.
Che resta da fare?
Passare dall'angoscia al riso. Farsi una grande risata davanti alla verità della verità/falsità.
Oltre l'Essere non c'è che l'impensabile, che noi stessi possiamo dire esserci proprio all'interno della categoria dell'Essere stesso. Ma al di fuori... si, nient'altro.

Luca Atzori

martedì 16 agosto 2011

APOLOGIA DELLA SUPERFICIALITA'


Ogni volta che si tenti di approfondire la conoscenza di un qualcosa che ci ha dato dal principio una cattiva impressione, si andrà sempre verso il peggio, ci si troverà costretti a interfacciarsi con ciò che noi non saremo mai in grado di amare, e spesso se ne diventerà paradossalmente (e ridicolmente) succubi.
Per le persone di buon gusto, è difficile, ma è anche un dovere quello di imparare ad essere totalmente superficiali. L'impressione che noi abbiamo delle cose, ci porta sempre il nostro luogo di sensazione in rapporto a quella cosa specifica. Quell'impressione ci dice sempre la verità su quello che per noi la cosa può significare, e insieme ce ne illustra l'utilità potenziale. Si vuole spesso non voler risultare “snob” cadendo così nella trappola degli umili, tradendo la fiducia nei propri sensi.
I sensi (quando sono tali, e non semplici convinzioni o pregiudizi) non mentono mai, alla faccia di Cartesio e dei suoi sciocchi dubbi.
Il senso del disgusto è una virtù estetica. Qualora sia fine a sé stesso diventa un vizio. Il disgusto, non avviene per il piacere del disgusto in sé, ma verso le cose in relazione alla nostra soggettività, per ciò stesso con attenzione verso la sfera della nostra progettualità, e quindi, in poche parole, esso è servitore della nostra esistenza presa nell'insieme. Lo stesso dicasi per ogni forma di sincero apprezzamento che porti come tale benessere e piacevolezza.
È vero però che non ci si può semplicemente soffermare solo sulle apparenze e non si può restare in superficie. A un certo punto della vita ci si rende conto che è necessario “crescere”. Che cosa significa in fondo questa parola tanto impegnativa quanto dolorosa (seppure sia un vocabolo da sempre necessario)?
Significa semplicemente non farsi più imboccare. In ogni senso. Ciascuno dovrà cioè tendere alla superficialità, ma come punto di arrivo. Nel mentre, tutta la sfera di cose che avremo deciso che ci piacciono o non ci piacciono, quelle dovranno essere messe in discussione. Che cosa veramente ci piace? È possibile vivere fino in fondo ogni cosa, pur restando in superficie?
La risposta alla prima domanda è semplice: ci piace ciò che ci fa star bene.
La risposta alla seconda è che si tratta di un esercizio molto difficile che richiede la profondità più vuota e abissale.
Tutto ciò che bisogna arrivare a ottenere, è il silenzio del dubbio. Incontrare un qualsiasi oggetto, persona, evento, averne una cattiva impressione ma accontentarsi, non può che essere nocivo, oltre che completamente inutile. Tutto ciò nasce dal senso di colpa che ci induce la parola “superficialità”. Bisogna ripensare questa parola come la virtù dell'intuizione, propria solo di chi abbia capito fino a fondo il proprio gusto, e perciò se stesso. Dalle sensazioni parte l'esperienza dalla quale consegue la conoscenza. Tradire le sensazioni significa abbracciare l'ignoranza.
Tutto ciò che ci provocherà disgusto andrà evitato, o trattato con disprezzo. Tutto ciò che ci provocherà interesse andrà trattato con attenzione, e viceversa per ciò che non ci interesserà. Tutto ciò che ci farà innamorare andrà amato, e viceversa valga per l'odio.
Per arrivare a questo bisogna però non lasciarsi cullare da una nevrosi fatta di false convinzioni o chimere dai falsi riflessi, ma bisognerà essere arrivati a pieno contatto con il proprio centro.
Chi sa, non ha bisogno di pensare. Al sapiente basta sentire.
Essere superficiali significa avere imparato ad amare la macchina più adorabile che esista al mondo, che è quella che siamo noi stessi.

Luca Atzori

martedì 9 agosto 2011

DISGRAZIA E REDENZIONE





La disgrazia è l'apparenza della redenzione.
Noi siamo perennemente in guerra con la nostra redenzione.
La nostra redenzione non ha apparenza, per questo è ineffabile.
Noi possiamo abbandonarci, senza coscienza.
Tutto ciò che riguarda l'apparenza è una negazione della nostra disgrazia.
Non c'è traccia di disgrazia nella redenzione.
Era redenzione, quella disgrazia.
Ma era disgrazia, nell'apparenza.
Arrendersi alla redenzione.
Noi possiamo adagiarci nell'euforia, ma finché servirà a celare la disgrazia o donare sorrisi agli altri, sarà solo una truffa, un bluff, quella felicità, intendo.
Dopo il bluff tornerà la disgrazia, con gli interessi.
Bisogna arrendersi.
Perché arrendersi?
Perché condannati alla verità.
Ci siamo condannati da soli, perché abbiamo odiato il falso.
Il falso è il coperchio della redenzione, dapprima della disgrazia.
È la morte.
Amare la vita, è una disgrazia?
Tutto arriva prima o poi.
Raschiare le proprie possibilità fino a toccare l'impossibile.
Farsi muti.
Da lì un miracolo.
Si, è una disgrazia.
Ma è necessario.
È una maledizione il vero. Una maledizione inflitta dal falso.


(ogni tanto guardo le stelle stampate sul cielo nero, e divento certo che la geometria è un disegno fatto su un foglio di carta, bianco...)

Mi chiamo Luca Atzori, e ho sei anni.

mercoledì 13 luglio 2011

MAD PRIDE: L'ECLISSI DEL SE'

Mad Pride intende riporre la sua attenzione verso la pazzia, ma con una giusta precisazione da fare: essere pazzi non fa figo. Il concetto del “fare figo” è esattamente ciò che maggiormente contrasta con i propositi che sorreggono l'etica di Mad pride.
Innanzitutto bisogna subito porre una distinzione fra quella che viene intesa come la nostra personalità e quello che invece potremmo definire il nostro vero sé.
La personalità è spesso costretta ad essere qualcosa di più che una maschera. Essa diventa una menzogna.
Normalmente si è costretti a mentire su sé stessi, lanciando sorrisi, sguardi, parole, che sono di per sé segnali convenzionali lanciati come frecce e dispersi nella memoria che gli altri porteranno di noi stessi come una facciata vivente, il ricordo di un demone.
Facendo questo creiamo uno scudo per il nostro sé, dove la verità delle emozioni e dei nostri pensieri, viene dapprima occultata, poi dimenticata e fatta marcire.
Dobbiamo immaginare di essere osservati da un occhio che giudichi solo il vero, solo ciò che abbiamo compiuto con le nostre azioni. Quest'occhio ci guarda mostrandoci il nostro sé, che ci appare come un bambino, un vagabondo marcio e ubriaco, abbandonato a sé stesso, anzi nemmeno, abbandonato agli altri, come cani affamati.
Nel mentre però la nostra menzogna si porta avanti con grande gioia, con determinazione, anestetizzando il resto.
Una felicità di facciata. Una felicità informata. Niente di fattuale. Il vuoto felice, ma con il calcare ai bordi, un calcare che cresce fino a riempire.

Mad pride ritiene che la pazzia sia l'effetto di un totale denudamento del sé, oltre che una frammentazione dell'io. Il sé è messo a contatto con le cose messe in relazione alla propria esperienza, ed è come se potesse dire a sé stesso “ecco, questo sono io”. Molto spesso nella pazzia quello che ci vengono mostrati sono mostri, fantasmi, incubi, immagini insopportabili, ma vere, esattamente quanto è vera la nostra fragilità.
Mad pride sostiene che sia possibile uno sviluppo, rendere possibile la crescita del sé, farlo diventare adulto, senza che sia per ciò stesso costretto a cristallizzare idee che non gli appartengano, dunque, in sostanza, rendendo possibile il mutamento della materia stessa, come fosse un processo alchemico.
Mad pride ritiene che al giorno d'oggi questo processo sia ostacolato.
Per prima cosa bisognerà essere orgogliosi del proprio Sé, per quanto possa apparire agli occhi della società come ributtante o risibile. Da lì imparare a conviverci. Renderlo sovrano, creatore, datore della propria norma di vita.

Mad pride se ne fotte delle esigenze del mondo del lavoro, della morale, dell'educazione “borghese”, delle mille abitudini che ci fanno schiavi, da quelle legate al divertimento, alla carriera, alla narcotizzazione, all'abbigliamento, al sesso etcetera.
Mad pride vuole rendere dignità al denudamento totale del sé, e non per semplice filantropia, né per esigenze assistenziali, ma piuttosto perché da lì si ritiene possibile lo sviluppo dello spirito.
È vergognoso che la maggior parte della gente tenga nascosto qualcosa di sé che mostrerà spesso solo nell'intimità con gli altri, e in maniera immatura, perché è di energia, tutto sommato, che si parla, e nessuno ci insegna a gestirla.

I pazzi sono immaturi perché la paura blocca la crescita del loro sé.

È questo lo scandalo che vuole rivendicare Mad Pride.
Basta con l'emarginazione e la demonizzazione di chi è “diverso” per condizione emotiva e psichica. Basta con il bullismo della mediocrità. Basta con l'egoismo che rende vigliacchi e non orgogliosi. Basta con il voler essere a tutti i costi come quell'altro che sorride (a sua volta come un altro, che come un altro, che come un altro, che come un altro, che in fondo nemmeno esiste).

Ovvio, l'unico modo per rendere possibile questo è iniziare a protestare contro lo strapotere della psichiatria e della massa arrogante, e per far ciò, creare una comunità di intenti, incontrarsi e cambiare prospettive.


Luca Atzori

lunedì 27 giugno 2011

IL FILOSOFO GEOMETRA

“Nessuno entri se non è geometra”

Questa è la frase che a grandi lettere si vedeva scritta all'ingresso dell'Accademia di Platone.
Secondo il Grande Filosofo, non era possibile arrivare a conoscere la filosofia, così come qualsiasi scienza o anche arte, se prima non si conosceva a fondo la geometria. Già, qualche burlone potrebbe obbiettare: “ma quindi per iscriversi alla facoltà di filosofia oggi dovrebbero mettere una grande scritta all'ingresso dell'ateneo che dichiari -qui si favoriscono i diplomati all'istituto tecnico per geometri piuttosto che quelli provenienti dal liceo classico?-” e la risposta è no. Si potrebbe dire anzi che se conosciamo a fondo quella scritta, non ha più importanza essere diplomati né ai geometri, né al classico, né alla scuola radio-elettra o via dicendo.
La parola geometra ha un significato ben preciso, e potrebbe essere accostato a quello che ci viene suggerito dalla parola “iniziazione”.
Dov'è che ha inizio la filosofia, e perciò l'amore per il sapere? Aristotele sosteneva che la sorgente fosse la meraviglia, e che quindi da uno stato di confusione, un caos, si generasse poi la spinta a conoscere, per mettere ordine. Dal caos si generano pensieri, una copiosa fontana di stronzate che si muovono nella testa senza direzione precisa. Durante il movimento dei pensieri, il corpo sta fermo, o si muove goffamente, fa altro, insomma è spesso completamente staccato dalla testa.
Come è possibile produrre un pensiero corretto (e evidenzio l'importanza del pensiero e non del pensiero sul mondo) se non abbiamo un oggetto definito di pensiero? Come è possibile avere un pensiero che sia proprio, e che quindi faccia parte di noi stessi e non sia una mera nozione o un fantasma che studiamo sui libri in compagnia della gobba e dell'assenza di fascino?
Non è un caso che all'Accademia di Platone si praticasse con molto rigore la ginnastica. È necessario per il filosofo essere in forma. In forma può essere inteso qui in senso anche lato, come un'allegoria (ma va preso soprattutto in senso letterale) per intendere l' essere nella forma, nella propria. Perché possa iniziare il pensiero è necessario essere posizionati fermamente sulla terra. È quando si è trovata la posizione giusta che si trova la giusta misura che ci separa, in quanto individui pensanti, dagli astri, gli alberi, le zone più sconfinate dell'universo.
Nel momento in cui noi abbiamo trovato il nostro centro, lì comincia l'iniziazione. Sono posizionato sopra la terra, conosco la distanza che mi separa dalle stelle, ho usato il compasso e la squadra, so chi sono io, so da dove provengono questi pensieri (da me stesso, cioè) posso arrivare a conoscere il mondo.
Già, conoscere il mondo, così pensavano ingenuamente gli antichi occidentali. Ma spostiamoci a oriente, e vediamo come la pensavano i maestri Zen.
Anche nello Zen si diventa geometri. Ci si siede, si medita, si trova la giusta posizione e poi si rivolge l'attenzione verso il vuoto. Bisogna pensare al vuoto, così si smette di pensare. Insomma l'importante è smettere di pensare, arrivare a non pensare a nulla... si certo, come no.
Quando si dice che il maestro Zen è arrivato a non pensare a nulla, si dimostra di essere dei meri ignoranti, perfetti asini. Il maestro è arrivato, piuttosto, a pensare di pensare il nulla! È infatti impossibile pensare al vuoto. Si può, al massimo, arrivare a pensare di pensarlo.
Quindi il Maestro Zen non insegna che è possibile non pensare, ma piuttosto spiega che è impossibile non pensare, che non sarà mai e poi mai possibile smettere di pensare.
Noi penseremo sempre.
Pensare si esercita come una ginnastica.
Il pensiero, per tutta la vita, non ce lo toglieremo mai di dosso, così come (non provateci assolutamente) noi stessi.
Ma ci vuole forza. Platone lo sapeva.



Luca Atzori

giovedì 16 giugno 2011

LA LEGGEREZZA FRAINTESA

Oggi ritengo che l'importanza della letteratura sia tanto trascurata, quanto più urgente e necessaria. Il ciarpame di pseudo-letterati, scrittori e teatranti che emergono per inquinare la nostra immaginazione (già di suo poco allenata, fra clakson e allegrie di secondo uso) sono contraddistinti da una leggerezza immensamente irritante, a metà fra leziosi mugolii e l'ironia “della sorte” dello stereotipo accecante che contraddistingue lo scenario. La causa di questo (per niente sorprendente) avanspettacolo culturale, ritengo che sia da rilevare in un esile fraintendimento dal quale è difficile venir fuori, come trovandosi ad essere serrati in un labirinto irreparabile e paradossale.
La letteratura, innanzitutto, è sempre leggera. La poesia, il romanzo, il dramma, lo sono stati da sempre. La parola “leggerezza” va però assunta nel suo più stretto significato umano, quello dove le parole si trovino a carezzare (anche fino a gettare nella più totale malinconia) il cuore del lettore. La leggerezza può essere un modo che abbiamo per concederci di essere deboli, per indagare a fondo le emozioni, la forza del dettaglio descritto nel mezzo delle pagine dove si nasconde la natura più intima di ogni ricordo, e quindi di ogni senso.
Gli occhi di chi non legge, sono abituati alla realtà, a leggere la realtà, e le proprie emozioni ne prendono la forma. Somigliano a grossi macigni, mura, tavoli, masse di gente. Emozioni grandi, ma accecanti.
La letteratura serve a rimpicciolirle le emozioni.
La letteratura è una concessione all'interiorità, che di per sé, siamo d'accordo, è costante, e che grazie a quell'alleggerimento, abbiamo modo di rafforzare, nel valore di semplicità, senza cedere alla sfida dell'ascolto.

“è la mia peculiare malinconia
composta da elementi diversi, quintessenza
di varie sostanze, e più precisamente di
tante differenti esperienze di viaggi
durante i quali quel perpetuo ruminare mi
ha sprofondato in una capricciosissima
tristezza.
Non è una melanconia compatta e opaca, dunque, ma un velo di particelle minutissime d'umori e sensazioni, un pulviscolo d' atomi come tutto ciò che costituisce l'ultima sostanza della molteplicità delle cose.”
 
(Italo Calvino, Lezioni americane)

Quella malinconia descritta da Shakespeare e ripresa da Calvino, viene detta fra le parole solventi, sublimi e leggere, dove non vi è concessa opacità, ma la freddezza del più puro sentire. Non è dalla sofferenza che la letteratura cerca di far fuggire, ma piuttosto, al contrario, dal quotidiano, dalle manie nelle quali ci intrappola un ritmo anestetico (e antiestetico) dove quell'assenza di dolore si rivela essere la condanna più insopportabile.

Spesso, invece, la letteratura, presa ad ampio raggio, si occupa piuttosto di intrattenere, distogliere dalla sensazione, portare ad un alleggerimento frivolo e violento. Un risveglio degli occhi e delle sue nevrosi, ma non significano niente, se non l'ascolto mediocre degli altri e te stesso (mediocre), la maschera assunta dai loro sorrisi isterici. Le notti alcoliche fatte di voci e rigurgiti a verità dichiarate, narrate fra gli schermi televisivi o le vetrine, dove i colori chic fanno luce agli abiti che vestono i corpi freddi e sarcastici di Paolo e Francesca corrotti dai loro demoni.
Quella che dovrebbe essere una via d'uscita fuori dalla nevrosi del quotidiano, si rivela esserne la principale via d'accesso. Le coscienze frammentate e la chiaroscurale schizofrenia descritta ad esempio in quelle neoavanguardie che declamavano crittografie, polveri da sparo, fegati e indemoniati nulla (cit) si rivela essere l'unico luogo di sur-realtà che diventi oggi proprio dell'ispirazione.

Costretti a parlare di telefoni cellulari e canali pornografici, dove ciò che inquina è il loro significato insediato come calcare nella koiné aisthesis.

Niente da dire sul fatto che sia inevitabile, e che siamo costretti a questa triste ironia, dove la nostra lotta è fatta di parole che contestino e risparmino i calci e gli schiaffoni.

Oggi possiamo solo ringhiare i nostri contenuti, e lo facciamo per la sopravvivenza.

Ma niente da dire neppure sul fatto che siamo gettati a forza in una parodia della parodia, e che, sia comicamente che tragicamente, il flusso della vita che tentiamo di portare avanti con integra dignità, lo ritroviamo spezzato. Laddove i significati sono stati fatti a pezzi abbiamo bisogno di crearne di nuovi, e forse l'unico modo che abbiamo per iniziare è partire dal silenzio. Come diceva quel certo personaggio felliniano: “Siamo soffocati dalle parole dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita... che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artista veramente degno di questo nome non bisognerebbe chiedere che questo atto di lealtà: educarsi al silenzio."


Luca Atzori

domenica 5 giugno 2011

MANZONI E ALTRI BOVINI

(Cazzeggio del mattino in post sbornia)


Che esistenza cinica quella delle rane
nel loro monacale gracidare
che si intendono al pianterreno delle case cavernose.
sempre in posa! sempre in posa! le rane
quelle rane.

Questo intervallo vallo a recuperare
lo stesso occuperà lo spazio dei tuoi vizi
laddove selfcontraddirrà
ancora non so quante volte
ancora non so.

e un cieco sorrise:

Whisky, Rhum, Tequila, Birra, Vino, Vodka
Spazza pure

Tacque

conducetelo al tramonto!
conducetelo al tramonto!

E' chiaramente un affare
fuoriuscire dal villaggio
la curiosità di spaccarvi il culo
la violenza la sottovalutate miei cari
la violenza, si.

"povera cosa è l'uomo
quando lo visitano i genii
non è più nulla" Chateaubriand lo sapeva
che il meno sapiente è il più sapiente
di tutti gli uomini etcetera insieme

Le ragazze per la strada,
le ragazze

alle conferenze su Carlo Michaelstaeder
quante ottantenni

Vedo in te un uomo civile diventato saggio,
alla prossima luna di fiori
la fuori HO VOLUTO
santificare ciò che il Cristianesimo HA DOVUTO profanizzare

è ovvio, parliamo dei pelazzi sulle ascelle
parliamo delle scoregge
e anche dellandartiammorìammazzato.

Quel che mi resta da dire è questo:

Ai postumi di un sabato sera, l'ardua sputazza.



Luca Atzori

lunedì 4 aprile 2011

IL DIVERTIMENTO NON MI DIVERTE


“divertirsi significa essere d’accordo.” Adorno

Il divertimento è la più sofisticata forma di controllo che sia mai apparsa nella storia dell'essere umano.
Il potere si è evoluto in una forma di organizzazione, dove il ruolo non è più quello di esercitare il terrore, ma piuttosto quello di garantire una sorta di piacere esteso a tutta la massa.
Gioia di vivere nell'era dei consumi.
Un piacere preconfezionato, dosato, territorializzato.
Un'educazione ruffiana, pensata apposta per agguantare ogni singolo nelle braccia del Leviatano.
Come Adorno spiegava nel capitolo dedicato all'Industria Culturale ne La dialettica dell'illuminismo, l'unica regola è “adattarsi”. Le emozioni vengono impacchettate, identificate, visualizzate e poste al limite, dove il resto è panico, fatto di emozioni troppo costose che bisogna dimenticare in fretta, per non venire rinchiusi in qualche clinica.
Il fine è quello di mutilarsi del regolare flusso vitale, per accogliere passivamente il sorriso disegnato e atto a garantire l'esistenza in questo mondo fatto di barbarie.
Non è la più pura consapevolezza che si ricerca, ma piuttosto il dimezzamento fra la parte conscia e quella inconscia, dove alla seconda venga assegnato un automatismo animale, innominato, taciuto.
Il divertimento è una perdita di tempo, e porta solo a ridicolizzare tutta una certa sfera umana della quale siamo analfabeti, in particolare quella emotiva. Noi non possediamo più una lingua che possa farci esprimere le nostre emozioni.
Siamo abituati ad avere paura l'un dell'altro, a dover apparire felici per sembrare forti, quando siamo in fondo solo isterici.
La fragilità è diventata una vergogna, perché è diventata una vergogna essere vivi.

Il divertimento, in realtà, non arriva mai. Avviene sempre che lo si sfiori, ma non lo si afferra. E anche quando lo si è sfiorato, si è tentato piuttosto di portare agli altri l'illusione della propria felicità. Ciascuno cerca di inseguire la felicità dell'altro.

Bisogna certo distinguere il divertimento dalla gioia, anche condivisa, intesa nello stretto senso del termine.
La gioia, soprattutto quando è vissuta a livello comunitario, è il più grande esempio di amore per la vita. Una solarità che non sia determinata dall'entusiasmo di stare in mezzo a un branco di mentecatti, ma piuttosto di essere con quelli giusti, affini.
Quando Pascal parlava del divertissement, lo intendeva come quel momento di distrazione, dove si perda il proprio centro e si giunga nella zona della spensieratezza, dove la vita e la morte vengono occultate.
Il divertissement è quel momento in cui si diventa stupidi per poter vivere, e in cui perciò si entra a far parte della morte.
Ogni aspetto realmente vitale, viene percepito come foriero di “pesantezza”.
È così che ciascuno si adegua alla vuotezza dell'altro, senza portare con sé la dignità del proprio ventre.
La pancia, nell'era del divertimento, è soggetta ad insulto, manipolata, tratta in inganno, violentata.
Un mucchio di rincoglioniti e sciacquette che si incontrano in un locale e iniziano a danzare al ritmo tribale che li educhi alla deficienza, accompagnati da una narcosi alla quale sono giunti non per una pura disperazione (anche se questa è l'ingrediente fondamentale nella società dei consumi) ma piuttosto per poter comunicare l'un con l'altro, dove per relazionarsi bisogna essere delle sorte di mongoloidi, totalmente spensierati, felici di vivere in questo mondo perfetto fatto di sterco.
Molto spesso gli stessi sono perfettamente in grado di avere strumenti critici durante le loro giornate trascorse in grigie università, o in qualche luogo dove magari esercitano un qualche impegno politico di non so qual sorta.
Quando mi imbatto in chiunque sia preso nell'atto di divertirsi (in particolare quando vedo come lo fa) è come se in quel momento cascasse l'asino, e mi si parasse davanti la vera posizione che questi occupa nel mondo. Posso capire tutto da una risata, da un atteggiamento, un apprezzamento, una caduta nella volgarità.
Ciascuno è tenuto ad assumere il proprio aspetto in funzione degli altri.
Essere serio di giorno, di notte prenderti da parte e svelarti di essere privo di cervello.

Ammetto personalmente di aver tentato più volte di divertirmi, e di continuare a tentare. Ma ahimè, ogni volta, mi rendo conto che due sono gli esiti:
o il divertimento non esiste per nessuno
o il divertimento non mi diverte.

Luca Atzori

mercoledì 30 marzo 2011

PARABOLA NUMERO 1: PERCHE' ESSERE SEMPRE GENTILI

Un mattino, poco prima del primo pasto, quando ancora eravamo troppo stanchi per pensare, il Maestro ci fece riunire in cerchio, e ci invitò a tenere alto il capo, per abituarci ad andare contro la nostra più pigra volontà.

Accese un fuoco molto lieve, dopodiché iniziò a raccontare della parabola del sacco di merda.

“Un uomo, scoprì un giorno, che all'interno della sua stalla vi era poggiato un sacco pieno di merda.
Era un sacco di spugna di cotone, tutto ripieno di merda, per l'appunto.
L'uomo sentiva forte la puzza, e non poteva sopportarla.
Tutt'al più non si capacitava del fatto che si trovasse dentro la sua stalla, così prese il sacco e lo lanciò fuori, sulla terra madida.
Guardava a quel sacco con profondo disprezzo, e provava un senso di intenso odio.
Non si capacitava del fatto che si potesse trovare dentro la sua stalla, proprio la sua!
Lui che era una persona onesta, che aveva sempre esercitato il suo lavoro di agricoltore e allevatore con grande zelo e amore.
Era così adirato che tornò a casa e prese un coltello da cucina.
Si scagliò verso il sacco di merda e iniziò a prenderlo a coltellate con tutta la rabbia che aveva dentro, quasi si trovasse dinnanzi all'oggetto che rappresentasse l'origine di tutta la sua infelicità.
A un certo punto, si rese conto che il sacco era ormai ridotto a brandelli, e che era lui adesso ad essere tutto cosparso di merda.
Passò lì di fianco la donna che lui amava, la quale vedendolo ridotto così, iniziò a ridere.
Questo gli generò una profonda tristezza, dalla quale non si riprese mai più.

Un altro uomo, invece, scoprì un giorno, che all'interno della sua stalla vi era poggiato un sacco pieno di merda.
Era un sacco di spugna di cotone, tutto ripieno di merda, per l'appunto.
L'uomo sentiva forte la puzza, ma la sopportava. Si domandò chi mai avesse potuto lasciargli questo misterioso segno.
Prese il sacco e dolcemente lo portò fuori.
Guardava con curiosità quel sacco, e provava una profonda pena per chi gliel'aveva lasciato.
Era stato sempre onesto, e aveva esercitato il suo lavoro di agricoltore e allevatore sempre con grande zelo e amore.
Prese il sacco di merda e lo portò verso il bosco. Lo lasciò accanto a un albero, dove lentamente si sarebbe confuso con la terra e gli arbusti.
Ad un certo punto si domandò – e se dentro quest'albero, oltre alla merda, ci fosse dell'oro?- ma poi rispose a sé stesso – non importa, è meglio tenersi le proprie ricchezze, piuttosto che sporcarsi, magari inutilmente-
Mentre tornava indietro, incontrò una donna che rimase incantata davanti ai suoi occhi colmi di gioia.
Tornarono a casa insieme e rimasero felici per il resto dei loro giorni.
È per questo che io vi insegno, discepoli: siate gentili, sempre!”

Il maestro diceva questo, lui che con noi, era stato sempre severo, poiché sapeva che eravamo abbastanza dotti da poter accogliere le sue grandi parole.

Luca Atzori

giovedì 17 marzo 2011

CONTIGUITA' E NEOBAROCCO

In molti autori, si presenta spesso il bisogno di narrare, descrivere e rappresentare la realtà, così per come essa è, cioè come qualcosa di distinto da sé.
È l'atteggiamento messo in pratica dal romanziere tradizionale , che (come è giusto che sia) si prefigge l'obiettivo di raccontarci una storia.
Il romanzo diventa così un oggetto dentro cui entrare, un mondo a sé, dotato di tutti i particolari che riguardino i personaggi, le situazioni, le ambientazioni, i dialoghi etc.

Molti aspiranti scrittori, sono soliti, (in particolare i nostri contemporanei, e non casualmente) al loro inizio, di cadere nel difetto del barocchismo.
Utilizzano un linguaggio arcaico, costruiscono periodi lunghi, mettono in risalto uno stile liminare fra il poetico e l'enfatico. Questo rende difficile lo sviluppo della storia, che perde di centralità, così che spesso (per i più volenterosi) inizia un processo (necessario) di limatura dello stile.

Nessuno di questi, sa però che cosa si intenda più da vicino con il termine “barocco”.
Per prima cosa bisognerà dunque porre una precisazione.
Il romanzo che abbia una caratteristica che sia figlia di una certa linea secentesca (e preciso perciò, che non s'intende i soli Gongora, Guarini, ma anche scrittori del decadentismo da Carlo Dossi, a D'annunzio ad Arbasino etc) la parola diventa contigua.

Lo scopo che ci si prefigge è in tal caso il raggiungimento di una coincidenza fra la forma e contenuto.

Non è più l'oggetto della storia in sé a interessare (oggi facilmente sostituibile dal cinema, la televisione, internet etc) ma piuttosto le parole stesse, che nel point of vieu soggettivo dell'autore, diventano ombra dello sguardo in sé dietro il quale possano rivelarsi tutti i mondi possibili.
La letteratura in tal caso è contigua fra la verità e il suo contrario, e per ciò stesso acquisisce un valore di autenticità, in quanto l'oggetto in sé non si presenta più come il cuore di un mondo dotato di tutti i suoi elementi di oggettività. I romanzi di Tolstoj, Dostoevskij, Mann, fanno parte di una tradizione che diventa sempre più difficile da perpetuare, proprio perché nessuno scrittore contemporaneo potrebbe riuscire a scrivere un bel (PRECISIAMO, BEL) romanzo di 600 pagine e farsi leggere con la più grande sincerità da parte del lettore.

La letteratura è oggi più prossima a una nuova forma di barocco, dove lo scrittore non può che fare emergere nel tramite delle sue parole, il suo sguardo sul mondo, messo a servizio di una narrazione lanciata a tratti, spezzata, mai vera, dove il limite è fra lo sguardo del lettore e la parola che si fa assente in un intimo contatto fra i cuori, come un fiume entro il quale disperdersi, messo in mostra dalla traccia dello scritto, testimonianza pura che porti per paradosso alla scomparsa dell'ego, e perciò della "realtà" stessa.

La letteratura serve (oggi) proprio a depurare il visibile del reale (troppo reale).

Essa porta con sé la consapevolezza di quanto tutto ciò che esista possa esserci suggerito dal linguaggio e da esso soltanto.

Per questo essa deve essere contigua, cioè non più avere come oggetto di narrazione le cose.
Non più dare valore a una finzione riconosciuta dai molti come la meglio accettabile, ma piuttosto avere come oggetto la letteratura stessa, come strumento oltre il quale perdersi per giungere a toccare i mondi immaginati con il massimo di quel contatto concesso dalla parola nuda, unica testimonianza oltre la quale non vi sia che il nostro stesso divenire, affine a quello dell'autore, dove non c'è alcuna distinzione fra gli esseri, e dove la letteratura diventi non più il monumento di una illusione, ma un punto di contatto, dal quale rendere vivi i sogni, in una verità totale di superficie, barocca e contigua.


Luca Atzori

domenica 13 marzo 2011

LA PROSTITUTA

La prostituta è una donna che esercita una onesta professione, la quale comporta al proprio interno la realizzazione di un percorso che in poco differisce da quel che si svolge in una normale terapia psicoanalitica.
Il cliente (intelligente) paga per conoscere la misura riferita al livello della sua apertura verso l'altro. All’altro egli da un valore, lo rende merce.

Il rapporto con una prostituta, è una mini-storia d'amore, dove lo scambio monetario rende impossibile il manifestarsi di qualsivoglia illusione o menzogna, proprio perché è dal corpo che si parte, ponendo una croce sopra tutto l'ambito concernente la seduzione e altre perdite di tempo simili.
Non è la soddisfazione che si raggiunge (perché chi potrebbe essere soddisfatto di andare con una puttana?) ma il rapporto in sé, il rapporto visto e vissuto, senza il pregusto della conquista, e della performance teatrale che riscontri il suo applauso.

Ritengo che nell’attuale società dove il dio mercato è onnipresente, in ogni angolo anfratto respiro e viscera, il mestiere della battona si possa ritenere più onesto e puro di quanto non si possa immaginare, e inoltre sia un’ottima lezione sull’economia stessa e il suo funzionamento.
Le ragazze di buona famiglia, sono, invece, spesso molto disoneste, poiché quel che praticano è il furto dell'anima. Richiedono all'innamorato attenzioni, soddisfacimento dei capricci, pretesa di diversi elementi spesso materiali, quali oggetti preziosi e costosi, cene, macchina, reddito alto etc, e spesso possono essere rese quiete solo da un approccio selvatico e primitivo, che eluda qualsivoglia lagna, anche se quel che viene reso manifesto non è che un dispendio fine a se stesso, dove ciò che si deve nutrire è il simulacro di un’identità seduttiva che di per sé è ugualmente oggetto, feticcio, fantasma, ma che rappresenta valori altri rispetto a quelli legati all’oggetto della voluttà stessa .
Ciò spiega non che ci sia qualcosa di sbagliato nel comportamento in sé delle ragazze cosiddette “normali”, ma piuttosto che per quanto riguarda la sfera della sessualità viviamo in un mondo totalmente ignorante, e le uniche docenti (che dovrebbero essere poste a livelli universitari) sono proprio le troie.
Tutti siamo tenuti a tacere davanti alla realtà dei nostri desideri, e facciamo questo spendendo il nostro denaro in altri oggetti e beni che servano a compensare la nostra colpa cattolica.
Premetto che ritengo il sesso un elemento fortemente mal valutato. Siamo circondati di messaggi sessuali che ci inducono in ogni momento a desiderare rapporti spesso il più “trasgressivi” possibile. Oppure ci si fionda in relazioni sentimentali fondate sulla menzogna, dove l'uno non è realmente interessato all'altro se non per propri fini che siano legati a qualche vuoto o bisogno di affetto o punizione e via dicendo. Tutto questo comporta un grande rallentamento alla conoscenza di se stessi, poiché il conflitto determina un elemento primario, dove l’altro è si un oggetto, ma al quale noi non sappiamo quale valore dare.
La prostituta mette invece in primo piano l'atto sessuale, dal quale si parte. Il rapporto con una puttana permette di vedere il sesso non più come un fine, ma più come un mezzo.
Pago, faccio sesso, saluto. Questa è la sequenza. È evidentemente il più delle volte molto triste e squallida, indubbiamente. Ma andando oltre il semplice contratto e considerando la situazione da un punto di vista umano?
Forse ci renderemmo conto di quanto tutto il resto sia evidentemente squallido e meschino, in confronto all’angelo che solo in mezzo a una strada o nei luoghi più apparentemente schifosi possiamo incontrare.
Pierre Klossowski definiva la puttana una moneta vivente, ovvero quel corpo che in sé non avrebbe prezzo, ma che lo acquista mediante il pagamento che lo porta ad indossare i panni del fantasma che abita nella mente del fruitore, divenendo un simulacro vero e proprio, mostrantesi come il trailer di un film d’amore.

Questa è una delle realtà. Ahimè diventa difficile essere veri, se non in quei momenti in cui si dovesse conoscere quel fenomeno chiamato amore, di per sé gratuito, proprio come la morte e la vita, e altrettanto miracoloso, raro, del quale la maggior parte degli uomini hanno la sfortuna di vedere solo il miraggio, in tutta la loro vita
La prostituzione non è né una retta via, né un qualcosa di mortale, ma solo una professione dotata di una dignità che ad altri mestieri risulta addirittura mancare.

Luca Atzori

mercoledì 9 marzo 2011

PREGHIERA ALTRA




Barchetta di carta di Amalia de Bernardis


di Luca Atzori


“Preghiera altra” è il titolo della raccolta poetica edita dalla casa editrice romana “Aletti editore”. L'autrice è Amalia de Bernardis, classe'84cosentina di nascita, torinese di adozione.
Amalia opera nel campo del teatro e ha una sua associazione culturale chiamata “Cantiere Altrigo”, con la quale si prefigge l'obiettivo di esplorare il tema dell'alterità, attraverso la sperimentazione scenica e performativa.
Questo è il suo primo libro, e porta con sé una forte traccia di un contenuto.
Sin dai primi versi, ci si rende conto che le parole possiedono una vita, e più che lette, ricordate, o capite, vanno viste, vissute, ascoltate e digerite.
Un' opera certamente teatrale, dove la poetessa porta presso di sé il compito di esporsi nuda, come se la nudità fosse l'unico vero vettore di conoscenza. Un'esposizione antisociale, antiumana. Sono le parole di chi non ha una compagnia. Di ogni anima sola.
Di quell'essere umano assoluto che è poeta e insieme attore. Di chi si dichiara folle, dal luogo di un oltre che noi possiamo ascoltare dentro noi stessi, senza per ciò stesso vederlo, se non attraverso qualche barbaglio che nelle preghiere di Amalia si manifesta a tratti, seppure per definizione irraggiungibile, se non da se stessi, oltre sé stessi.

L'ho incontrata e intervistata in un bar di Torino.




Amalia, la prima domanda che vorrei farti è se si può indicare un genere letterario in cui si possa comprendere la tua opera.

Io non credo in un genere letterario. Scrivere è urgente, e non mi pongo interrogativi sul “come” o sull'estetica. La mia scrittura è impulsiva, e non ragionata. Nasce come un vomito. Posso dire che le autrici che sento più vicine a me sono Mariangela Gualtieri e Margherita Yourcenair.
Ma per il resto non amo le limitazioni, perciò non amo i generi.

Hai però una tua visione, una tua “poetica”.

Mi chiedi se ho una mia visione... posso risponderti che io ho le visioni. Le mie poesie sono traduzioni di quel che vedo. Io ricerco l'altro, l'oltre. Cerco di perforare le cose per trovarne il nucleo.
Scatto fotografie alla realtà e alle mie sensazioni. Non ho il potere di bastarmi, ho bisogno continuamente di superarmi.
Ho inoltre un forte rapporto con i sogni, e alle volte ne sono ossessionata.

Ti servi spesso dell'utilizzo di una chiave mitologico religiosa. Perché?

Devo partire dal principio. Credo che ciascuno dovrebbe riuscire a crearsi un nuovo Vangelo, una nuova Bibbia.
Sono inoltre molto legata alle questioni di fede, e non a caso ho fatto uno spettacolo su Maria Maddalena.
Poi sono calabrese, e dove sono cresciuta Dio è molto presente. Per questo mi rivolgo spesso a lui, per giustificare i miei dolori. Questo per me è il senso dell'incarnazione.

Che significato ha il titolo dell'opera?

È la preghiera che non si rivolge ai santi. La preghiera come scrittura, e perciò momento di alta sacralità. Preghiera che si rivolge all'altro, dove il limite ultimo sono le parole, davanti alle quali chiudere gli occhi, proprio come nelle preghiere, e semplicemente recitarle.

Da quello che dici si intuisce il sodalizio che cerchi di raggiungere fra il teatro e la poesia.

Proprio perché è preghiera è orazione. È con l'immagine che mi do che cerco di recitare la mia preghiera. Voglio dare una carne ad esse (le parole). Voglio che possano toccarsi. Voglio dare loro un'identità. Non sono parole che vanno lette, vanno solo rigurgitate.

Perché la scelta di certi miti?

Ad esempio ho scelto il mito di Icaro perché rappresenta una persona del mio passato che viveva davanti la mia finestra. Maria Maddalena è stata perseguitata perché non fosse mostrato un certo modo di vivere la sacralità. Siamo figli di una religiosità maschile. Io credo fermamente nella passione, nel senso di patire e insieme nel senso di amare.
Achille è l'altro incompreso. Pentesilea si arrampica alla sua gola, come a quella di un Dio. Achille è il Dio in carne umana. La scuola ci ha fatto ingoiare tante puttanate riguardo i miti greci. Io credo che noi si abbia il dovere di ricercare il mito per partire dal principio, e tradurre la propria vita.
Il poeta è una creatura scorticata che deve mediarsi con l'umanità.

La dedica per chi è?

È dedicata al mio compagno. E questo libro è nostro figlio. Cerco di esprimere l'amore come forma di estasi mistica. Come meta. Cerco di esprimere l'abbandono totale, reale.
Lo faccio senza ricercare particolari stili. Sono sgrammaticata e lo sono per scelta. Non credo che l'arte debba risolvere il proprio linguaggio, ora si tratta di passarci attraverso. Abbiamo bisogno di contenuti. Non c'è più bisogno di talenti, c'è bisogno di genio.

martedì 1 marzo 2011

LA TRASGRESSIONE

Tutta la sfera che riguarda l'ambito della trasgressione, ritengo sia da ritenersi come la forma più paradossale di schiavitù che l'uomo possa concepire.

Quando decidiamo di trasgredire, siamo animati dall'illusione di poter giungere oltre un precetto e un'imposizione, e lo facciamo o violando o mancando di rispettare una regola pre-imposta.

Ma piuttosto che di un andare oltre, si tratta tristemente (e più precisamente) di un accogliere, un dire si, un chinare il capo.

L'unico luogo che possa dirsi proprio dell'oltre, è quello vicino alla sfera del non-sapere.

Il punto è che perché la trasgressione possa darsi, questa deve essere sempre preceduta dalla idolatria di una norma o un pensiero (in tal caso sempre altrui e accettata da altre moltitudini).

Ogni qual volta noi si trasgredisce, proviamo il piacere di essere riusciti a liberarci di quel perentorio richiamo ossessivo che si presenta con il “tu devi”.

Ma questa che noi crediamo essere una forma di emancipazione, non è nient'altro che una favola che noi raccontiamo ai nostri sensi, costituita apposta per rendere maggiore forza a quella legge che potrebbe essere di natura totalmente avversa rispetto a quelli che sono i nostri autentici bisogni.

Ogni legge non può essere in alcun modo una legge, e questo è quel che il trasgressore, inebetito dalla propria narcotica spinta libidinosa, non capisce, non può capire.

Per questo chi trasgredisce è schiavo, perché crede.

Esistono forse forme di trasgressione consapevoli e perverse, che in tal caso non bisogna in alcun modo condannare, in quanto chi le esercita, sono individui capaci di credere apposta per godere, e quindi capaci di non-sapere, capaci di non intendere.

Essi sono mostri, sono Santi.

Ma la trasgressione di per sé, per come viene comunemente intesa, è la condotta più antifilosofica che si possa assumere.

La trasgressione consiste nell'emarginazione di alcune realtà umane, di alcuni aspetti della natura.
È di per sé una risata sciocca, condotta insieme agli sciocchi, a discapito della felicità di Orfeo.

La trasgressione ha un che di volgare, perché rende reale ciò che c'è di più meschino nel consenso delle masse.

La trasgressione è produzione di spazzatura, e nient'altro.

Luca Atzori

sabato 15 gennaio 2011

FENOMENOLOGIA DEL TAMARRO

Per quanto tracciare una fenomenologia della figura che mi propongo qui, sia antitetico con le intenzioni per le quali l'argomento stesso viene proposto, ritengo sia necessario porre chiarezza sull'idea di “tamarro”.
La fenomenologia, in questo caso, potrebbe fornirci un dato utile a ricerche di carattere gnoseologico, insufficienti, evidentemente, ma necessarie per andare oltre l'idea stessa e poter rendere possibile un'argomentazione che riesca a rendere almeno chiaro il problema.
La prima domanda da porsi, infatti, è questa: Chi è il tamarro?
Tutti siamo abituati a visualizzarne la figura, anche se a mio parere in essa si rappresenta una delle realtà sociali più vaghe.
L'elemento che maggiormente caratterizza il tamarro è quello legato alla violenza, come “vizio/virtù”. L'unico linguaggio che questi soggetti riescono a utilizzare è quello vicino alla gestualità propria dell' avversione fisica, arma per mostrarsi all'esterno.
La poca famigliarità con il linguaggio verbale è strettamente legata con l' energia fisica, unico segno da spettacolarizzare con disinvoltura de-pensante.
Ma questo semianalfabetismo è in realtà (anche se inconsapevolmente) voluto. Quel che il tamarro difende è la propria rabbia; egli mostra infatti un certo rifiuto a imparare la lingua che gli viene imposta a scuola, sin dalle primarie.
Addirittura, in alcune realtà scolastiche, i tamarri portano rispetto per il “ripetente”.
Questo deriva evidentemente da un certo rapporto affettivo con le proprie famiglie, dove si respira lo sfruttamento, la rabbia dell'oppresso, la fatica ad arrivare a fine mese, la povertà non solo economica ma anche spirituale/culturale, dove la sensibilità non ha possibilità di essere educata come avviene nelle classi più agiate.
Non si vuole qui intendere che vi siano classi che garantiscano un'educazione superiore. Piuttosto, l'educazione che subisce il tamarro proviene comunque dall'alto, ed è pre-cognizzata proprio perché questi, le parti del gregge, possano adempiere ai propri compiti. Il tamarro rispecchia spesso la normalità, intesa come idea sufficiente a garantire l'esercizio del lavoro e dello svago entro un certo rango prestabilito, che costituisca una realtà di massa e per ciò stesso consensuale.

Esiste un destino sociale che vuole che il tamarro sia ignorante, stupido, violento e furbo.
Michael Foucault spiegò il concetto di biopolitica: sistema di controllo che il potere esercita sui corpi, decidendo sulle loro stesse sorti sociali a partire dalle posture a cui questi stessi vengono costretti sul lavoro, a casa etc. Le case popolari possono raramente produrre persone che si comportino come chi vive nella collina.
Il tamarro è spesso una persona oltremodo spensierata, non propriamente pervasa da problemi esistenziali se non di ordine materiale, legati a questioni di sopravvivenza. Non si pone domande perché ne ha altre da porsi, e sono evidentemente di vitale e più stretta importanza..
Per questo il tamarro è normale, o più precisamente è scontato per egli essere tale.
Questa sua spensieratezza è contraddistinta dal suo abbigliamento, spesso sportivo, comodo, o anche spesso composto di abiti stretti che evidenziano la fisicità ben curata (valore di natura bellica, dove il militare deve avere appunto molta resistenza e forza, e sufficiente ma non troppo cervello). Il tamarro non vive però un rapporto stretto con la propria sfera corporea, nonostante ciò possa sembrare. Egli assume alcuni determinati gesti e li ripete, scimmiottando un codice che determina la rispettabilità del medesimo e dunque la sua stessa vita in società. Dentro la realtà fisica di un tale individuo, è presente l'archivio di tanta rabbia sociale, di natura secolare.
Il punto è che a questa rabbia non è permesso di verbalizzarsi, se non con un'espressione diretta di questa che possa manifestarsi attraverso l'aggressione fisica o verbale ridotta in parole dai contenuti volgari, e con disposizione di un assai parco lessico.
Si sa poi che la proprietà di linguaggio costruisce la realtà identitaria di ogni singolo.
La cattiveria del tamarro è autentica proprio per l'etimo (captivitas – prigione) poiché egli è lo schiavo.
Il luogo costruito apposta per il divertimento del tamarro è la discoteca, dove egli esercita se stesso in guerre fra maschi intorno alla ricerca di donne con cui sfogare bisogni sessuali, anche se spesso il cattolico decoro è più presente che nei locali frequentati dagli altri appartenenti ad altre fasce sociali. La musica è ripetitiva, va a stimolare le parti più basse del corpo, in maniera che questi vengano spinti a seguire i propri istinti più animali a discapito di quelli più spiritualmente elevati. La discoteca è il culmine dell'educazione e per ciò stesso della manipolazione biopolitica esercitata sui ragazzi, costretti a muoversi in una determinata maniera rispettando il rigore e la disciplina del fantasma fascista che li ammaestra.
Al tamarro non è concesso di comunicare verbalmente con individui delle altre classi sociali. È come se ci fosse un'incomunicabilità dovuta a un'inesorabile separatezza, addirittura un evidente parallelismo. Qualora il tamarro volesse comunicare con il figlio di un professore universitario, dovrebbe imparare il suo linguaggio, e dunque rinunciare al proprio.
Il punto è che la rabbia del tamarro è inesprimibile, se non attraverso una rivolta cosciente che provenga da egli stesso. Tutte le rivoluzioni sono state teorizzate da classi che non erano quelle più subalterne. In mezzo al gregge dei tamarri, esistono certamente persone a cui il destino abbia segnato la fortuna di poter desiderare di districarsi dalla propria fatale posizione (senza per questo dover invidiare le altre a lui “superiori”). Il desiderio è però soffocato, e a ciò pensa la realtà anti-iniziatica dell'era dei consumi, dove l'estensione della società è il suo stesso ritratto (vedere “la società dello spettacolo” di Guy Debord).
Eppure qualora lo studente medio, o anche l'intellettuale, che vogliano definire se stessi come difensori delle classi oppresse, incontrino il tamarro, hanno sempre una reazione mista di disgusto e paura. La paura deriva dalla consapevolezza che il tamarro conosce la vita molto meglio di quanto non possano fare essi stessi (oltre che da questioni intimamente animali), e il disgusto è conseguenza di quell'educazione che intende stagliare ciascuna parte della realtà sociale al proprio posto, rendendo possibile le varie teorizzazioni che per una certa necessità umanistica rimandano sempre a un mondo prossimo e migliore, e per ciò stesso astratto, moderato, irrisolto.
Ciò che nel tamarro deve provocare disgusto è l' abito stesso che egli indossa (sia in senso metaforico che non).
Ma già la stessa rabbia che questi porta presso di sé è segno di una urgenza sociale che intende non identificarsi (perché il tamarro non segue una moda specifica, egli è parte della corrente) ma mettere in mostra la propria stessa verità, come testimonianza di quella che è la vita per chi vive nella periferia o in realtà comunque emarginate, dove l'unica cosa che dovrebbe suscitarsi non è lo schifo o il senso di superiorità, ma lo scandalo di vite depotenziate perché questo è necessario a vivere nel mondo corrotto nel quale poggiamo i nostri culi.

Luca Atzori