“Un azzurro momento è puramente anima” Georg Trakl – Infanzia
Ogni infanzia è infelice.
Ogni infanzia umana che si “ricordi” è il periodo più infelice nella vita di ciascuno.
Proprio quando la vita inizia, i desideri sono puri e incorrotti, e non c'è punto d'appoggio, né vi è necessità.
Volontà di potenza.
Piuttosto l'abbraccio protettivo della madre, di quello si può parlare, del calore, che già di per sé è souvenir di quell' origine dell'amore che si andrà a ricercare per il resto della vita.
Nel Vangelo si legge che solo un bambino può entrare nel regno dei cieli. Questo perché la volontà infantile è interamente divina. La sostanza del bambino è più affine a quella divina, che Spinoza insegna essere in sé e concepita per sé.
Il bambino ha la saggezza della sua innocenza, l'unica che si debba ricercare.
La coscienza serve a dimenticare, perciò a ricordare.
Nell'infanzia, dove le emozioni sono più intense, proprio perché non è possibile chiudere gli occhi davanti a nessuna di esse, c'è la più pura sofferenza, ed è quella che la felice calma della vita adulta ci getta addosso, quel mangime amaro che porta il nome Civiltà.
Uno sbarramento fra le due potenze coercitive della famiglia e l'esistenza civile.
Il bambino è l'essere umano che più patisce il destino sociale, proprio perché questo incombe su di lui, cercando di racchiuderlo in sé, vestendolo della propria malattia, gettandolo nella putrefazione localizzata.
Ma l'infanzia non può essere abolita, poiché il tempo abbraccia tutto, e sulla nostra pelle riposano tutti gli attimi, legati geometricamente fra un quando e l'altro.
La pace che andiamo a ricercare è un ricordo prenatale.
Mentre l'educazione comporta un acquietamento necessario alla conduzione dell'esistenza civile, che concentra l'attenzione sulla sfera razionale.
E' quando noi soffriamo, il dolore che vediamo riemergere è quello dell'infante.
L'infante piange.
Nessuno ricorda l'infanzia proprio perché è un periodo che la memoria non consente di conservare, per stessa natura e finalità del rammentare stesso.
Nessuno se lo ricorda perché è stato un periodo troppo infelice. Quello in cui abbiamo preteso con maggior forza la nostra felicità stessa.
Il periodo in cui eravamo (già) pronti ad apprendere la gioia dinnanzi alla morte.
Appello agli psicoanalisti: non si deve rammentare l' infanzia, ma piuttosto tornare bambini e fare i conti con la nostra fatale infelicità.
Luca Atzori
lunedì 27 dicembre 2010
mercoledì 15 dicembre 2010
EUROPA: LA NUOVA BISANZIO
“L'Europa è oggi un simulacro economico senza identità culturale”.
Stefano Zecchi
Oggi sentiamo incombere, sopra di noi, la nube di un dovere che diventa a tratti opprimente e privo di vera motivazione, quello di diventare finalmente europei.
Un dovere imposto, e dal quale è difficile districarsi, se non con una forma di silenziosa rivolta, anche se ahimé, spesso vestita di grigia disillusione.
Che cosa significa essere europei?
Significa far parte di una realtà continentale dominata dalla tecnica, dalla religiosità economica e l'idea (sempre più anacronistica e mistificata) di un qualche sempre prossimo (nonché eternamente presente) progresso.
Tutto quel che troviamo fra le nostre mani è la possibilità di far parte, essere compresi, in una realtà di cui, non a torto, Horkheimer avrebbe profetizzato la totale amministrazione.
Ci muoviamo progressivamente verso una vita immaginata, supposta. Abbiamo trovato alloggio nel possibile, e in esso ci siamo fermati.
Dimentichiamo con inerte rigore, che ogni forma di possibilità ha un senso esistenziale legato all'opportunità, alla costruzione di una meta. Certo, come può essere pensabile una forma di “senso” proprio là dove non vi è che l'accettazione di un non-senso generalizzato?
A questa domanda risponde molto acutamente Jean Luc Nancy, ne “L'essere singolare plurale”, dicendo che il non-senso stesso pone paradossalmente la messa in questione del senso.
La natura del senso è già di per sé discutibile e può porsi come oggetto di attenzione teoretica, ma non può effettivamente essere pensata come un qualcosa di “andato perso”. Sarebbe assurdo, un evidente peccato fideistico.
Lo stesso credere che qualcosa sia andato perso presenta in sé la traccia di una comoda ingenuità, una profonda pigrizia di cui tutti noi europei siamo ammalati gravemente.
L'unica questione che potremmo porre è di natura assiologica.
Se non abbiamo perso effettivamente nulla, che cosa vediamo venir meno?
Certamente, oggi, il valore che vediamo diventare superfluo è quello legato all'Esperienza umana.
Intendiamoci, per esperienza si intende quella sfera che comprende in sé tutti quegli ambiti esistenziali, volti al raggiungimento di qualsivoglia forma di Conoscenza.
Nelle forme di società tradizionali, è l'uomo e non il guadagno economico, ad essere il fine.
Quando ci si avvicina all'espressione “Uomo” si va a toccare un tasto altrettanto dolente.
Non viene intesa qui nella comune accezione che può essere ritenuta da molti come assodata, cioè quella legata ai cosiddetti diritti che un certo “Umanesimo” avrebbe voluto farci credere di aver conquistato. Qui si intende l'uomo nella sua conformazione più strettamente spirituale, come figura esistenziale diretta unicamente verso il miglioramento di sé e volto alla Conoscenza.
Ma come è possibile pensare a una Conoscenza che sia priva della sua sorgente esperienziale?
Ci illudiamo che sia possibile oggi, proprio perché vediamo l'informazione avere la precedenza su qualsiasi esito conoscitivo.
L'informazione, per sua stessa natura, viene vissuta passivamente, viene assorbita, è imposta.
Non c'è nessuno sforzo umano dietro all'incontro di essa. E' sempre un dato che noi accettiamo e verso il quale abbiamo come possibile esito la critica, ma nient'altro.
Noi esperiamo l'informazione, come unica realtà possibile, come negatrice dell' autentica Esperienza.
Così l'informazione si è affermata nell'era del cosiddetto relativismo, dove ogni forma di Identità culturale si vede cadere a precipizio nel cestino dove riposano tutte le altre vecchie chimere.
Il punto è che l'Europa stessa è una chimera, ma priva di ali.
Ha un aspetto che ricorda il ghiaccio, e brilla di un freddo immobilismo; ricoperta di migliaia di insegne luminose che sono gli abbagli che essa manda a sé stessa, illusa di essere viva.
Questo siamo noi oggi: uomini senza esperienza e senza conoscenza. Privati del nostro senso spirituale. Malati di un laicismo corrosivo che ci ha fatto inchinare dinnanzi al Dio Mercato.
La religiosità dogmatica del cattolicesimo che tanto viene biasimata dalla giovane Europa, non è affatto dissimile da quello che essa stessa è diventata. Presenta le stesse identiche caratteristiche, gli stessi difetti. Forse ci si potrebbe azzardare a pensare la realtà cattolica come migliore, perché più vicina all'Umano, alla sua esigenza di Spirito.
Fino a che porremo su un secondo piano il valore dell'individuo (autenticamente inteso, e non frainteso) e considereremo lo spirito solo come un ricordo romantico e ad essi sovrapporremo l'economia (subordinando ad essa la politica intesa nel senso più tradizionale del termine), ci vedremo muovere in un mondo sempre più barbaro, legato a esigenze materiali dirette verso la dissoluzione più totale della nostra stessa cultura.
Eccoci svelato il Kali Yuga.
L'angoscia è una condizione umana che richiede rispetto oggi più che mai, proprio perché è una spinta, un'arma che conserviamo.
Non intendo qui giungere a esiti moralistici, ma al contrario di portare l'attenzione verso l'importanza che la morale (cosa ben differente) può avere per noi oggi, dove ciascun uomo ponga il proprio stare al mondo come opportunità di una ricerca e non come l' accoglimento di norme che non gli appartengano.
La nostra Europa, malata di angoscia, si addormenterà ingerendo il suo ultimo farmaco.
Noi ci muoveremo su questa Nuova Bisanzio alla ricerca del nostro respiro.
Luca Atzori
Stefano Zecchi
Oggi sentiamo incombere, sopra di noi, la nube di un dovere che diventa a tratti opprimente e privo di vera motivazione, quello di diventare finalmente europei.
Un dovere imposto, e dal quale è difficile districarsi, se non con una forma di silenziosa rivolta, anche se ahimé, spesso vestita di grigia disillusione.
Che cosa significa essere europei?
Significa far parte di una realtà continentale dominata dalla tecnica, dalla religiosità economica e l'idea (sempre più anacronistica e mistificata) di un qualche sempre prossimo (nonché eternamente presente) progresso.
Tutto quel che troviamo fra le nostre mani è la possibilità di far parte, essere compresi, in una realtà di cui, non a torto, Horkheimer avrebbe profetizzato la totale amministrazione.
Ci muoviamo progressivamente verso una vita immaginata, supposta. Abbiamo trovato alloggio nel possibile, e in esso ci siamo fermati.
Dimentichiamo con inerte rigore, che ogni forma di possibilità ha un senso esistenziale legato all'opportunità, alla costruzione di una meta. Certo, come può essere pensabile una forma di “senso” proprio là dove non vi è che l'accettazione di un non-senso generalizzato?
A questa domanda risponde molto acutamente Jean Luc Nancy, ne “L'essere singolare plurale”, dicendo che il non-senso stesso pone paradossalmente la messa in questione del senso.
La natura del senso è già di per sé discutibile e può porsi come oggetto di attenzione teoretica, ma non può effettivamente essere pensata come un qualcosa di “andato perso”. Sarebbe assurdo, un evidente peccato fideistico.
Lo stesso credere che qualcosa sia andato perso presenta in sé la traccia di una comoda ingenuità, una profonda pigrizia di cui tutti noi europei siamo ammalati gravemente.
L'unica questione che potremmo porre è di natura assiologica.
Se non abbiamo perso effettivamente nulla, che cosa vediamo venir meno?
Certamente, oggi, il valore che vediamo diventare superfluo è quello legato all'Esperienza umana.
Intendiamoci, per esperienza si intende quella sfera che comprende in sé tutti quegli ambiti esistenziali, volti al raggiungimento di qualsivoglia forma di Conoscenza.
Nelle forme di società tradizionali, è l'uomo e non il guadagno economico, ad essere il fine.
Quando ci si avvicina all'espressione “Uomo” si va a toccare un tasto altrettanto dolente.
Non viene intesa qui nella comune accezione che può essere ritenuta da molti come assodata, cioè quella legata ai cosiddetti diritti che un certo “Umanesimo” avrebbe voluto farci credere di aver conquistato. Qui si intende l'uomo nella sua conformazione più strettamente spirituale, come figura esistenziale diretta unicamente verso il miglioramento di sé e volto alla Conoscenza.
Ma come è possibile pensare a una Conoscenza che sia priva della sua sorgente esperienziale?
Ci illudiamo che sia possibile oggi, proprio perché vediamo l'informazione avere la precedenza su qualsiasi esito conoscitivo.
L'informazione, per sua stessa natura, viene vissuta passivamente, viene assorbita, è imposta.
Non c'è nessuno sforzo umano dietro all'incontro di essa. E' sempre un dato che noi accettiamo e verso il quale abbiamo come possibile esito la critica, ma nient'altro.
Noi esperiamo l'informazione, come unica realtà possibile, come negatrice dell' autentica Esperienza.
Così l'informazione si è affermata nell'era del cosiddetto relativismo, dove ogni forma di Identità culturale si vede cadere a precipizio nel cestino dove riposano tutte le altre vecchie chimere.
Il punto è che l'Europa stessa è una chimera, ma priva di ali.
Ha un aspetto che ricorda il ghiaccio, e brilla di un freddo immobilismo; ricoperta di migliaia di insegne luminose che sono gli abbagli che essa manda a sé stessa, illusa di essere viva.
Questo siamo noi oggi: uomini senza esperienza e senza conoscenza. Privati del nostro senso spirituale. Malati di un laicismo corrosivo che ci ha fatto inchinare dinnanzi al Dio Mercato.
La religiosità dogmatica del cattolicesimo che tanto viene biasimata dalla giovane Europa, non è affatto dissimile da quello che essa stessa è diventata. Presenta le stesse identiche caratteristiche, gli stessi difetti. Forse ci si potrebbe azzardare a pensare la realtà cattolica come migliore, perché più vicina all'Umano, alla sua esigenza di Spirito.
Fino a che porremo su un secondo piano il valore dell'individuo (autenticamente inteso, e non frainteso) e considereremo lo spirito solo come un ricordo romantico e ad essi sovrapporremo l'economia (subordinando ad essa la politica intesa nel senso più tradizionale del termine), ci vedremo muovere in un mondo sempre più barbaro, legato a esigenze materiali dirette verso la dissoluzione più totale della nostra stessa cultura.
Eccoci svelato il Kali Yuga.
L'angoscia è una condizione umana che richiede rispetto oggi più che mai, proprio perché è una spinta, un'arma che conserviamo.
Non intendo qui giungere a esiti moralistici, ma al contrario di portare l'attenzione verso l'importanza che la morale (cosa ben differente) può avere per noi oggi, dove ciascun uomo ponga il proprio stare al mondo come opportunità di una ricerca e non come l' accoglimento di norme che non gli appartengano.
La nostra Europa, malata di angoscia, si addormenterà ingerendo il suo ultimo farmaco.
Noi ci muoveremo su questa Nuova Bisanzio alla ricerca del nostro respiro.
Luca Atzori
mercoledì 10 novembre 2010
UNA PARENTESI SULL'ARTE CONTEMPORANEA
L'arte contemporanea (oggi) porta in sé il difetto della sua stessa presunta contemporaneità, perché tutto quel che riesce a dimostrare è di essere un esempio perfetto di anacronismo. Le varie biennali di Venezia, insieme agli innumerevoli eventi che ruotano intorno alle novità dell'arte, sono esempio di un'ipertrofia di linguaggi, che nonostante l'accelerazione, la sofisticazione, la presunta complessità tematica che vogliono trattare, trasmettono sempre lo stesso medesimo vuoto, e offrono conferma della staticità globale nella quale risiedono.
Da diversi anni vediamo vagare nell'aria i nomi di Cattelan, Koons, Pistoletto, Abramovic, etc.
Uno appende i bambini impiccati agli alberi, o si presenta alla tesi di laurea vestito da asino, un altro fa palloncini a forma di cuore o ingaggia pornostar da usare come suppellettile, l'altro ancora spezza gli specchi, e l'altra passa ore a muoversi intorno a se stessa fino a stancarsi.
Quel che mi domando io è: che cosa hanno da comunicarci questi signori?
Prima di rispondere a questa domanda retorica (perché la risposta è “niente”) vorrei fare un piccolo quadro di quelle che sono state le avanguardie e quale il loro ruolo.
Nel novecento ci sono stati diversi movimenti artistici ( facenti parte appunto di quelle che vengono comunemente indicate come avanguardie storiche) che avevano come interesse principale quello di comunicare i loro contenuti attraverso la forma della loro espressione, facendo quindi una ricerca di stampo tecnico o espressivo, appunto. L'apice di questa ricerca, si può dire sia stato toccato da Duchamps, che con la sua opera “La Mariée mise à nu par ses célibataires, mêm “ ha inaugurato quella che è la fase concettuale dell'arte.
Il punto è che più avanti, i cosiddetti post-duchampiani (che meglio sarebbe definire post dushampisti) si sono rivelati eredi solo più della fuffa dadaista (che era allora mossa da una sincera esigenza di negazione) e non hanno considerato che per essere artisti bisogna possedere anche uno Spirito, e non solo la furberia, o la pretesa di un vago discorso sull'arte (oggi oltremodo inutile, oltre che niente affatto interessante).
Così vediamo tante opere, spesso noiose, e ammaliati dalla presunta serietà di queste ci facciamo catturare e per ciò stesso divorare.
Qual è il problema fondamentale in tutto ciò? Io ritengo che oggi nell'arte manchi totalmente qualsiasi interesse rivolto verso il contenuto vero e proprio, e ci si rivolga solo più alla forma, relegati ancora alla centralità dell' aspetto estetico, glaciale al punto che il gelo va a trasferirsi nelle esistenze stesse dei fruitori medesimi (collezionisti di giocattoli), affetti da una certa non so quale frigidità spirituale, dove l'occhio viene attirato da dettagli inutili, senza che qualcosa venga effettivamente detto.
L'arte oggi parla solo dell'arte, cioè del nulla.
Qualcuno sostiene che non ci sia nulla da comunicare. Chiaro, questo è l'attuale stato di cose nell'era cosiddetta postmoderna, perché ci tocca vivere in un mondo che intende dire anzi addio alla comunicazione, e da il benvenuto alla crescente ipertrofia di informazioni mettendo il tappetino pronto per la passeggiata del panico generalizzato.
Ma quello che al massimo si può guadagnare visitando una bella mostra, è (se si è fortunati) un' emozioncina, magari positiva, magari negativa, ma rigorosamente vuota, anzi quasi determinante a una presa di coscienza fine a se stessa, immobilizzante.
Gli artisti o sono interessati a vendere e quindi pronti a trovare sempre nuovi metodi per stupire, scandalizzare, investendo quei soldi che avevano guadagnato nella mostra precedente (sostanzialmente paragonabili a normalissimi imprenditori) oppure ti vengono a dire che lo fanno per passione, e magari si accontentano di poco, accettano di farlo come secondo lavoro, trovano un temino da affrontare e sviluppare e vanno avanti così fino a che non si stancano, perché “ero artista perché è bello, perché si scopa”.
Il punto è che si è giunti a questo, perché oggi pare essere diventato puerile indicare l'arte come un mestiere.
Forse in realtà da sempre la maggior parte dell' arte è stata solo spazzatura, gli artisti cortigiani, e va bene, nulla è cambiato.
Però proprio oggi che l'arte è così diffusa, è ancora più lampante l'aspettativa primaria che riponiamo in essa, e non pretendiamo chissà quale miracolo: ci aspettiamo banalmente che essa ci dica qualcosa.
Il punto è che solo chi ha veramente qualcosa da dire, può permettersi di farlo. Chi decide se una persona possa dire o meno qualcosa?
L' urgenza. Che poi si serva di tutti i mezzi che vuole (e detto francamente può anche arrivare a soluzioni raffazzonate).
Invece siamo alle solite, il solito deserto.
Bisognerà capire che finché nel mondo dell'arte si andrà avanti con questa gara a chi ottiene il primato dell'arricchito fannullone, al di là del guadagno economico e una simpatica pacca sulle spalle non si otterrà di certo nient'altro.
È necessario mettere lo Spirito al di sopra dell'economia e del cieco piano materiale sul quale si muovono questi mercenari votati alla idolatria del nulla.
Abbiamo bisogno che qualcuno ci dica qualcosa. Non è necessario oggi sovraccaricarsi di nozioni, spesso solo deleterie, ma piuttosto bisogna muoversi nel mondo con l'attenzione che si avrebbe restando in equilibrio sopra una zattera, alla ricerca di una voce che muova un grido che si distingua fra quello dei canti innumerevoli di queste migliaia di sirene.
Non abbiamo più bisogno di allucinazioni, chiediamo realtà.
Luca Atzori
Da diversi anni vediamo vagare nell'aria i nomi di Cattelan, Koons, Pistoletto, Abramovic, etc.
Uno appende i bambini impiccati agli alberi, o si presenta alla tesi di laurea vestito da asino, un altro fa palloncini a forma di cuore o ingaggia pornostar da usare come suppellettile, l'altro ancora spezza gli specchi, e l'altra passa ore a muoversi intorno a se stessa fino a stancarsi.
Quel che mi domando io è: che cosa hanno da comunicarci questi signori?
Prima di rispondere a questa domanda retorica (perché la risposta è “niente”) vorrei fare un piccolo quadro di quelle che sono state le avanguardie e quale il loro ruolo.
Nel novecento ci sono stati diversi movimenti artistici ( facenti parte appunto di quelle che vengono comunemente indicate come avanguardie storiche) che avevano come interesse principale quello di comunicare i loro contenuti attraverso la forma della loro espressione, facendo quindi una ricerca di stampo tecnico o espressivo, appunto. L'apice di questa ricerca, si può dire sia stato toccato da Duchamps, che con la sua opera “La Mariée mise à nu par ses célibataires, mêm “ ha inaugurato quella che è la fase concettuale dell'arte.
Il punto è che più avanti, i cosiddetti post-duchampiani (che meglio sarebbe definire post dushampisti) si sono rivelati eredi solo più della fuffa dadaista (che era allora mossa da una sincera esigenza di negazione) e non hanno considerato che per essere artisti bisogna possedere anche uno Spirito, e non solo la furberia, o la pretesa di un vago discorso sull'arte (oggi oltremodo inutile, oltre che niente affatto interessante).
Così vediamo tante opere, spesso noiose, e ammaliati dalla presunta serietà di queste ci facciamo catturare e per ciò stesso divorare.
Qual è il problema fondamentale in tutto ciò? Io ritengo che oggi nell'arte manchi totalmente qualsiasi interesse rivolto verso il contenuto vero e proprio, e ci si rivolga solo più alla forma, relegati ancora alla centralità dell' aspetto estetico, glaciale al punto che il gelo va a trasferirsi nelle esistenze stesse dei fruitori medesimi (collezionisti di giocattoli), affetti da una certa non so quale frigidità spirituale, dove l'occhio viene attirato da dettagli inutili, senza che qualcosa venga effettivamente detto.
L'arte oggi parla solo dell'arte, cioè del nulla.
Qualcuno sostiene che non ci sia nulla da comunicare. Chiaro, questo è l'attuale stato di cose nell'era cosiddetta postmoderna, perché ci tocca vivere in un mondo che intende dire anzi addio alla comunicazione, e da il benvenuto alla crescente ipertrofia di informazioni mettendo il tappetino pronto per la passeggiata del panico generalizzato.
Ma quello che al massimo si può guadagnare visitando una bella mostra, è (se si è fortunati) un' emozioncina, magari positiva, magari negativa, ma rigorosamente vuota, anzi quasi determinante a una presa di coscienza fine a se stessa, immobilizzante.
Gli artisti o sono interessati a vendere e quindi pronti a trovare sempre nuovi metodi per stupire, scandalizzare, investendo quei soldi che avevano guadagnato nella mostra precedente (sostanzialmente paragonabili a normalissimi imprenditori) oppure ti vengono a dire che lo fanno per passione, e magari si accontentano di poco, accettano di farlo come secondo lavoro, trovano un temino da affrontare e sviluppare e vanno avanti così fino a che non si stancano, perché “ero artista perché è bello, perché si scopa”.
Il punto è che si è giunti a questo, perché oggi pare essere diventato puerile indicare l'arte come un mestiere.
Forse in realtà da sempre la maggior parte dell' arte è stata solo spazzatura, gli artisti cortigiani, e va bene, nulla è cambiato.
Però proprio oggi che l'arte è così diffusa, è ancora più lampante l'aspettativa primaria che riponiamo in essa, e non pretendiamo chissà quale miracolo: ci aspettiamo banalmente che essa ci dica qualcosa.
Il punto è che solo chi ha veramente qualcosa da dire, può permettersi di farlo. Chi decide se una persona possa dire o meno qualcosa?
L' urgenza. Che poi si serva di tutti i mezzi che vuole (e detto francamente può anche arrivare a soluzioni raffazzonate).
Invece siamo alle solite, il solito deserto.
Bisognerà capire che finché nel mondo dell'arte si andrà avanti con questa gara a chi ottiene il primato dell'arricchito fannullone, al di là del guadagno economico e una simpatica pacca sulle spalle non si otterrà di certo nient'altro.
È necessario mettere lo Spirito al di sopra dell'economia e del cieco piano materiale sul quale si muovono questi mercenari votati alla idolatria del nulla.
Abbiamo bisogno che qualcuno ci dica qualcosa. Non è necessario oggi sovraccaricarsi di nozioni, spesso solo deleterie, ma piuttosto bisogna muoversi nel mondo con l'attenzione che si avrebbe restando in equilibrio sopra una zattera, alla ricerca di una voce che muova un grido che si distingua fra quello dei canti innumerevoli di queste migliaia di sirene.
Non abbiamo più bisogno di allucinazioni, chiediamo realtà.
Luca Atzori
giovedì 4 novembre 2010
DOLLS
L'opera al nero di Tania Bocchino
di Luca Atzori
L'opera al nero apre una serie di mostre fotografiche (su tela) che porteranno nell'insieme il nome di dolls.
L'artista è Tania Bocchino, vive nel canavese ed è mossa dall'esigenza di conoscere quell'universo a tratti ineffabile che è quello del corpo. Forse in lei è accentuato l'interesse a causa di un disagio motorio (che non si presenta certo come un ostacolo per le sensazioni).
Il corpo occupa per Tania un posto liminare fra il mondo interno e quello esterno, e per questo è forse il principale strumento di conoscenza. Ogni esperienza deriva da quelle sensazioni che sono raccolte sulla nostra pelle, nelle nostre viscere. L'esperienza che è senza dubbio l'origine, e non il fine.
Da ciò deriva il titolo della prima serie di opere, le quali si richiamano alla prima fase del processo alchemico conosciuta anche come nigredo, ovvero quella fase dove per la creazione di una sostanza perfetta si inizia dalla materia grezza, il piombo che diventa oro, .
Tutta la storia dell'arte è costellata dal tema della religione.
L'arte è sempre stata ricettacolo di tutta la simbologia sacra, che è poi la sede significante più immediata e diretta al nostro inconscio.
Quello che Tania si propone di illustrare è il parallelismo fra la vita di Cristo e quella di ogni uomo. O meglio si potrebbe pensare a quanto in ciascuno di noi ci sia la potenzialità di una semidivinità.
Questa serie di tele la si potrebbe intendere, più precisamente, come una narrazione di quel mito gnostico che è quello del Cristo Sophia.
Sophia è una figura che compare anche nell'antico testamento (salmi, libro dei profeti) l'apocrifo Saggezza di Salomone. Nel cristianesimo è diventata la parte femminile di Cristo (e non a caso messa in secondo piano).
Il tema attorno cui ruota l'arte di Tania è propriamente quello del femminino sacro.
La serie dell'opera al nero inizia infatti con un'opera intitolata Kosmokrator che sta a indicare l'utero femminile, afferrato da Tania in seguito ad una considerazione di matrice gnostica, che considerava la Natura come mera identificazione della Donna. L'utero della natura è appunto quel “kosmokrator” generatore di cosmo. Da qui la rappresentazione del corpo femminile come immagine microcosmica del tutto.
Così come in Eucarestia, Memoria di me e INRI, o Deposizione, Compianto, dove quella che viene rappresentata è proprio la passione di Cristo, quindi il momento della morte, e successivamente l'inizio della putrefazione, dove vengono rappresentati però solo ed esclusivamente soggetti femminili.
La figura di Cristo che viene messa in mostra è evidentemente di derivazione pagana. Anzi qui Tania vuole mostrarci in particolar modo quanto di pagano ci sia in tutte quelle azioni, cerimonie, icone, credenze con le quali la maggior parte di noi è cresciuto.
A differenza della comune concezione cattolica, il corpo viene pensato come veicolo di liberazione e non come mera prigione. Forse potremmo addirittura considerare che sia l'anima stessa la prigione del corpo e non viceversa, e anche perché quella che andiamo ricercando (a partire dalla prima fase dell'opera al nero) è proprio l'unificazione con l'universo, la totale unità fra l'alto e il basso (quod est inferius est sicut quod est superior). L'anima è in fondo tutto il nostro campo visivo, comprendente per ciò stesso il nostro tessuto simbolico dentro il quale siamo rinchiusi, e dal quale ci dovremmo liberare (e per questo Cristo viene visto come un esempio).
Tania Bocchino è un'attenta lettrice di Camille Paglia, scrittrice americana la quale ha considerato nel suo saggio Sexual personae (C. Paglia, Sexual Personae: The Androgyne in Literature and Art, tesi di dottorato, 1974) la figura della donna come sancta sanctorium della Natura, (nel caso dell'uomo, invece, della Cultura). Non si tratta ovviamente di semplice femminismo a buon mercato, ma piuttosto di una forma di femminismo così come di maschilismo che potrebbero definirsi ante litteram, dove ciascuno coglie il proprio ruolo e il proprio posto.
Ma come in un caleidoscopio, dentro l'opera di Tania possono essere scovate diverse chiavi di lettura. Quella più immediata è, forse, la più importante ed è quella concernente l'erotismo, come realtà del desiderio, ma soprattutto delle dinamiche universali stesse. L'uomo che con la sua ragione vorrebbe mettere ordine nel caos femminile. E l'amore, come un ritorno nel grembo originario, come ritorno al calore, all'origine, alla protezione.
Sarà forse anche per questo che Bataille avrebbe detto che “l'erotismo è l'approvazione della vita fin dentro la morte”.
(G. Bataille, L'erostismo, 1957).
martedì 2 novembre 2010
NON NOMINATE IL TIRANNO INVANO
Noto con particolare sgomento, che da un po' di tempo a questa parte, non si fa altro che tirar fuori uno scandalo diverso al giorno, dove puntualmente vi è implicato quel curioso personaggio che è il nostro premier.
Si tratta perlopiù di faccende che hanno a che fare con la prostituzione, con battute di cattivo gusto, con le risposte molto imbarazzanti che offre in dono a chi gli pone domande molto serie, insomma per ridurla all'osso, le ormai innumerevoli provocazioni.
Mi riferisco alle stesse che sono riuscite a diventare l'unica piattaforma di discussione in mano all' opposizione, la quale argomenta il tutto con un linguaggio goffamente serio, formale, indignato, e che ambirebbe a sensibilizzare sulla gravità delle affermazioni, del personaggio, delle sue azioni.
Il punto è che gli scandali non hanno fine, e hanno reso il cavaliere un fiero collezionista di contraddizioni, dissolutezze, libertinaggi degni di quelli raccontati in qualche scena di Pasolini.
Ma l'arma del moralismo non aiuta a risolvere un bel niente. Anzi, non è di certo andando a scomodare quegli scheletri negli armadi (che come vuole dimostrare non la politica ma la vita, ciascuno in fondo possiede, e che quindi diventano armi a doppio taglio).
Ciò che dovrebbe mettere più paura è il potere che questo signore concede a se stesso di raccontare freddure e passare da una nottata di gang bang a una giornata al family day.
Ma bisognerebbe andare oltre la paura stessa, e porsi nuove questioni:
Che cosa abbiamo noi fra le mani?
Che cosa possiamo proporre di nuovo? Abbiamo un programma in mente? Abbiamo un'idea chiara di quali siano i problemi che ci troviamo addosso in quanto italiani?
A ben pensarci non ci stiamo rendendo forse lontanamente conto di quanto si stia effettivamente svuotando tutta la nostra “immaginazione” di oppositori . Siamo vampirizzati da un personaggio politico (principalmente televisivo) che occupa quello spazio dove dovrebbero teoricamente muoversi i nostri argomenti, le nostre proposte, le nostre possibili risposte, nonché la nostra identità stessa.
Ritengo che oggigiorno il problema più importante stia proprio nell'opposizione, che non lavora affatto su se stessa, perché impigrita dal nemico, forse mossa dalla speranza segreta di occupare un giorno quel trono, senza domandarsi se gli italiani abbiano bisogno di nuovi monarchi, o abbiano bisogno piuttosto di risolvere i propri disagi (sempre più numerosi oltre che gravosi).
Bisognerà forse smettere una buona volta di occuparsi di faccende a metà fra il machiavellico e il disneyano, e iniziare a ragionare su quali siano i nostri propositi, quali le nostre esigenze, quali i nostri progetti, e creare una forma di governo alternativa dove attualmente è possibile trovare solo il deserto.
Rafforzare la sinistra, la destra? Ancorarsi a, e identificarsi con un passato che ci fa precipitare fra le pagine dei libri di storia?
Inutile dire che dietro a questo c'è evidentemente una tattica (consapevole o no, non importa) operata al fine di portare il sovrano a diventare l'unico argomento politico possibile, facendo semplicemente perdere tempo a quella parte della popolazione affascinata dal proprio rancore. Siamo ricaduti in quella malattia che rende tutto tristemente statico e autoreferenziale, dove si procede solo più per strategie.
Tutta la politica è oggi strategica, e serve a definire l'aspetto di sé stessa, mostrandosi solo più nella sua forma della rappresentanza.
Protestare contro le riforme scolastiche, contro la disoccupazione, contro la svalutazione della cultura, etc non basta più, a quanto pare. Bisogna districarsi da questo atteggiamento mirato solo ed esclusivamente alla distruzione dell'altra parte, o mossa dalla speranza di un ascolto impossibile. Qualora noi ci trovassimo davanti alla caduta di questo governo, avremmo qualcosa di pronto da proporre? Sapremmo muoverci nel vuoto?
Forse quando i problemi sono seri è più facile occuparsi solo ed esclusivamente del nemico, piuttosto che cercare soluzioni concrete. Forse non ci rendiamo conto che la nostra difficoltà è data da un problema essenziale: quella poca libertà che ancora ci resta, e che non sappiamo come utilizzare. Perché occuparsi dei problemi senza avere la comodità di un handicap come quello conferitoci dalla figura di uno spiritoso criminale al governo, è cosa ben difficile, perché a quel punto la responsabilità sarà solo nostra.
È meglio affrettarsi, e lasciar perdere per un attimo quel noioso argomento di cui sentiamo parlare ogni giorno. Adesso che tutti noi conosciamo bene il volto della nostra rabbia, non ci resta che renderla costruttiva, o fra poco saremo tutti sudditi incatenati alla nostra stessa inettitudine.
Luca Atzori
Si tratta perlopiù di faccende che hanno a che fare con la prostituzione, con battute di cattivo gusto, con le risposte molto imbarazzanti che offre in dono a chi gli pone domande molto serie, insomma per ridurla all'osso, le ormai innumerevoli provocazioni.
Mi riferisco alle stesse che sono riuscite a diventare l'unica piattaforma di discussione in mano all' opposizione, la quale argomenta il tutto con un linguaggio goffamente serio, formale, indignato, e che ambirebbe a sensibilizzare sulla gravità delle affermazioni, del personaggio, delle sue azioni.
Il punto è che gli scandali non hanno fine, e hanno reso il cavaliere un fiero collezionista di contraddizioni, dissolutezze, libertinaggi degni di quelli raccontati in qualche scena di Pasolini.
Ma l'arma del moralismo non aiuta a risolvere un bel niente. Anzi, non è di certo andando a scomodare quegli scheletri negli armadi (che come vuole dimostrare non la politica ma la vita, ciascuno in fondo possiede, e che quindi diventano armi a doppio taglio).
Ciò che dovrebbe mettere più paura è il potere che questo signore concede a se stesso di raccontare freddure e passare da una nottata di gang bang a una giornata al family day.
Ma bisognerebbe andare oltre la paura stessa, e porsi nuove questioni:
Che cosa abbiamo noi fra le mani?
Che cosa possiamo proporre di nuovo? Abbiamo un programma in mente? Abbiamo un'idea chiara di quali siano i problemi che ci troviamo addosso in quanto italiani?
A ben pensarci non ci stiamo rendendo forse lontanamente conto di quanto si stia effettivamente svuotando tutta la nostra “immaginazione” di oppositori . Siamo vampirizzati da un personaggio politico (principalmente televisivo) che occupa quello spazio dove dovrebbero teoricamente muoversi i nostri argomenti, le nostre proposte, le nostre possibili risposte, nonché la nostra identità stessa.
Ritengo che oggigiorno il problema più importante stia proprio nell'opposizione, che non lavora affatto su se stessa, perché impigrita dal nemico, forse mossa dalla speranza segreta di occupare un giorno quel trono, senza domandarsi se gli italiani abbiano bisogno di nuovi monarchi, o abbiano bisogno piuttosto di risolvere i propri disagi (sempre più numerosi oltre che gravosi).
Bisognerà forse smettere una buona volta di occuparsi di faccende a metà fra il machiavellico e il disneyano, e iniziare a ragionare su quali siano i nostri propositi, quali le nostre esigenze, quali i nostri progetti, e creare una forma di governo alternativa dove attualmente è possibile trovare solo il deserto.
Rafforzare la sinistra, la destra? Ancorarsi a, e identificarsi con un passato che ci fa precipitare fra le pagine dei libri di storia?
Inutile dire che dietro a questo c'è evidentemente una tattica (consapevole o no, non importa) operata al fine di portare il sovrano a diventare l'unico argomento politico possibile, facendo semplicemente perdere tempo a quella parte della popolazione affascinata dal proprio rancore. Siamo ricaduti in quella malattia che rende tutto tristemente statico e autoreferenziale, dove si procede solo più per strategie.
Tutta la politica è oggi strategica, e serve a definire l'aspetto di sé stessa, mostrandosi solo più nella sua forma della rappresentanza.
Protestare contro le riforme scolastiche, contro la disoccupazione, contro la svalutazione della cultura, etc non basta più, a quanto pare. Bisogna districarsi da questo atteggiamento mirato solo ed esclusivamente alla distruzione dell'altra parte, o mossa dalla speranza di un ascolto impossibile. Qualora noi ci trovassimo davanti alla caduta di questo governo, avremmo qualcosa di pronto da proporre? Sapremmo muoverci nel vuoto?
Forse quando i problemi sono seri è più facile occuparsi solo ed esclusivamente del nemico, piuttosto che cercare soluzioni concrete. Forse non ci rendiamo conto che la nostra difficoltà è data da un problema essenziale: quella poca libertà che ancora ci resta, e che non sappiamo come utilizzare. Perché occuparsi dei problemi senza avere la comodità di un handicap come quello conferitoci dalla figura di uno spiritoso criminale al governo, è cosa ben difficile, perché a quel punto la responsabilità sarà solo nostra.
È meglio affrettarsi, e lasciar perdere per un attimo quel noioso argomento di cui sentiamo parlare ogni giorno. Adesso che tutti noi conosciamo bene il volto della nostra rabbia, non ci resta che renderla costruttiva, o fra poco saremo tutti sudditi incatenati alla nostra stessa inettitudine.
Luca Atzori
sabato 30 ottobre 2010
QUARTO DISCORSO DELL'ANTIUMANESIMO: L'INVIDIA
“Forse solo chi vuole s'infinita.” Montale
L'invidia è certamente uno dei sentimenti più filosofici che esistano.
Essa può essere costruttiva o distruttiva.
Nel secondo caso non si parla più di filosofia, ma più semplicemente di un sentimento mediocre che esteso a livelli più ampi diventa il carburante di quella porcheria che siamo soliti definire politica.
E' il caso di chi non potendo ottenere ciò che vorrebbe, decide di distruggerlo, in maniera da non essere più costretto a sopportarne il peso del desiderio. Restando alla politica possiamo prendere come esempio il rivoluzionario (di Destra, come di Sinistra) che non contento dello stato di cose in cui vive decide di cancellarlo per metterne in atto uno diverso ma identico, conservando per ciò stesso la verità triste e paradossale da cui si è eternamente partiti.
Nel primo caso, si prende invece in considerazione il motore che porta a muoversi verso la conoscenza.
Se Aristotele diceva che la meraviglia genera desiderio di conoscenza, l'invidia è il carro sopra il quale ci si muove per arrivarci.
Desiderare, in questo caso, implica uno sforzo diretto innanzitutto al cambiamento, al mutamento di sé. Un allontanamento necessario, seguito però da puntuale ritorno.
Il filosofo è un figliol prodigo.
L'unico cambiamento che possa avvenire a livello sociale può essere effettuato su un piano ontologico.
Il punto è che invidiare costruttivamente non è semplice. Qualora si viva in un sistema che decide quel che si deve volere, l'oggetto d'invidia diventa lì fasullo, proprio perché sprovvisto di alcuna attinenza con quelle che sono le esigenze reali dell'individuo.
È necessario dunque che questo individuo diventi prima che emancipato, innanzitutto responsabile.
Qualora non avvenga invece alcun mutamento ontologico, si finisce per trovarsi davanti a parole e propositi ruotanti intorno a se stessi. Una presa di partito legata strettamente a questioni razionali e non reali, che possono spesso illuderci di indossare un'identità irrespirabile.
Si genera così più spesso il fenomeno della confusione del singolo con una massa priva di orientamento esistenziale, più simile a un gregge dove ciascuno cerca di occupare spazi ridotti e lo fa aggredendo chi gli sta accanto, nel tentativo disperato di giungere al possesso del verbo “primeggiare”.
Facendo questo vanno restringendosi lo spazio così come il tempo.
L'esistenza che dovrebbe seguire tale percorso legato sottilmente all'esperienza, più spesso rimane associata alle esigenze del breve consumo.
Ma questa è una faccenda che riguarda la massa, e a noi non interessa.
Ciò che dovrebbe riguardare ciascuno più da vicino, è piuttosto il conseguimento di una conoscenza che possa rendere possibile un miglioramento non solo a livello formale, ma anche reale.
Questo non è possibile però maturando sentimenti di odio, legati a tentazioni pigre e distruttive, rivendicatrici di quel complesso di difetti che costituiscono l'origine dei malesseri vari.
Detto ciò è necessario, ovviamente, andare in contrasto con il normale atto di sopravvalutazione che viene fatto nei confronti dell'avere a discapito dell'essere.
Il punto è che non c'è nessuno a cui si debba dimostrare nulla, e che, piuttosto, dal momento che la condizione umana insegna che la vita si muove sopra la parete colma di niente che è la libertà, e che non vi è altra sovrana oltre che la morte, tanto vale vivere ascoltando la voce che ci sussurra il nostro compito, senza ricercare consenso, ma facendolo per puro amore (posto al di là), eliminando l'illusione di cambiare un mondo che non esiste se non dentro noi stessi.
Il resto sono bugie, e le lasciamo agli altri invidiosi (coloro i quali credono).
Luca Atzori
L'invidia è certamente uno dei sentimenti più filosofici che esistano.
Essa può essere costruttiva o distruttiva.
Nel secondo caso non si parla più di filosofia, ma più semplicemente di un sentimento mediocre che esteso a livelli più ampi diventa il carburante di quella porcheria che siamo soliti definire politica.
E' il caso di chi non potendo ottenere ciò che vorrebbe, decide di distruggerlo, in maniera da non essere più costretto a sopportarne il peso del desiderio. Restando alla politica possiamo prendere come esempio il rivoluzionario (di Destra, come di Sinistra) che non contento dello stato di cose in cui vive decide di cancellarlo per metterne in atto uno diverso ma identico, conservando per ciò stesso la verità triste e paradossale da cui si è eternamente partiti.
Nel primo caso, si prende invece in considerazione il motore che porta a muoversi verso la conoscenza.
Se Aristotele diceva che la meraviglia genera desiderio di conoscenza, l'invidia è il carro sopra il quale ci si muove per arrivarci.
Desiderare, in questo caso, implica uno sforzo diretto innanzitutto al cambiamento, al mutamento di sé. Un allontanamento necessario, seguito però da puntuale ritorno.
Il filosofo è un figliol prodigo.
L'unico cambiamento che possa avvenire a livello sociale può essere effettuato su un piano ontologico.
Il punto è che invidiare costruttivamente non è semplice. Qualora si viva in un sistema che decide quel che si deve volere, l'oggetto d'invidia diventa lì fasullo, proprio perché sprovvisto di alcuna attinenza con quelle che sono le esigenze reali dell'individuo.
È necessario dunque che questo individuo diventi prima che emancipato, innanzitutto responsabile.
Qualora non avvenga invece alcun mutamento ontologico, si finisce per trovarsi davanti a parole e propositi ruotanti intorno a se stessi. Una presa di partito legata strettamente a questioni razionali e non reali, che possono spesso illuderci di indossare un'identità irrespirabile.
Si genera così più spesso il fenomeno della confusione del singolo con una massa priva di orientamento esistenziale, più simile a un gregge dove ciascuno cerca di occupare spazi ridotti e lo fa aggredendo chi gli sta accanto, nel tentativo disperato di giungere al possesso del verbo “primeggiare”.
Facendo questo vanno restringendosi lo spazio così come il tempo.
L'esistenza che dovrebbe seguire tale percorso legato sottilmente all'esperienza, più spesso rimane associata alle esigenze del breve consumo.
Ma questa è una faccenda che riguarda la massa, e a noi non interessa.
Ciò che dovrebbe riguardare ciascuno più da vicino, è piuttosto il conseguimento di una conoscenza che possa rendere possibile un miglioramento non solo a livello formale, ma anche reale.
Questo non è possibile però maturando sentimenti di odio, legati a tentazioni pigre e distruttive, rivendicatrici di quel complesso di difetti che costituiscono l'origine dei malesseri vari.
Detto ciò è necessario, ovviamente, andare in contrasto con il normale atto di sopravvalutazione che viene fatto nei confronti dell'avere a discapito dell'essere.
Il punto è che non c'è nessuno a cui si debba dimostrare nulla, e che, piuttosto, dal momento che la condizione umana insegna che la vita si muove sopra la parete colma di niente che è la libertà, e che non vi è altra sovrana oltre che la morte, tanto vale vivere ascoltando la voce che ci sussurra il nostro compito, senza ricercare consenso, ma facendolo per puro amore (posto al di là), eliminando l'illusione di cambiare un mondo che non esiste se non dentro noi stessi.
Il resto sono bugie, e le lasciamo agli altri invidiosi (coloro i quali credono).
Luca Atzori
giovedì 14 ottobre 2010
MAD PRIDE
"Fabbricare fabbricare fabbricare
Preferisco il rumore del mare..."
Dino Campana
Mad pride è un'organizzazione che vuole rivendicare la libertà che ciascuno ha di portare con sé l'araldo del proprio disagio psichico, senza essere per questo emarginato, né sedato, né rinchiuso e via discorrendo.
Mad pride crede che attraverso la malattia psichica si renda manifesta l'effettiva condizione esistenziale propria dell'individuo che ne è affetto, e la sua relazione con il mondo intorno (di cui egli stesso è specchio).
Il delirio dello schizofrenico, la condizione del depresso, il disturbo bipolare etc sono forme di verità possibili le quali compaiono nella mente dell' essere umano, il quale gettato in una certa realtà dove imperano elementi non propriamente accordati con la sensibilità (che è principio di tutto), si ritrova a crearne una alternativa, portandosi verso il paradosso di una disperazione di difficile sopportazione.
Il rimedio che viene offerto loro è la psichiatria, una scienza nata dal nulla che classifica in maniera statistica ogni tipo di particolare sensibilità denominandola e racchiudendola in un insieme, e dunque fornendo la cura farmacologica che approssimativamente viene usata per questa o quell'altra forma di malessere.
Mad pride vuole l'abolizione dello psicofarmaco, una truffa vera e propria, che non serve assolutamente a risolvere alcun problema, ma aiuta semplicemente ad addormentarlo. Somministrare psicofarmaci è il modo migliore per ostacolare il percorso di una persona e mettere da parte ogni speranza di soluzione di problemi.
La normalità, non c'è bisogno di dirlo, impera dove non si generano troppi dubbi, e tutto è passibile di controllo.
Quello che Mad pride si prefigge di raggiungere, è non solo una dichiarazione dei diritti del pazzo, ma anche e soprattutto la conquista dell' orgoglio. Troppo spesso capita di essere costretti a doversi adeguare a una realtà che non è e mai sarà nostra, dovendo perciò mettere in atto un processo autolesionistico dove a tutto viene dato importanza, meno che alla vera responsabilità individuale.
Il pazzo non è irresponsabile per natura, egli lo è perché non gli viene offerta nemmeno la possibilità di una qualsivoglia responsabilità.
Non si fraintenda però, qui non si vuole certo fare un'apologia del malessere, ma piuttosto considerare questo non come parte di una condizione da considerarsi nella sua mera negatività, ma come una reazione a un mondo che diventa sempre più disumano, e che obbliga gli uomini a vivere in condizioni di cattività permanente.
Bisogna oltremodo considerare che a decidere chi sia il malato mentale è sempre una figura di potere, e il potere si sa, non ha bisogno di un danno effettivo per imprigionare o rinchiudere, gli basta decidere apriori di mutare la sua innocenza o sanità in colpevolezza o pazzia, così per avere il diritto di decidere sulla vita di una persona.
Basti ad essere considerato assurdo il fatto che ci siano persone (spesso elevatamente mediocri) che decidano sopra le sorti di altre.
Mad pride vuole che il pazzo possa diventare orgoglioso di essere tale, e che possa ricavare da sé la forza di trovare una felicità non indotta in maniera coatta, ma conquistata attraverso un percorso necessario che porti rispetto prima di tutto verso la sfera umana, alla stessa responsabilità dell' individuo.
Mad pride vuole inoltre iniziare una lotta contro il primato della produzione, che diventa il fine di ogni esistenza, e per ciò stesso ne è l'annullamento.
Mad pride crede che in ogni delirio ci sia una verità potenziale della coscienza, e che ogni forma di emarginazione sia l'origine del vero malessere.
Mad pride ha una missione principale: che nessuno più si vergogni né di essere pazzo né di rendere manifesto il proprio delirio, e che tutto ciò venga fatto con profondo orgoglio, e diventi anzi oggetto di serio interesse, poiché la follia da sempre è stata la porta d'entrata di ogni risveglio (concetto ingombrante in una civiltà assonnata e narcotizzata come quella in cui viviamo).
Mad pride crede che l'unico sentiero che porti alla felicità, sia la libertà (quella vera, e spesso scomoda, fino a diventare anche appena faticosa).
Luca Atzori
Preferisco il rumore del mare..."
Dino Campana
Mad pride è un'organizzazione che vuole rivendicare la libertà che ciascuno ha di portare con sé l'araldo del proprio disagio psichico, senza essere per questo emarginato, né sedato, né rinchiuso e via discorrendo.
Mad pride crede che attraverso la malattia psichica si renda manifesta l'effettiva condizione esistenziale propria dell'individuo che ne è affetto, e la sua relazione con il mondo intorno (di cui egli stesso è specchio).
Il delirio dello schizofrenico, la condizione del depresso, il disturbo bipolare etc sono forme di verità possibili le quali compaiono nella mente dell' essere umano, il quale gettato in una certa realtà dove imperano elementi non propriamente accordati con la sensibilità (che è principio di tutto), si ritrova a crearne una alternativa, portandosi verso il paradosso di una disperazione di difficile sopportazione.
Il rimedio che viene offerto loro è la psichiatria, una scienza nata dal nulla che classifica in maniera statistica ogni tipo di particolare sensibilità denominandola e racchiudendola in un insieme, e dunque fornendo la cura farmacologica che approssimativamente viene usata per questa o quell'altra forma di malessere.
Mad pride vuole l'abolizione dello psicofarmaco, una truffa vera e propria, che non serve assolutamente a risolvere alcun problema, ma aiuta semplicemente ad addormentarlo. Somministrare psicofarmaci è il modo migliore per ostacolare il percorso di una persona e mettere da parte ogni speranza di soluzione di problemi.
La normalità, non c'è bisogno di dirlo, impera dove non si generano troppi dubbi, e tutto è passibile di controllo.
Quello che Mad pride si prefigge di raggiungere, è non solo una dichiarazione dei diritti del pazzo, ma anche e soprattutto la conquista dell' orgoglio. Troppo spesso capita di essere costretti a doversi adeguare a una realtà che non è e mai sarà nostra, dovendo perciò mettere in atto un processo autolesionistico dove a tutto viene dato importanza, meno che alla vera responsabilità individuale.
Il pazzo non è irresponsabile per natura, egli lo è perché non gli viene offerta nemmeno la possibilità di una qualsivoglia responsabilità.
Non si fraintenda però, qui non si vuole certo fare un'apologia del malessere, ma piuttosto considerare questo non come parte di una condizione da considerarsi nella sua mera negatività, ma come una reazione a un mondo che diventa sempre più disumano, e che obbliga gli uomini a vivere in condizioni di cattività permanente.
Bisogna oltremodo considerare che a decidere chi sia il malato mentale è sempre una figura di potere, e il potere si sa, non ha bisogno di un danno effettivo per imprigionare o rinchiudere, gli basta decidere apriori di mutare la sua innocenza o sanità in colpevolezza o pazzia, così per avere il diritto di decidere sulla vita di una persona.
Basti ad essere considerato assurdo il fatto che ci siano persone (spesso elevatamente mediocri) che decidano sopra le sorti di altre.
Mad pride vuole che il pazzo possa diventare orgoglioso di essere tale, e che possa ricavare da sé la forza di trovare una felicità non indotta in maniera coatta, ma conquistata attraverso un percorso necessario che porti rispetto prima di tutto verso la sfera umana, alla stessa responsabilità dell' individuo.
Mad pride vuole inoltre iniziare una lotta contro il primato della produzione, che diventa il fine di ogni esistenza, e per ciò stesso ne è l'annullamento.
Mad pride crede che in ogni delirio ci sia una verità potenziale della coscienza, e che ogni forma di emarginazione sia l'origine del vero malessere.
Mad pride ha una missione principale: che nessuno più si vergogni né di essere pazzo né di rendere manifesto il proprio delirio, e che tutto ciò venga fatto con profondo orgoglio, e diventi anzi oggetto di serio interesse, poiché la follia da sempre è stata la porta d'entrata di ogni risveglio (concetto ingombrante in una civiltà assonnata e narcotizzata come quella in cui viviamo).
Mad pride crede che l'unico sentiero che porti alla felicità, sia la libertà (quella vera, e spesso scomoda, fino a diventare anche appena faticosa).
Luca Atzori
martedì 5 ottobre 2010
C. JEMULO
La musica anti-idiomatica
di Luca Atzori
Quando si parla di generi musicali più complessi come il jazz, o la fusion, è facile andare incontro a un fenomeno tanto diffuso e naturalizzato, quanto irritante, che è quello della valorizzazione della sola performance . I commenti che seguono a certe jam session sono spesso rivolti alla velocità con cui il musicista muove la mano, o alla conoscenza delle scale, così tutto l'insieme di elementi tecnici contribuiscono a rendere l'aspetto artistico più carente, (addirittura irrilevante) gonfiando l'ignoranza degli ascoltatori.
Non bisogna trascurare poi, tutta la mole di musica destinata al mercato, che risulta ricoprire un ruolo di ornamento della propaganda, che nell'era della cosiddetta “riproducibilità tecnica” può essere ritenuto come valore imperante.
Esiste però un filone musicale che prende a carico il compito di andare oltre questi principi (assegnati da chissà quale subdola e ineffabile entità legiferante), ed è quello della musica anti idiomatica.
Un esempio a Torino è Chris Iemulo, nato a Siracusa nel 1978, laureato presso il DAMS di Bologna e attivo in campo musicale da quasi vent'anni (durante i quali ha studiato con personalità come Carlo Muratori, Phil Singer, Markus Stockhausen etc).
Si può dire che Chris Iemulo abbia iniziato a distanziarsi da una certa tradizione che concerne la musica occidentale, la quale si vede circoscritta entro certi schemi, chiusa nell'unica possibilità tonale e limitata a sole dodici note, facendo un salto indietro di trecento anni e cercando di ripercorrere quella strada iniziata da compositori come Schoenberg, Webern, Stockhausen, e che si dirigeva oltre le barriere del temperamento equabile.
Tanto la musica pop quanto quella più ricercata, difatti, rientrano sempre entro le categorie gestaltiche dell'insieme che deve risultare armonico e sequenziale.
Quando si viene a contatto con la musica di Chris Iemulo si può avere invece la prima impressione di non capirci nulla, seppure la musica anti-idiomatica, paradossalmente, si ponga un obiettivo contrario, ovvero quello di generare nuove variazioni che riescano a distogliere l'attenzione dalla tecnica, e che siano lungi dunque dal desiderio di provocare stupore in chi ascolta.
La musica anti-idiomatica è oltremodo (e anche qui paradossalmente) idiomatica, ma in senso negativo, perché raccoglie in sé tutti gli idiomi. La sua concezione della musica va oltre quella propriamente illuministica. Potrebbe essere accostata, per la sua estemporaneità, a quel movimento artistico d'avanguardia nato negli anni sessanta che portava il nome di Fluxus, perché non è in fondo altro che uno stream of consciousness, che però non cade mai nella tentazione di affondare ad ogni costo in una cultura del brutto (via semplicistica, e battuta da molti).
Chris Iemulo sta attualmente suonando con un Ensemble collettivo che si pone come fine quello di valorizzare una visione comunitaria dell'arte, dove anche l'individuo trovi il proprio spazio e al contempo, attraverso l'improvvisazione, riesca a sfruttare le potenzialità musicali degli strumenti nonché creative personali, cercando di concretizzare una musica fondata principalmente su una ricerca umana oltre che artistica (e a proposito di trasversalità Chris Iemulo collabora per il teatro con la compagnia Eidos teatro).
Se esiste un certo modo di fare musica, sarà dunque perché esiste un'esigenza prima di tutto esistenziale, senza la pretesa di dire ne niente di nuovo, ne niente di strano, ma con la speranza di poter donare dignità all'arte, e con essa a tutto ciò che concerne un ideale artistico che si va forse dimenticando e che necessita oggi di maggior forza e motivazione.
di Luca Atzori
Quando si parla di generi musicali più complessi come il jazz, o la fusion, è facile andare incontro a un fenomeno tanto diffuso e naturalizzato, quanto irritante, che è quello della valorizzazione della sola performance . I commenti che seguono a certe jam session sono spesso rivolti alla velocità con cui il musicista muove la mano, o alla conoscenza delle scale, così tutto l'insieme di elementi tecnici contribuiscono a rendere l'aspetto artistico più carente, (addirittura irrilevante) gonfiando l'ignoranza degli ascoltatori.
Non bisogna trascurare poi, tutta la mole di musica destinata al mercato, che risulta ricoprire un ruolo di ornamento della propaganda, che nell'era della cosiddetta “riproducibilità tecnica” può essere ritenuto come valore imperante.
Esiste però un filone musicale che prende a carico il compito di andare oltre questi principi (assegnati da chissà quale subdola e ineffabile entità legiferante), ed è quello della musica anti idiomatica.
Un esempio a Torino è Chris Iemulo, nato a Siracusa nel 1978, laureato presso il DAMS di Bologna e attivo in campo musicale da quasi vent'anni (durante i quali ha studiato con personalità come Carlo Muratori, Phil Singer, Markus Stockhausen etc).
Si può dire che Chris Iemulo abbia iniziato a distanziarsi da una certa tradizione che concerne la musica occidentale, la quale si vede circoscritta entro certi schemi, chiusa nell'unica possibilità tonale e limitata a sole dodici note, facendo un salto indietro di trecento anni e cercando di ripercorrere quella strada iniziata da compositori come Schoenberg, Webern, Stockhausen, e che si dirigeva oltre le barriere del temperamento equabile.
Tanto la musica pop quanto quella più ricercata, difatti, rientrano sempre entro le categorie gestaltiche dell'insieme che deve risultare armonico e sequenziale.
Quando si viene a contatto con la musica di Chris Iemulo si può avere invece la prima impressione di non capirci nulla, seppure la musica anti-idiomatica, paradossalmente, si ponga un obiettivo contrario, ovvero quello di generare nuove variazioni che riescano a distogliere l'attenzione dalla tecnica, e che siano lungi dunque dal desiderio di provocare stupore in chi ascolta.
La musica anti-idiomatica è oltremodo (e anche qui paradossalmente) idiomatica, ma in senso negativo, perché raccoglie in sé tutti gli idiomi. La sua concezione della musica va oltre quella propriamente illuministica. Potrebbe essere accostata, per la sua estemporaneità, a quel movimento artistico d'avanguardia nato negli anni sessanta che portava il nome di Fluxus, perché non è in fondo altro che uno stream of consciousness, che però non cade mai nella tentazione di affondare ad ogni costo in una cultura del brutto (via semplicistica, e battuta da molti).
Chris Iemulo sta attualmente suonando con un Ensemble collettivo che si pone come fine quello di valorizzare una visione comunitaria dell'arte, dove anche l'individuo trovi il proprio spazio e al contempo, attraverso l'improvvisazione, riesca a sfruttare le potenzialità musicali degli strumenti nonché creative personali, cercando di concretizzare una musica fondata principalmente su una ricerca umana oltre che artistica (e a proposito di trasversalità Chris Iemulo collabora per il teatro con la compagnia Eidos teatro).
Se esiste un certo modo di fare musica, sarà dunque perché esiste un'esigenza prima di tutto esistenziale, senza la pretesa di dire ne niente di nuovo, ne niente di strano, ma con la speranza di poter donare dignità all'arte, e con essa a tutto ciò che concerne un ideale artistico che si va forse dimenticando e che necessita oggi di maggior forza e motivazione.
martedì 14 settembre 2010
PINGUINO
Orchestrina ambulante in scatola
di Luca Atzori
Nell'Estate del 2008 è ritornato alla luce un progetto che già dal 2001 si muoveva fra le strade sotterranee di una Torino fatta di cantautori, musicisti, artisti, uniti come da una insolita e sottile affinità elettiva.
Stefano Amen (già conosciuto come cantautore), con l'entrata di Alberto Moretti ha trasformato il suo progetto in un duo (trovando un equilibrio sia a livello compositivo che performativo).
Le sonorità a metà fra il rock and roll e la musica elettronica si possono riconoscere già nel promo solo del 2001 che si apre con un intro a un loro brano (Yellow) in cui si viene immediatamente catturati dalla semplicità della forma canzone, miscelata a sonorità proprie del nuovo millennio.
Sempre nello stesso disco diversi riadattamenti a canzoni di Syd Barrett (Opel, Late night, gigolo haunt, vegetable man).
Pinguino è un progetto che mira ad esulare dalle singole figure dei musicisti, ponendosi come una forma di evento musicale impersonale.
L' interesse è quello di comunicare un' intenzione prima artistica che d'immagine (cosa oggi sempre più rara).
Due individualità che riuscendo a fondersi e a comunicare il proprio gusto, piuttosto che limitarsi a porre attenzione verso se stessi, sono riuscite a creare un nuovo modo di intendere la musica popolare, rendendola il più attuale possibile.
Quella che qui ci accingiamo a definire come “musica popolare” non smetterà mai di esistere, ma continuerà a trasformarsi, cambiare lingua. Non potrà che indossare i panni dell'epoca di cui farà parte, e così continuerà ad essere, finché ci sarà vita.
Pinguino ne è un esempio.
Riporto qui sotto un' intervista che ho avuto modo di fare a Stefano e Alberto.
Che cos'è Pinguino?
Stefano: E' un progetto musicale che ambisce a rendere contemporaneo un certo modo di fare canzone utilizzando sonorità più moderne.
Potremmo definirlo come un connubio fra la musica rock e l'elettronica?
Alberto: io lo definirei come un sincretismo musicale. È un modo di vedere le cose che in realtà esiste da trenta, quarant'anni, basti ricordare i Suicide, i Soft Cell, o addirittura i Beatles
Stefano: Il nostro interesse è quello di sdoganare la musica cosiddetta colta e rendere possibile un sodalizio con la musica d'intrattenimento. Vorremmo fare musica che piaccia alle femmine.
Come è nata questa collaborazione?
Alberto: In maniera naturale, grazie a Simone Sandretti (che è un regista e performer torinese).
Stefano: Alberto ha visto un mio concerto, abbiamo chiacchierato un po', io già sapevo che faceva musica elettronica, così abbiamo mescolato le cose che avevo prodotto io con le sue ed è nato il duo Pinguino.
So che Pinguino utilizza diverse forme di espressione....
Alberto: Certamente, abbiamo intenzione di usare altre forme di diffusione, ad esempio Video. Inoltre usiamo sempre pochissimi strumenti. Cerchiamo di trasmettere, a livello concettuale, il senso della ripetizione. Come nei film dove avviene il montaggio. Le nostre canzoni sono film di canzoni. E' sempre preprodotta.
Stefano: La musica contemporanea trascura spesso l'aspetto vocale.
Alberto: Per noi l'importante è trasmettere, non c'è bisogno di troppi strumenti. Noi non abbiamo la batteria, ad esempio. All'estero cose del genere si vedono spesso.
Stefano: Infatti vorrei fare una puntualizzazione polemica rispetto al modo di vedere tipico italiano. Noi vorremmo uscire fuori dalle semplici categorie estetiche tecniche.
Alberto: la nostra è un' orchestrina ambulante in scatola.
Stefano: Ma vorrei precisare che questi sono ragionamenti che facciamo a posteriori. Noi siamo interessati solo a far ballare la gente, coinvolgendola a livello emotivo.
So che avete fatto un video...
Alberto: abbiamo autoprodotto un video, si. La canzone si chiama Yellow (www.youtube.com/watch?v=Aiihj2Ob9Sc) . In questo video abbiamo voluto riportare l'attenzione sul progetto, e non fare una sfilata di moda.
Perché avete scelto di cantare in inglese?
Alberto: innanzitutto perché è divertente. Abbiamo deciso di tirar fuori tutte le nostre influenze senza mediazioni intellettuali. Abbiamo sempre ascoltato e cantato musica inglese. Dopo il rock and roll la musica popolare non è cantata solo in dialetto, ma anche inglese.
Stefano: l' inglese ha sostituito il birignao di quando eravamo bambini quando si cantava a wanna sghen. usiamo i versi esattamente come li usavano i primitivi che subito dopo il ritmo di un colpo battuto ripetutamente (quindi un ritmo, quindi il ballo) si esprimevano a versi. Noi vogliamo fare musica popolare elettrica però. Vogliamo essere realisti. Abbiamo anche storie e concetti da raccontare .
Come vedete la vostra immagine di uomini da palco?
Stefano: Noi dissimuliamo noi stessi. Non siamo veritieri. Usiamo delle “maschere”. In questo siamo ispirati da Bowie. Non raccontiamo noi stessi direttamente. Non è centrale la nostra immagine.
Siete attivi da un punto di vista live? E come vi muovete?
Alberto: Al momento siamo autogestiti. Usiamo i social network per muoverci in Italia. Abbiam suonato in Nord Italia, Centro, Sardegna. L'elemento live per noi è preponderante.
Come vi ispirate?
Alberto: Andiamo ad osservare il tramonto dall'ultimo piano del parcheggio a livelli del centro commerciale di Grugliasco, mangiando olive in calce (ma anche alla calce).
State registrando?
Stefano: Stiamo per finire le registrazioni del nostro disco e valutiamo la possibilità di pubblicarlo.
Come si distinguono i vostri due modi di vedere le cose e come si sposano?
Stefano: io ho un'attitudine più autoriale, scrivo e do struttura.
Alberto: Io sono più vicino alla scrittura istantanea. La dicotomia favorisce il sodalizio. Stefano è lunare, sfuggente. Io sono diretto, solare e crudo. Non uguali ma interscambiabili.
Il nome Pinguino?
Abbiamo deciso di utilizzare un nome italiano. Volevamo essere ironici, e poi suonava bene.
sabato 11 settembre 2010
LA COMUNITA' (DOVE?)
“Perché le parole che voi adoperate non sono più parole” Leo Ferrè
Quel che la mia sensibilità di ventiseienne (dal futuro un po' incerto, ma che in fondo non c'è poi interesse a render chiaro più di tanto)... quello che avverte incombere attorno a sé, è l' “estinzione” del concetto di comunità.
Di per sé la comunità è incoffessabile come avrebbe detto Blanchot, o inoperosa come avrebbe detto Nancy.
Celata dalla frana degli oggetti che sono il frutto della produzione stessa, o dall'identità marchiata, come ogni sentimento, ogni malattia, ogni desiderio, marchiatI.
Così, illusi, camminiamo insieme con lo sguardo rivolto verso il compimento del nostro successo, cercando di specchiarci in quel fabbricato, dichiarando al mondo “anch' io ho fatto qualcosa, anch' io produco!” mentre gli sguardi diventano persi, distratti (intendo quelli rivolti al cuore).
Il comunismo reale è l'esempio più lampante di che cosa significhi tradire la comunità.
La democrazia è un altro problema, il più grande intralcio attuale. Essa garantisce lo sviluppo dei grandi poteri economici mondiali (che non a caso hanno scelto questa forma di organizzazione politica), agendo come un sedativo nei confronti di ogni senso comunitario.
Ogni qualvolta gli uomini progettino in vista della costruzione di un sistema funzionante, tradiscono l'originaria necessità di essere insieme comunitariamente.
Un esempio è l'università, dove molti studenti ambiscono a diventare ricercatori, ignari che per diventare tali devono sottostare a regole che non fanno altro che rendere la cultura sempre più costretta al silenzio, perché imbrigliata in regole che sono quelle della produzione, dell'accumulo di beni, bisogni. La solita storia.
Il bisogno più urgente pare essere quello di crearsi un futuro, e così tutti a spintonarsi affinché uno arrivi prima dell'altro. E non importa se quel che si avrà da dire o fare sarà più o meno importante, sarà una machiavellica fortuna ad assegnare la vittoria, la garanzia di una vita meno contestabile.
Accidenti alla motivazione.
A soffocare la comunità è oltremodo il linguaggio. Capita spesso di incontrarsi e parlare, piangere, gridare, ridere insieme, ma questo avviene accidentalmente, e non reca con sé alcun potere. È un grido di disperazione concesso e qualsiasi dichiarazione condivisa e conosciuta, è una realtà che va a posarsi sulla comunità stessa come un telo sopra un morto.
Oggi sappiamo che la comunità è un concetto impossibile. Quando ci rivolgiamo ad essa, ci richiamiamo al piano dell' esperienza: indicibile, irrappresentabile.
Una comunità dove ciascuno sia reso invisibile (insieme alla comunità stessa, come oggetto paradossale di pensiero).
That's all folk's
Luca Atzori
Quel che la mia sensibilità di ventiseienne (dal futuro un po' incerto, ma che in fondo non c'è poi interesse a render chiaro più di tanto)... quello che avverte incombere attorno a sé, è l' “estinzione” del concetto di comunità.
Di per sé la comunità è incoffessabile come avrebbe detto Blanchot, o inoperosa come avrebbe detto Nancy.
Celata dalla frana degli oggetti che sono il frutto della produzione stessa, o dall'identità marchiata, come ogni sentimento, ogni malattia, ogni desiderio, marchiatI.
Così, illusi, camminiamo insieme con lo sguardo rivolto verso il compimento del nostro successo, cercando di specchiarci in quel fabbricato, dichiarando al mondo “anch' io ho fatto qualcosa, anch' io produco!” mentre gli sguardi diventano persi, distratti (intendo quelli rivolti al cuore).
Il comunismo reale è l'esempio più lampante di che cosa significhi tradire la comunità.
La democrazia è un altro problema, il più grande intralcio attuale. Essa garantisce lo sviluppo dei grandi poteri economici mondiali (che non a caso hanno scelto questa forma di organizzazione politica), agendo come un sedativo nei confronti di ogni senso comunitario.
Ogni qualvolta gli uomini progettino in vista della costruzione di un sistema funzionante, tradiscono l'originaria necessità di essere insieme comunitariamente.
Un esempio è l'università, dove molti studenti ambiscono a diventare ricercatori, ignari che per diventare tali devono sottostare a regole che non fanno altro che rendere la cultura sempre più costretta al silenzio, perché imbrigliata in regole che sono quelle della produzione, dell'accumulo di beni, bisogni. La solita storia.
Il bisogno più urgente pare essere quello di crearsi un futuro, e così tutti a spintonarsi affinché uno arrivi prima dell'altro. E non importa se quel che si avrà da dire o fare sarà più o meno importante, sarà una machiavellica fortuna ad assegnare la vittoria, la garanzia di una vita meno contestabile.
Accidenti alla motivazione.
A soffocare la comunità è oltremodo il linguaggio. Capita spesso di incontrarsi e parlare, piangere, gridare, ridere insieme, ma questo avviene accidentalmente, e non reca con sé alcun potere. È un grido di disperazione concesso e qualsiasi dichiarazione condivisa e conosciuta, è una realtà che va a posarsi sulla comunità stessa come un telo sopra un morto.
Oggi sappiamo che la comunità è un concetto impossibile. Quando ci rivolgiamo ad essa, ci richiamiamo al piano dell' esperienza: indicibile, irrappresentabile.
Una comunità dove ciascuno sia reso invisibile (insieme alla comunità stessa, come oggetto paradossale di pensiero).
That's all folk's
Luca Atzori
sabato 28 agosto 2010
NEL NOME DI DIO RIPOSA IL SENSO DEL LINGUAGGIO
La filosofia teoretica, così per come viene ripensata da Carlo Sini, dovrebbe risultare per metà come una scienza rivolta all'universale, e per l'altra al particolare.
Secondo il filosofo bolognese, il problema della filosofia è che oggi essa “pensi troppo”. Quella che noi ancora ci accingiamo a definire come “amica della sapienza” dovrebbe evolversi in un' “etica del pensiero”.
Effettivamente dopo Heidegger non è più possibile pensare di accedere all' “universale” se non per mezzo del veicolo “particolare” che trova sede nel linguaggio.
Il concetto stesso di “universale” è di per sé particolare, diremmo anzi che tutto ciò che può ritenersi accessibile alla coscienza, ovvero tutto il piano eidetico, può essere pensato come oggettivo.
L'essere umano tende a trasformare tutto in un oggetto, anche ciò che è inoggettivabile, e questo è il suo Sommo Limite.
Anche il cibo viene cucinato e aromatizzato, e non divorato direttamente come fanno gli altri animali i quali occupano il piano dell' intimo, dell' immanente (come direbbe Bataille ne “La teoria della religione”).
Per etica del pensiero si intende perciò un nuovo modo di “abitare” il pensiero, partendo dal presupposto che si può accedere ad esso solo mediante il linguaggio.
Talvolta mi immagino una spada che trafigge il pianeta terra.
Tutto il senso abita nel linguaggio. È così che noi abbiamo controllo sugli utensili che rendolo potenziale il nostro stesso futuro, e così ogni nostro progettarci. Il linguaggio è una forma meglio sofisticata di oggettivazione, cioè è la creazione di un mondo “conoscibile” che fa da riflesso a quello “noumenico” , il quale non conosce separatezza, trascendenza, è uno specchio che mostra unicamente se stesso.
Quando si va incontro a “Dio” e di conseguenza verso tutto il piano di enti immaginari (angeli, unicorni, paperino, montagne dorate etc) si va incontro all' intera irrealtà del linguaggio, ovvero ci viene mostrato quanto siano effettivamente tutti gli enti ad essere immaginari. Questo è il senso della Metafisica.
Più che in un'etica del pensiero, io ritengo che la filosofia debba piuttosto evolversi (o meglio dire risolversi) nella Poesia.
Nel nome di Dio riposa il senso del linguaggio.
Luca Atzori
Secondo il filosofo bolognese, il problema della filosofia è che oggi essa “pensi troppo”. Quella che noi ancora ci accingiamo a definire come “amica della sapienza” dovrebbe evolversi in un' “etica del pensiero”.
Effettivamente dopo Heidegger non è più possibile pensare di accedere all' “universale” se non per mezzo del veicolo “particolare” che trova sede nel linguaggio.
Il concetto stesso di “universale” è di per sé particolare, diremmo anzi che tutto ciò che può ritenersi accessibile alla coscienza, ovvero tutto il piano eidetico, può essere pensato come oggettivo.
L'essere umano tende a trasformare tutto in un oggetto, anche ciò che è inoggettivabile, e questo è il suo Sommo Limite.
Anche il cibo viene cucinato e aromatizzato, e non divorato direttamente come fanno gli altri animali i quali occupano il piano dell' intimo, dell' immanente (come direbbe Bataille ne “La teoria della religione”).
Per etica del pensiero si intende perciò un nuovo modo di “abitare” il pensiero, partendo dal presupposto che si può accedere ad esso solo mediante il linguaggio.
Talvolta mi immagino una spada che trafigge il pianeta terra.
Tutto il senso abita nel linguaggio. È così che noi abbiamo controllo sugli utensili che rendolo potenziale il nostro stesso futuro, e così ogni nostro progettarci. Il linguaggio è una forma meglio sofisticata di oggettivazione, cioè è la creazione di un mondo “conoscibile” che fa da riflesso a quello “noumenico” , il quale non conosce separatezza, trascendenza, è uno specchio che mostra unicamente se stesso.
Quando si va incontro a “Dio” e di conseguenza verso tutto il piano di enti immaginari (angeli, unicorni, paperino, montagne dorate etc) si va incontro all' intera irrealtà del linguaggio, ovvero ci viene mostrato quanto siano effettivamente tutti gli enti ad essere immaginari. Questo è il senso della Metafisica.
Più che in un'etica del pensiero, io ritengo che la filosofia debba piuttosto evolversi (o meglio dire risolversi) nella Poesia.
Nel nome di Dio riposa il senso del linguaggio.
Luca Atzori
mercoledì 25 agosto 2010
UN POMERIGGIO DI AGOSTO
Ho trascorso il pomeriggio dell' oggi di quest' agosto corrente, standomene spaparanzato sul divano e guardare la TV.
Quando ho compiuto l'azione di premere “on” sul telecomando e immediatamente ho visto lo schermo accendersi (accompagnato da quel rumore che ricorda la nascita di mille minipopcorn), ho avuto modo (dopo qualche minuto) di provare una piacevole sensazione, ovvero quella di constatare che il mondo fuori è comunque (nel complesso) più idiota di me, e la cosa mi è parsa rassicurante.
Ho notato che si parla molto spesso di faccende che hanno a che fare con il malgoverno del paese. Viene spesso menzionato un individuo di bassa statura che pare abbia molti soldi e sia pure poco onesto. Pare che anche le figure che gli stanno attorno siano dei furbastri, e che pure loro si servano degli strumenti mediatici al fine di manipolare la gente. Una cosa buffa.
Sarà anche così, però la cosa che in me provoca maggiore stupore è constatare quanto chiunque (anche chi non è d'accordo con questa distopica forma di governo) in realtà sia mosso da una paura che io credo rappresenti il vero ingrediente letale in tutto il calderone: si tratta della paura di veder scomparire la democrazia.
Il fatto che continui ad esserci un governo così discusso e su cui si continuino a scrivere sopra un sacco di fumetti e telenovele (anzi sarebbe meglio dire il fatto che esista ancora questo fumetto e telenovela che è il nostro governo) è dovuto al fatto che si permetta che tutto ciò avvenga, e a tale proposito dobbiamo dire grazie a quella tanto difesa parolina che suona come“Democrazia”.
Perché chi ci governa è come se ricattasse il popolo dicendogli “ringraziate di vivere in un paese democratico” e dicendo questo può anche permettersi di eliminare ogni traccia di democrazia, senza che nessuno se ne accorga.
Ma è proprio all'interno di essa che si rende possibile ogni forma di alternanza. E' come se fossero garantite le bancarelle sopra cui esercitare il mercato.
Certo, se scomparisse formalmente la democrazia sarebbe tutto più difficile. Si tornerebbe a fare i conti con quelle cose come la guerra, che fanno perdere tanto tempo a chi voglia godersi la vita.
Il problema è che nell'attuale forma “democratica” di esistenza garantita, non ci si può permettere nemmeno di soffrire, perché la vita è sempre più simile ad un fumetto, ad una telenovela, molto spesso meno interessante... meglio sarebbe defnirla come una vita “dedicata alla visione di telenovele e cartoni animati”.
E invece no, tutti lì a difendere la democrazia, tutti li a perder tempo.
Di certo però non avevo alcuna alternativa da immaginare, considerando che di tutta questa palandrana in fondo non me ne fregava poi così tanto.
Così mentre facevo queste riflessioni, ho pensato al mio “terzo discorso sull'antiumanesimo” sul ruolo dell'intellettuale che deve limitarsi ai libri, e non deve stare lì a pensare a come migliorare il mondo, e ho deciso di tornare sul letto e leggermi “viaggio al termine della notte” di Celine, un romanzo su cui non avrei niente da scrivere (se non qualche sottolineatura alle frasi che ritengo più significative).
Luca Atzori
Quando ho compiuto l'azione di premere “on” sul telecomando e immediatamente ho visto lo schermo accendersi (accompagnato da quel rumore che ricorda la nascita di mille minipopcorn), ho avuto modo (dopo qualche minuto) di provare una piacevole sensazione, ovvero quella di constatare che il mondo fuori è comunque (nel complesso) più idiota di me, e la cosa mi è parsa rassicurante.
Ho notato che si parla molto spesso di faccende che hanno a che fare con il malgoverno del paese. Viene spesso menzionato un individuo di bassa statura che pare abbia molti soldi e sia pure poco onesto. Pare che anche le figure che gli stanno attorno siano dei furbastri, e che pure loro si servano degli strumenti mediatici al fine di manipolare la gente. Una cosa buffa.
Sarà anche così, però la cosa che in me provoca maggiore stupore è constatare quanto chiunque (anche chi non è d'accordo con questa distopica forma di governo) in realtà sia mosso da una paura che io credo rappresenti il vero ingrediente letale in tutto il calderone: si tratta della paura di veder scomparire la democrazia.
Il fatto che continui ad esserci un governo così discusso e su cui si continuino a scrivere sopra un sacco di fumetti e telenovele (anzi sarebbe meglio dire il fatto che esista ancora questo fumetto e telenovela che è il nostro governo) è dovuto al fatto che si permetta che tutto ciò avvenga, e a tale proposito dobbiamo dire grazie a quella tanto difesa parolina che suona come“Democrazia”.
Perché chi ci governa è come se ricattasse il popolo dicendogli “ringraziate di vivere in un paese democratico” e dicendo questo può anche permettersi di eliminare ogni traccia di democrazia, senza che nessuno se ne accorga.
Ma è proprio all'interno di essa che si rende possibile ogni forma di alternanza. E' come se fossero garantite le bancarelle sopra cui esercitare il mercato.
Certo, se scomparisse formalmente la democrazia sarebbe tutto più difficile. Si tornerebbe a fare i conti con quelle cose come la guerra, che fanno perdere tanto tempo a chi voglia godersi la vita.
Il problema è che nell'attuale forma “democratica” di esistenza garantita, non ci si può permettere nemmeno di soffrire, perché la vita è sempre più simile ad un fumetto, ad una telenovela, molto spesso meno interessante... meglio sarebbe defnirla come una vita “dedicata alla visione di telenovele e cartoni animati”.
E invece no, tutti lì a difendere la democrazia, tutti li a perder tempo.
Di certo però non avevo alcuna alternativa da immaginare, considerando che di tutta questa palandrana in fondo non me ne fregava poi così tanto.
Così mentre facevo queste riflessioni, ho pensato al mio “terzo discorso sull'antiumanesimo” sul ruolo dell'intellettuale che deve limitarsi ai libri, e non deve stare lì a pensare a come migliorare il mondo, e ho deciso di tornare sul letto e leggermi “viaggio al termine della notte” di Celine, un romanzo su cui non avrei niente da scrivere (se non qualche sottolineatura alle frasi che ritengo più significative).
Luca Atzori
mercoledì 11 agosto 2010
TERZO DISCORSO DELL'ANTIUMANESIMO: L'INTELLETTUALE
E' vero che usare la parola “intellettuale” è di per sé scorretto, e intellettualmente disonesto.
L' origine dell'uso di questo termine, va riscontrata nell'illuminismo, quando si pensava che fosse plausibile l'esistenza di un personaggio che avesse come mestiere quello di occuparsi di problemi sociali, politici, e che nel mentre si mettesse a scrivere romanzi o trattati.
Inventare storie di fantasia, o elaborare grandi edifici filosofici, come occuparsi di criticare le opere, o distruggere e far precipitare quelle stesse costruzioni filosofiche di cui sopra, non ha niente a che vedere con l'interessarsi di problemi che abbiano natura sociale.
L'"intellettuale vero", non solo non ha questo compito, ma semmai sa bene che non ne esiste nemmeno l'ombra di un' esigenza, da nessuna parte.
Occuparsi di politica e altre varie faccende, approcciandovisi come se fossero composte di fatti dotati di una certa realtà, è di per sé una follia. Quello che viene definito “intellettuale”, sa benissimo che quando si affrontano certi temi che abbiano in sé contenuto che si voglia dire utile, sta parlando di cose assolutamente false, narrazioni belle e buone, che a differenza della letteratura, della filosofia (quella più seria), e dell'arte in genere, crede arrogantemente di possedere una realtà concreta di base.
E' certo che invece è molto più corretto occuparsi di lettere, perché sin da principio si sa che non saranno mai nient'altro che parole, e che quindi solo attraverso l'analisi di quello strumento e della sua insita falsità si potrà sopraggiungere a un giudizio lucido (forse anche sul “mondo”, che poi bisogna capire bene ancora che cosa sia).
È come se l' “intellettuale” solo perché “conosce la grammatica” si possa occupare di alcune faccende che non sono in realtà competenza di nessuno (se non dei matti).
Questo avviene non a caso! già, perché sono gli uomini di lettere e di pensiero i maggiori esperti nelle arti della narrazione e dell'argomentazione, quindi gli unici a poter donare una vocina che sia degna di quella pretesa “serietà” richiesta in certi campi. E ma si occupano di fesserie. Come se da un giorno all'altro facessimo credere a un'intera nazione di vivere dentro il “Grande Gatsby” o i “Promessi sposi”.
La realtà in cui viviamo è evidentemente una realtà fittizia, una storia (per non parlare della Storia stessa).
Le persone invece di affidarsi a un governo, dovrebbero imparare a gestire la propria vita senza l'aiuto di nessuno (ma questo è un altro discorso).
Come è triste vedere che esistono ancora categorie di persone che dopo aver pubblicato i loro romanzi o i loro scritti filosofici vanno in parlamento a contribuire alla produzione di quell'accozzaglia di stupidaggini che gli italiani si bevono come fossero l'elisir di lunga vita.
Per non parlare di quegli “intellettuali” che scrivono articoli di cronaca nei quotidiani...
Il problema è che se tale categoria vuole sopravvivere, è LETTERALMENTE costretta a prestare servizio allo Stato aiutandolo nell'ornamento di tutte le stronzate che ne tappezzano le pareti.
Stesso discorso vale per gli artisti che di mestiere fanno i restauratori, cioè gli operai.
Certamente per quanto riguarda gli “intellettuali” è però una situazione ancora peggiore, e altamente preoccupante, in quanto si è costretti a credere di credere a una serie smodata di storie (per altro banali) che non hanno ragione d'essere, e che contribuiscono ad abbassare la qualità della vita.
Una follia, insomma.
L'intellettuale si preoccupi delle faccende concernenti la carta, che coloro che credono al mondo vero bastano a segnare la fila dei commentatori/marionette, da sempre fonte di ispirazione per tante nuove storie bellissime da narrare.
Luca Atzori
L' origine dell'uso di questo termine, va riscontrata nell'illuminismo, quando si pensava che fosse plausibile l'esistenza di un personaggio che avesse come mestiere quello di occuparsi di problemi sociali, politici, e che nel mentre si mettesse a scrivere romanzi o trattati.
Inventare storie di fantasia, o elaborare grandi edifici filosofici, come occuparsi di criticare le opere, o distruggere e far precipitare quelle stesse costruzioni filosofiche di cui sopra, non ha niente a che vedere con l'interessarsi di problemi che abbiano natura sociale.
L'"intellettuale vero", non solo non ha questo compito, ma semmai sa bene che non ne esiste nemmeno l'ombra di un' esigenza, da nessuna parte.
Occuparsi di politica e altre varie faccende, approcciandovisi come se fossero composte di fatti dotati di una certa realtà, è di per sé una follia. Quello che viene definito “intellettuale”, sa benissimo che quando si affrontano certi temi che abbiano in sé contenuto che si voglia dire utile, sta parlando di cose assolutamente false, narrazioni belle e buone, che a differenza della letteratura, della filosofia (quella più seria), e dell'arte in genere, crede arrogantemente di possedere una realtà concreta di base.
E' certo che invece è molto più corretto occuparsi di lettere, perché sin da principio si sa che non saranno mai nient'altro che parole, e che quindi solo attraverso l'analisi di quello strumento e della sua insita falsità si potrà sopraggiungere a un giudizio lucido (forse anche sul “mondo”, che poi bisogna capire bene ancora che cosa sia).
È come se l' “intellettuale” solo perché “conosce la grammatica” si possa occupare di alcune faccende che non sono in realtà competenza di nessuno (se non dei matti).
Questo avviene non a caso! già, perché sono gli uomini di lettere e di pensiero i maggiori esperti nelle arti della narrazione e dell'argomentazione, quindi gli unici a poter donare una vocina che sia degna di quella pretesa “serietà” richiesta in certi campi. E ma si occupano di fesserie. Come se da un giorno all'altro facessimo credere a un'intera nazione di vivere dentro il “Grande Gatsby” o i “Promessi sposi”.
La realtà in cui viviamo è evidentemente una realtà fittizia, una storia (per non parlare della Storia stessa).
Le persone invece di affidarsi a un governo, dovrebbero imparare a gestire la propria vita senza l'aiuto di nessuno (ma questo è un altro discorso).
Come è triste vedere che esistono ancora categorie di persone che dopo aver pubblicato i loro romanzi o i loro scritti filosofici vanno in parlamento a contribuire alla produzione di quell'accozzaglia di stupidaggini che gli italiani si bevono come fossero l'elisir di lunga vita.
Per non parlare di quegli “intellettuali” che scrivono articoli di cronaca nei quotidiani...
Il problema è che se tale categoria vuole sopravvivere, è LETTERALMENTE costretta a prestare servizio allo Stato aiutandolo nell'ornamento di tutte le stronzate che ne tappezzano le pareti.
Stesso discorso vale per gli artisti che di mestiere fanno i restauratori, cioè gli operai.
Certamente per quanto riguarda gli “intellettuali” è però una situazione ancora peggiore, e altamente preoccupante, in quanto si è costretti a credere di credere a una serie smodata di storie (per altro banali) che non hanno ragione d'essere, e che contribuiscono ad abbassare la qualità della vita.
Una follia, insomma.
L'intellettuale si preoccupi delle faccende concernenti la carta, che coloro che credono al mondo vero bastano a segnare la fila dei commentatori/marionette, da sempre fonte di ispirazione per tante nuove storie bellissime da narrare.
Luca Atzori
martedì 27 luglio 2010
LA PANCIA
La forza di gravità è il Diavolo. (E io , Blu di prussia, il suo profeta. Un po' di spazio per il mio rancore, se non vi dispiace). Ennio Flaiano.
Si dice spesso che la verità non esista. Non si considera però quanto questa affermazione preveda l'esito di un precipizio paradossale, quello di chi sostenendo l'inesistenza di verità dichiara con questo una verità assoluta.
Il punto è che di per sé parlare della verità (secondo criteri logici) è sempre un paradosso. Dire che una cosa è vera, spesso non esclude che anche il suo contrario sia tale.
Questa è una questione che riguarda tutto il repertorio delle cosiddette “cazzate” che spesso accompagnano i nostri momenti di difficoltà dove ci sembra di essere entrati dentro impasse varie.
Tutto ciò riguarda una evidente sopravvalutazione della ragione, ciò che Derrida avrebbe definito come logocentrismo.
La verità è una questione di pancia.
Noi siamo i nostri desideri, ma ahimè, siamo abituati a non prestarvi attenzione. Non siamo educati a farlo. Agiti dalle nostre emozioni, come se da esse non potessimo trarre nulla, come fossero per noi un pericolo, impauriti come davanti alle sirene del dodicesimo canto.
In fondo, nel mondo vi è pace ovunque, anche nel più enorme frastuono.
Siamo abituati ad ascoltare le vocine che ci parlano nella testa, tutte in contraddizione l'una con l'altra. Siamo come palazzi abitati da un centinaio di inquilini che non vanno mai d'accordo l'uno con l'altro, e che continuano a lamentarsi con l'amministratore di condominio che siamo poi noi stessi.
Noi siamo gli inquilini del piano terra.
La pancia ci dice quel che desideriamo, quel che è giusto per noi. Ci dice quel che ci interessa, ci dice che cosa ci fa star bene o male. La pancia ci parla con le emozioni, e queste sono i nostri giudici assoluti.
Molto spesso siamo costretti addirittura a divertirci. Entrare nel suolo di possibilità assegnate, e tutte in contrasto con quello che la pancia grida dietro al bavaglio.
Certo, la vita è una cosa molto più semplice. Basta capire che ciascuno di noi lascia manifestare da sé la verità con la dichiarazione dei propri desideri.
Non tiratemi in ballo le verità scientifiche, per favore: nel regno della ragione esistono solo le ipotesi, e son sempre rigorosamente vere.
Già, e quando si voglia affrontare un discorso che accenda una lanterna sopra il desiderio, finire con un “non so, discorso complesso”, quando in realtà il problema è che spesso basterebbero due, tre, una sola parola.
Se le verità logiche sono di troppo, la verità ha da essere essere usa e getta, per essere vera.
Luca Atzori
Si dice spesso che la verità non esista. Non si considera però quanto questa affermazione preveda l'esito di un precipizio paradossale, quello di chi sostenendo l'inesistenza di verità dichiara con questo una verità assoluta.
Il punto è che di per sé parlare della verità (secondo criteri logici) è sempre un paradosso. Dire che una cosa è vera, spesso non esclude che anche il suo contrario sia tale.
Questa è una questione che riguarda tutto il repertorio delle cosiddette “cazzate” che spesso accompagnano i nostri momenti di difficoltà dove ci sembra di essere entrati dentro impasse varie.
Tutto ciò riguarda una evidente sopravvalutazione della ragione, ciò che Derrida avrebbe definito come logocentrismo.
La verità è una questione di pancia.
Noi siamo i nostri desideri, ma ahimè, siamo abituati a non prestarvi attenzione. Non siamo educati a farlo. Agiti dalle nostre emozioni, come se da esse non potessimo trarre nulla, come fossero per noi un pericolo, impauriti come davanti alle sirene del dodicesimo canto.
In fondo, nel mondo vi è pace ovunque, anche nel più enorme frastuono.
Siamo abituati ad ascoltare le vocine che ci parlano nella testa, tutte in contraddizione l'una con l'altra. Siamo come palazzi abitati da un centinaio di inquilini che non vanno mai d'accordo l'uno con l'altro, e che continuano a lamentarsi con l'amministratore di condominio che siamo poi noi stessi.
Noi siamo gli inquilini del piano terra.
La pancia ci dice quel che desideriamo, quel che è giusto per noi. Ci dice quel che ci interessa, ci dice che cosa ci fa star bene o male. La pancia ci parla con le emozioni, e queste sono i nostri giudici assoluti.
Molto spesso siamo costretti addirittura a divertirci. Entrare nel suolo di possibilità assegnate, e tutte in contrasto con quello che la pancia grida dietro al bavaglio.
Certo, la vita è una cosa molto più semplice. Basta capire che ciascuno di noi lascia manifestare da sé la verità con la dichiarazione dei propri desideri.
Non tiratemi in ballo le verità scientifiche, per favore: nel regno della ragione esistono solo le ipotesi, e son sempre rigorosamente vere.
Già, e quando si voglia affrontare un discorso che accenda una lanterna sopra il desiderio, finire con un “non so, discorso complesso”, quando in realtà il problema è che spesso basterebbero due, tre, una sola parola.
Se le verità logiche sono di troppo, la verità ha da essere essere usa e getta, per essere vera.
Luca Atzori
mercoledì 14 luglio 2010
L'ARTE DI SOGNARE
Il ventisette giugno si è tenuta, presso l'Alcatraz murazzi, una rassegna organizzata dall'associazione culturale Torino Teatro di Alan Mauro Vai, presentata come L'Arte di Sognare.
Più precisamente si è trattato di una festa avvenuta in onore della neonata compagnia Eidos Teatro che raccoglie artisti di ogni genere: da autori a attori, musicisti, pittori, fotografi, editori etc.
Il leitmotiv dell'evento è stato senza dubbio (come si può facilmente intuire) quello del sogno inteso in ogni sua accezione (desiderio, vita onirica etc). Si può dire che tutto l'evento abbia utilizzato questo tema come una finestra aperta per illuminare la realtà di una sera.
Tutto ha avuto inizio con una mostra dove sono state esposte le opere della scenografa Delia Colanino, la stilista Samanta Lai, l'artista Babalushi e il fotografo che si fa chiamare Musicante Alchemico. Sia Delia Colanino che Musicante Alchemico hanno partecipato (ciascuno secondo le proprie competenze) alla realizzazione dello spettacolo Modestia a Parte, scritto da me, diretto da Alan Mauro Vai e recitato da Ilaria Aseglio Gianinet, avvenuto dopo (e seguito da) altri diversi spettacoli e performance che sono stati:
la presentazione della Casa Editrice Eris, la presentazione del testo di Cheik Ngoma Bayefall Il Silenzio degli Dei, lo spettacolo Mac Beck di Alan realizzato con gli allievi di uno dei numerosi laboratori che svolge a Torino, lo spettacolo Marco Fratta Reading Project di Marco Fratta con letture a cura di Vincenzo Di Federico e Alan, la performance di decorazione fluo di abiti dal vivo di Samanta Lai e seguito dallo spettacolo di Giulia Donelli “Non è come sembra” con Cristina Costigliola e I viaggi del mulo di CJ Emulo.
La spontaneità con cui è avvenuta la collaborazione ha certamente accresciuto e reso vivida quella necessità comunitaria che in maniera sempre più urgente si avverte nella nostra realtà artistica nazionale.
Si dice che per gli artisti sia un periodo sfavorevole (non si sa bene se sia esistito un tempo in cui la situazione fosse andata diversamente) così invece di annegare nelle solite lamentele si è pensato di dare voce proprio e in particolare a quei sogni e desideri che son stati raggruppati insieme all'aiuto di menti e vite diverse in un'esperienza di gruppo .
L' evento ha ruotato certamente intorno al tessuto della serata stessa, avvenuta (pare non a caso) in un locale notturno. Diversi spettacoli, mostre e performance, sono riusciti a riunire le persone in un vero e proprio rito dove lo svago ha acquistato un senso vero e proprio.
Ci si trova spesso a vagare per locali senza sapere perché ci si sia finiti, così che si rischia abitualmente di cadere in routinarie ubriachezze e si va a far sbandare le proprie motivazioni verso non si sa dove, a meno che non ci sia un concerto o un altro tipo di evento che giustifichi lo spostamento.
In questo caso si è voluto raccogliere le persone e fare in modo che una serata potesse far fare loro qualcosa che potersi raccontare.
Invece di costringerci a fingere, mascherarci e mostrare di noi stessi un volto che spesso ci costringiamo a vestire, abbiamo voluto far parlare la nostra vita stessa, i nostri talenti, si è cercato di far parlare il nostro passato per fargli dire ad alta voce quale sarà il futuro che preferirà incontrare. Per questo è avvenuto tutto ciò. Il titolo tratto da un libro di Carlos Castaneda intitolato appunto L'arte di sognare, dove si raccontava di un'esperienza vissuta dallo stesso scrittore avente come centro l'iniziazione sciamanica. Il teatro è in effetti una forma di sciamanesimo. Prima di tutto è terapia, messa in mostra di quel che normalmente siamo costretti a nascondere dando voce ciascuno al proprio demone.
Se qualcuno ritiene che il teatro sia una forma d'arte imbalsamata, posso ritenere che di certo non si possa dire lo stesso per quel che riguarda quel rito che è l'incontrarsi, mettersi attorno a un fuoco e raccontarsi delle storie.
Luca Atzori
domenica 4 luglio 2010
LE EMOZIONI A CARO PREZZO
« L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. »
Italo Calvino
Quegli stati d'animo che vengono comunemente definiti come angoscia, depressione, disperazione etc, sono in realtà nientemeno che lussi.
Siamo comunemente abituati a pensare che qualora ci si trovi di fronte alla minaccia di un'emozione che riteniamo essere impossibile da gestire, si debba cercare rimedio nella soppressione di quello stato d'animo attraverso le narcosi, le consulenze psicologiche con un seguito di prescrizione farmacologica, o nel caso in cui ciò non avvenga, trovarsi sbattuti sul proprio letto a contemplare il soffitto, emanando gemiti primordiali, o degenerando in altri svariati comportamenti bizzarri (spesso miranti all'autodistruzione, con allegata consolazione).
Spesso non siamo in grado di sostenere nemmeno i rapporti di coppia per questo preciso motivo, ovvero perché troppe emozioni si stanno per affacciare, cosìcché le si deve soffocare il prima possibile precipitando in dinamiche di prevaricazione dell'uno sull'altro, in una gara a chi vince il trofeo del “non sofferente”.
Qualcuno ci ha detto (e non si ricorda mai chi e quando) che lo stare da soli è una faccenda terrorizzante.
Si ha paura di un “problema”, e piuttosto che affrontarlo si decide di tapparlo, dimenticarsene.
Quell'ectoplasma che abbiamo chiamato "problema", invece , è proprio la sorgente di quella serie di riflessioni che dovrebbero portare il nostro stesso sistema emotivo a circolare per giungere (attenzione) non all'incontro di una risposta, (la quale di per sé è proprio ciò da cui si dovrebbe invece fuggire) ma piuttosto alla fabbricazione costante di interrogativi.
Queste emozioni (che non a caso ho voluto definire come lussi) costano troppo, e non lo intendo in senso lato.
Siamo abituati a dovere avere il controllo su mille faccende che risultano servirci principalmente per arrivare vivi alla fine del mese. Nel caso in cui questo eccesso di “sensi” dovesse presentarsi, bisognerà rimediarvi immediatamente, per fuggire al rischio di "APPARIRE" come un disgraziato.
Accade che questi problemi vengano celati spesso nei rapporti interpersonali, dove ci si trova costretti a mostrare di sé quel fantoccio che abbiamo disegnato e che ci permette una sicura uscita da quel grande scoglio che è il GIUDIZIO.
Per non parlare poi di quella favola che ci raccontiamo prima di andare a dormire, che dice pressapoco così: sono gli altri ad essere cattivi, io sono vittima del cinismo etc etc.
Già, e così ci si siede beatamente sulla poltrona della propria infelicità. Una poltrona che non ci rendiamo conto, ma lentamente ci porta a sprofondare in un processo che ha un solo nome: la degenerazione.
E poi ci si convince che siano milioni di licenziosità a donarci quella gioia che cercavamo. Una nottata trascorsa ad annegare nell'alcool, o fare sesso con sconosciuti dentro il bagno del primo locale tappezzato dei ritmi tribali di quel divertissement che ha raccattato noi (e non viceversa), per poi il giorno svegliarsi con il mal di testa, il senso di colpa, e via dicendo.
Questo risulta essere uno dei modelli di vita del vivere “figo” nella nostra attuale atmosfera di affascinantissima decadenza e barbarie.
Affrontare la tua paura? Ma se non se ne ha nemmeno il tempo!
Anzi, il tempo? si perda. Ci si perda!
Spesso non si accetta che quel problema stesso esista. Perché nel famigerato gruppo, non si può pensare di inseririsi con questo fardello addosso, ma si deve piuttosto recitare alla maniera di Diderot (vedere il paradosso dell'attore).
Convinti di essere quel che appariamo a noi stessi. Convinti di essere il proprio io.
La radice di questo problema va certamente assegnata a una struttura economica. Anche se bisogna prestare attenzione al fatto che sono le nostre mani a fare l'economia, e non i nostri sogni.
Tutto è precario, assaggiato, e mai (anzi guai) vissuto fino in fondo.
È vietato vivere troppo, e per ciò stesso, di conseguenza, soffrire.
Che fare?
Forse unire quei due grandi lussi che sono la testa e il cuore per prendersi un po' di spazio? Massacrare se stessi con infinito amore?
Farsi il culo? Alzare le tapparelle?
Andare a sbandare contro la morte, implorando di vivere?
? ? ? ? ?
Luca Atzori
Italo Calvino
Quegli stati d'animo che vengono comunemente definiti come angoscia, depressione, disperazione etc, sono in realtà nientemeno che lussi.
Siamo comunemente abituati a pensare che qualora ci si trovi di fronte alla minaccia di un'emozione che riteniamo essere impossibile da gestire, si debba cercare rimedio nella soppressione di quello stato d'animo attraverso le narcosi, le consulenze psicologiche con un seguito di prescrizione farmacologica, o nel caso in cui ciò non avvenga, trovarsi sbattuti sul proprio letto a contemplare il soffitto, emanando gemiti primordiali, o degenerando in altri svariati comportamenti bizzarri (spesso miranti all'autodistruzione, con allegata consolazione).
Spesso non siamo in grado di sostenere nemmeno i rapporti di coppia per questo preciso motivo, ovvero perché troppe emozioni si stanno per affacciare, cosìcché le si deve soffocare il prima possibile precipitando in dinamiche di prevaricazione dell'uno sull'altro, in una gara a chi vince il trofeo del “non sofferente”.
Qualcuno ci ha detto (e non si ricorda mai chi e quando) che lo stare da soli è una faccenda terrorizzante.
Si ha paura di un “problema”, e piuttosto che affrontarlo si decide di tapparlo, dimenticarsene.
Quell'ectoplasma che abbiamo chiamato "problema", invece , è proprio la sorgente di quella serie di riflessioni che dovrebbero portare il nostro stesso sistema emotivo a circolare per giungere (attenzione) non all'incontro di una risposta, (la quale di per sé è proprio ciò da cui si dovrebbe invece fuggire) ma piuttosto alla fabbricazione costante di interrogativi.
Queste emozioni (che non a caso ho voluto definire come lussi) costano troppo, e non lo intendo in senso lato.
Siamo abituati a dovere avere il controllo su mille faccende che risultano servirci principalmente per arrivare vivi alla fine del mese. Nel caso in cui questo eccesso di “sensi” dovesse presentarsi, bisognerà rimediarvi immediatamente, per fuggire al rischio di "APPARIRE" come un disgraziato.
Accade che questi problemi vengano celati spesso nei rapporti interpersonali, dove ci si trova costretti a mostrare di sé quel fantoccio che abbiamo disegnato e che ci permette una sicura uscita da quel grande scoglio che è il GIUDIZIO.
Per non parlare poi di quella favola che ci raccontiamo prima di andare a dormire, che dice pressapoco così: sono gli altri ad essere cattivi, io sono vittima del cinismo etc etc.
Già, e così ci si siede beatamente sulla poltrona della propria infelicità. Una poltrona che non ci rendiamo conto, ma lentamente ci porta a sprofondare in un processo che ha un solo nome: la degenerazione.
E poi ci si convince che siano milioni di licenziosità a donarci quella gioia che cercavamo. Una nottata trascorsa ad annegare nell'alcool, o fare sesso con sconosciuti dentro il bagno del primo locale tappezzato dei ritmi tribali di quel divertissement che ha raccattato noi (e non viceversa), per poi il giorno svegliarsi con il mal di testa, il senso di colpa, e via dicendo.
Questo risulta essere uno dei modelli di vita del vivere “figo” nella nostra attuale atmosfera di affascinantissima decadenza e barbarie.
Affrontare la tua paura? Ma se non se ne ha nemmeno il tempo!
Anzi, il tempo? si perda. Ci si perda!
Spesso non si accetta che quel problema stesso esista. Perché nel famigerato gruppo, non si può pensare di inseririsi con questo fardello addosso, ma si deve piuttosto recitare alla maniera di Diderot (vedere il paradosso dell'attore).
Convinti di essere quel che appariamo a noi stessi. Convinti di essere il proprio io.
La radice di questo problema va certamente assegnata a una struttura economica. Anche se bisogna prestare attenzione al fatto che sono le nostre mani a fare l'economia, e non i nostri sogni.
Tutto è precario, assaggiato, e mai (anzi guai) vissuto fino in fondo.
È vietato vivere troppo, e per ciò stesso, di conseguenza, soffrire.
Che fare?
Forse unire quei due grandi lussi che sono la testa e il cuore per prendersi un po' di spazio? Massacrare se stessi con infinito amore?
Farsi il culo? Alzare le tapparelle?
Andare a sbandare contro la morte, implorando di vivere?
? ? ? ? ?
Luca Atzori
lunedì 21 giugno 2010
NESSUNO
“Nessuno ci impasta più di terra e argilla
nessuno alita sulla nostra polvere.
Nessuno.
Lodato sii tu, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire.
Incontro
a te.
Un nulla eravamo, siamo, rimarremo, fiorendo:
la rosa di
Nulla, di Nessuno...”
Questo è l'inizio di una poesia di Celan che porta come titolo “Salmo”. Una vera e propria preghiera.
Voce della religiosità più atea di chi arriva a rivolgersi a Nessuno.
La zona dove incontriamo Dio è quella della trascendenza, intesa come la pura forma di oggettivazione, distinzione, separatezza, ineluttabile scoglio di ogni atto conoscitivo.
Le parole e nient'altro. Il sacro è perciò immanente, come ciò che resta, inutile e vivo.
Di ciò che è immanente non si parla.
Quel Nessuno (importante la maiuscola) che viene nominato, è proprio il modo in cui disperatamente si chiama l'ignoto, che non siamo mai noi a trovare, ma che viene incontro a noi stessi chiamandoci in limine, facendosi vivo come inframezzo.
Noi (non) siamo nessuno, e incontro a quel nessuno, fioriamo.
Nati senza nome, (dove) niente ha nome, (dove) finiamo senza nome.
Preghiera atea, anche se fare uso di questa parola è di per sé sbagliato, perché ciò che viene a mancare non è il concetto di Dio, ma piuttosto bisogna considerare che ciò che resta in realtà sono solo le stesse parole, nel paradosso di cui è impossibile dare definizione.
Distanti dalla parola che implode in se stessa, manifestatasi come compiuta, mostrante solo se stessa, e dunque donante voce a quel Nessuno che è inascoltabile, inconoscibile, indicibile (seppure venga paradossalmente nominato).
Il “nulla” è tutta la sovrabbondanza di questo mondo.
L'essere umano è un lusso di cui la terra può fare a meno.
Luca Atzori
nessuno alita sulla nostra polvere.
Nessuno.
Lodato sii tu, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire.
Incontro
a te.
Un nulla eravamo, siamo, rimarremo, fiorendo:
la rosa di
Nulla, di Nessuno...”
Questo è l'inizio di una poesia di Celan che porta come titolo “Salmo”. Una vera e propria preghiera.
Voce della religiosità più atea di chi arriva a rivolgersi a Nessuno.
La zona dove incontriamo Dio è quella della trascendenza, intesa come la pura forma di oggettivazione, distinzione, separatezza, ineluttabile scoglio di ogni atto conoscitivo.
Le parole e nient'altro. Il sacro è perciò immanente, come ciò che resta, inutile e vivo.
Di ciò che è immanente non si parla.
Quel Nessuno (importante la maiuscola) che viene nominato, è proprio il modo in cui disperatamente si chiama l'ignoto, che non siamo mai noi a trovare, ma che viene incontro a noi stessi chiamandoci in limine, facendosi vivo come inframezzo.
Noi (non) siamo nessuno, e incontro a quel nessuno, fioriamo.
Nati senza nome, (dove) niente ha nome, (dove) finiamo senza nome.
Preghiera atea, anche se fare uso di questa parola è di per sé sbagliato, perché ciò che viene a mancare non è il concetto di Dio, ma piuttosto bisogna considerare che ciò che resta in realtà sono solo le stesse parole, nel paradosso di cui è impossibile dare definizione.
Distanti dalla parola che implode in se stessa, manifestatasi come compiuta, mostrante solo se stessa, e dunque donante voce a quel Nessuno che è inascoltabile, inconoscibile, indicibile (seppure venga paradossalmente nominato).
Il “nulla” è tutta la sovrabbondanza di questo mondo.
L'essere umano è un lusso di cui la terra può fare a meno.
Luca Atzori
giovedì 17 giugno 2010
IL TORTO
Subire un torto è possibile solo in quanto alla vittima vengono a mancare le parole. Ad esempio qualsiasi persona si trovi “costretta” a fare un lavoro che lo getti nella condizione di sfruttato, conduce la stessa vita ignobile per quaranta, cinquant' anni, e avrebbe certamente molte cose da dire, ma non sa dirle nemmeno a se stesso, così indossa facilmente l'abito dello schiavo, trascinandosi in un'esistenza del tutto sprecata (avente come fine quel porto chiamato pensione).
In questo gioco entra in ballo la violenza operata dalla cosiddetta ragione, che di per sé resta inconsapevole anche per il carnefice che la detiene, il quale da per assodato che quella sia la Sua ragione.
Quello che noi pensiamo come sfruttamento, può non esserlo affatto per lo sfruttato, che invece si sente assai soddisfatto di portare a casa la sua “pagnotta”, e gli basta e avanza.
Parlando di violenza noi ci mettiamo automaticamente dalla parte del carnefice, perché usiamo il suo stesso linguaggio.
Chi sta subendo un torto spesso (quasi) non lo sa. Non sa di subire quello che per un'altra persona sarebbe invece tale. Questa è la natura del torto, esserlo per qualcuno e non per qualcun' altro.
Ma è anche vero che il torto ha inizio dal momento in cui il progetto del servo viene interrotto.
Come si può pensare ad uscire da un simile labirinto?
Si è soliti parlare di emancipazione, di diritti dei lavoratori, come fosse un canto che si perde fra le pareti di un cielo totalmente vuoto, senza alcun orecchio che possa prestare ascolto.
Si è soliti parlare di sfruttamento e ingiustizia usando parole d'altri.
Il torto è anche subito nella quotidianità più apparentemente banale. Il gesto teppistico a scuola di chi ti minaccia, o di chi ti ruba la fidanzata e via dicendo.
Quello che viene a mancare sono sempre le parole.
Essere senza parole.
Subire un torto però (cioè acquistarne coscienza), significa ricevere al contempo un dono. Il dono dell'estromissione dal campo della ragione. Il dono dell'esclusione, dell'essersi sentiti dire: “tu non ne fai più parte”.
Il dono è una forma di violenza sottilissima, perché consiste nell'uscire fuori dal campo della domanda. Non esiste più un chiedere, esiste un dare (che in questo caso si manifesta con un privare). Sia nel caso del dare che nel caso del togliere si è creditori. Nel primo caso bisogna che qualcosa torni in cambio, senza che lo si sia chiesto, nell'altro si costringe la vittima a farsi portare fuori dal proprio luogo di senso, farsi fare cioè lo stesso dono, abolendo il torto. Farsi Per-donare.
Da qui la negatività totale, unica soluzione.
Siamo ancora troppo legati a un concetto di comunità che prevede l'esistenza di Io (Noi) distinti, i quali si relazionano l'un con l'altro come se davvero fossero una molteplicità inserita in un senso e non in un assurdo.
Siamo ancora troppo all' "opera".
La comunità invece che ci mostra la nostra finitezza, fuori dall'io, nell'incontro quel paradosso che è la stessa ragione, di cui poter ridere con la cognizione che trova inizio nella propria morte e quindi nella perdita, quella da cui si era partiti. La comunità si incontra in ciò che resta scritto, come lapide senza luogo. Zona dei senza zona.
Dove si trova questa comunità? Dove finiscono le risposte e iniziano le domande.
Luca Atzori
In questo gioco entra in ballo la violenza operata dalla cosiddetta ragione, che di per sé resta inconsapevole anche per il carnefice che la detiene, il quale da per assodato che quella sia la Sua ragione.
Quello che noi pensiamo come sfruttamento, può non esserlo affatto per lo sfruttato, che invece si sente assai soddisfatto di portare a casa la sua “pagnotta”, e gli basta e avanza.
Parlando di violenza noi ci mettiamo automaticamente dalla parte del carnefice, perché usiamo il suo stesso linguaggio.
Chi sta subendo un torto spesso (quasi) non lo sa. Non sa di subire quello che per un'altra persona sarebbe invece tale. Questa è la natura del torto, esserlo per qualcuno e non per qualcun' altro.
Ma è anche vero che il torto ha inizio dal momento in cui il progetto del servo viene interrotto.
Come si può pensare ad uscire da un simile labirinto?
Si è soliti parlare di emancipazione, di diritti dei lavoratori, come fosse un canto che si perde fra le pareti di un cielo totalmente vuoto, senza alcun orecchio che possa prestare ascolto.
Si è soliti parlare di sfruttamento e ingiustizia usando parole d'altri.
Il torto è anche subito nella quotidianità più apparentemente banale. Il gesto teppistico a scuola di chi ti minaccia, o di chi ti ruba la fidanzata e via dicendo.
Quello che viene a mancare sono sempre le parole.
Essere senza parole.
Subire un torto però (cioè acquistarne coscienza), significa ricevere al contempo un dono. Il dono dell'estromissione dal campo della ragione. Il dono dell'esclusione, dell'essersi sentiti dire: “tu non ne fai più parte”.
Il dono è una forma di violenza sottilissima, perché consiste nell'uscire fuori dal campo della domanda. Non esiste più un chiedere, esiste un dare (che in questo caso si manifesta con un privare). Sia nel caso del dare che nel caso del togliere si è creditori. Nel primo caso bisogna che qualcosa torni in cambio, senza che lo si sia chiesto, nell'altro si costringe la vittima a farsi portare fuori dal proprio luogo di senso, farsi fare cioè lo stesso dono, abolendo il torto. Farsi Per-donare.
Da qui la negatività totale, unica soluzione.
Siamo ancora troppo legati a un concetto di comunità che prevede l'esistenza di Io (Noi) distinti, i quali si relazionano l'un con l'altro come se davvero fossero una molteplicità inserita in un senso e non in un assurdo.
Siamo ancora troppo all' "opera".
La comunità invece che ci mostra la nostra finitezza, fuori dall'io, nell'incontro quel paradosso che è la stessa ragione, di cui poter ridere con la cognizione che trova inizio nella propria morte e quindi nella perdita, quella da cui si era partiti. La comunità si incontra in ciò che resta scritto, come lapide senza luogo. Zona dei senza zona.
Dove si trova questa comunità? Dove finiscono le risposte e iniziano le domande.
Luca Atzori
sabato 5 giugno 2010
INTERVISTA A GIANNI CULATORIA
Di Luca Atzori
Questa è un' intervista che feci all’autore de Il Pozzo e lo Specchio, Gianni Culatoria, l’anno scorso, non appena l’opera nasceva.
L.Il pozzo e lo specchio: potrebbe spiegarci più precisamente il perché di questo titolo?
G Più precisamente non c'è da dire alcunché, ma piuttosto (più semplicemente) è il nome che io dono a quest’opera, la quale di per sé non ha alcun significato specifico, ma che ha semmai un valore che di certo non risiede ne nella carta e ne tantomeno nelle lettere o nei versi. Il valore di quest’opera risiede nel fatto stesso che esista. La sua quidditas, potremmo definirla.
L. Vuole intendere una sorta di macchina autopoietica nel senso in cui potrebbero essere intese opere d’arte come il grande vetro di Duchamp e affini, negli studi svolti da Varela e Maturana?
G, No non intendo questo, o perlomeno il mio interesse non era affatto quello di scrivere un’opera poetica che avesse “funzione autopoietica”, come lei ha voluto definirla. No, io ho voluto scrivere quest’opera perché in essa venisse rinchiuso finalmente un nuovo mito.
L. E’ possibile pensare a nuovi miti? I miti dovrebbero essere visti come qualcosa di eterno.
G. Ciò non esclude che fra questi ce ne possano essere anche di nuovi. C’è da considerare che il mito inizia nel momento in cui si racconta. Che poi la sua morphé sia eterna quello è un altro discorso.
L. Non sono affatto d'accordo. In ogni caso, qual è il mito di cui lei tratta?
G. Il mito dello specchio e del pozzo. Un pazzo andava in una stanza di specchi con uno speculum in mano (notare il giochino di parole) cercando di sentire i battiti cardiaci che provenivano dai riflessi sulle pareti. Ovviamente non sentiva mai nulla. Lo stupore maggiore gli viene quando si rende conto che nemmeno il suo cuore batte più. E da lì comincia a riflettersi in lui il pozzo che sta in mezzo alla stanza dentro il quale affonda, nel fondo del quale la sua coscienza precipitata risiede. Una volta uscito ritornerà sempre nella stanza degli specchi, ma consapevole e gioioso, tornerà fra gli specchi delle pareti a rimirarli mutando la realtà stessa grazie al grande dono riconquistato, ovvero quello dell’autocoscienza
L. Qual è il senso di questo racconto?
G. Questo racconto non ha un senso specifico. È l’allegoria vivente di un’esistenza.
L. Quella dell’autore?
G. Quella del poeta, più precisamente. L’autore è colui che narra, ma esiste solo più nel testo. Chi esiste nella vita è il poeta.
L. Anche se il mestiere di poeta non si può dire certo che esista al giorno d’oggi.
G. Non esiste perché non è mai esistito. Quello del poeta non è un mestiere, ma bensì un carattere, come la timidezza, l’estroversione, la melanconia etc. Lungi da me avere un mestiere, sono troppo buono per permettermelo. Mi è troppo stretto l'inferno.
L. Ma è anche un’abilità.
G. Appunto. Chi è poeta lo è perché quello è il suo carattere. Il carattere di una persona la cui vita sfiora qualsiasi evento. L’abilità sta tutta nella peculiarità di non dire mai nulla di definitivo, di chi dunque si trova costretto a usare un linguaggio differente da quello comunemente adoperato. Il poeta è fatto di linguaggio, è questo il suo carattere. Sono rari da trovare i poeti, questo è vero, ma semplicemente perché non è un carattere diffuso.
L. Il poeta è fatto di linguaggio.
G. Il poeta è impoetico. Il poeta di certo porta un altro luogo nei luoghi, e non solo, il poeta è sempre in un altro luogo rispetto ai luoghi. Il poeta proprio perché è l’esistenza stessa incarnata, non può che apparire e comunicare come fa. Il luogo del poeta è il vero luogo, il quale è sempre un non luogo, perché non è possibile mai essere posati su alcunché.
L. Esistenza incarnata?
G. Esatto.
L.Heideggeriano?
G. Non direi. Piuttosto preferirei dire che sono in attesa di una rinascita a livello totale. Che gli uomini siano individui e contemporaneamente veri centri di forza. Ma qui non vorrei giungere a parlare del sacro, ne tantomeno vorrei riabbracciare Leibniz e la monadologia. Io non voglio interessarmi al sacro, ne tantomeno all’uomo o alla verità.
L. Che cosa dunque suscita il suo interesse?
G. La donna, esclusivamente la donna. Quel che la donna non riuscirà mai a dire di se stessa.
L. Risposta alquanto bizzarra.
G. E possibilmente mi interessano anche le piazze pulite.
L. Forse lei si riferisce al tono lievemente scabroso di certi suoi versi.
G. Io ho detto che mi interessa la donna. Quindi si, esattamente come lei ha detto. E adesso per favore basta.
L. La ringrazio profondamente.
G. Il piacere è stato tutto mio, solo mio.
giovedì 3 giugno 2010
MATTEO CASTELLANO E PROVINCIA L'ho incontrato a casa sua e gli ho fatto alcune domande
di Luca Atzori
Pare che solo recentemente sia riuscita a metter testa sotto il sole una certa realtà che comprende diversi cantautori torinesi, i quali sarebbero presenti sulla scena da diversi anni. Spesso collaborano l'un con l'altro, omaggiandosi a vicenda. I musicisti che accompagnano gli uni suonano anche con gli altri, e può capitare di assistere ai loro concerti insieme nella stessa serata.
Insomma si tratta di una vera e propria collaborazione, perfettamente libera e soprattutto nata per la strada, generata dall'amicizia.
Uno di loro è Matteo Castellano, ventottenne, attivo da quattro anni. Ha realizzato un album (autoprodotto) nel 2005, dal titolo "Funghi Velenosi".
Matteo porta con sé l'esperienza di diversi concerti svolti nell'area del Piemonte e non solo. Chi l'ha visto esibirsi ha inevitabilmente dovuto afferrare la sua figura giullaresca accompagnata per contrasto da un' atmosfera carica di una certa amarezza. Ogni qual volta capiti di trovarsi a un concerto di Castellano si pregusta un qualcosa che sta a metà fra il cabaret e il cantautorato più pregiato.
I testi sono sempre molto incisivi e carichi di ironia anche se al contempo contengono spesso malinconiche allusioni al passato o provocazioni rivolte alla realtà sociale.
Per esempio il romanticismo di Una Zitella al Neon, o La canzone del vento ispirata al testo biblico Ecclesiaste, poi tutti i suoi sketch della serie Ciao mi chiamo Joe o La macchina del capo etc.
Nel 2009 ha partecipato al premio Tenco ed è arrivato finalista al concorso “Buscaglione” tenutosi al Teatro Vittoria.
Ha suonato in locali come l'Hiroshima, il Nuvolari, il Folk club, e altri numerosissimi locali.
Al 22 maggio risale il suo ultimo concerto, svoltosi al Kalakuta di Monasterolo di Savigliano (CN), insieme al gruppo spalla Sans Papier di cui uno dei membri è padrone del locale.
Attualmente Matteo sta lavorando ad un nuovo album che vorrebbe fare uscire l'anno prossimo e di cui giustamente non vuole ancora dirci nulla.
L'ho incontrato (a proposito) a casa sua e gli ho fatto alcune domande...
Ciao Matteo. Innanzitutto, mi viene da chiederti: com'è che hai deciso di fare il cantautore?
Avevo un lavoro come tecnico di teatro, poi mi sono successi un paio di concerti e ho provato. In seguito ho iniziato a suonare per strada.
Come mai questa scelta di suonare per strada?
La strada ti rende libero e non ti lega ad un discorso di dipendenza lavorativa.
Quali sono le tue influenze?
Bob Dylan prima di tutto. Sono attratto dai cantanti popolari. Questo è indice di un mio certo conformismo, sono suscettibile al mito del comandante, al capo popolo, la leggenda, e significa che provo anche simpatia per tutto ciò che è popolare, e dunque ambisco che le mie canzoni arrivino al cuore di ogni persona Mi piacciono Cabron de la Isla, Ruben Blades, Jean Louis Guerra, Vasco Rossi.
C'è molta musica latina anche nelle tue influenze.
Siamo colonizzati musicalmente dai paesi anglofoni. Noi siamo però molto più simili ad uno spagnolo che non ad un inglese, quindi ho citato questi cantanti perché me li sento più vicini al cuore. E poi preferisco il ritmo latino che non il rock and roll.
È una cosa dovuta a una tua ricerca questa presenza di teatralità e cabaret che contraddistingue i tuoi concerti?
È un demone che conosco fin dall'infanzia. Una forza che prende il mio carattere meditativo e perso fra le nuvole per trasformarlo in giullare. Non c'è una ricerca, ma una maschera che ho assunto e sviluppato fin dall'infanzia. Da piccolo ero così imbranato che lentamente ho posto attenzione ad ogni mio movimento, costruendomi una maschera che oggi è diventata parte di me.
Più che una ricerca, dunque, una terapia.
Sì. Però bisogna andare oltre le maschere. Uso la teatralità per comunicare meglio. Suonare mi ha insegnato un sacco di cose da un punto di vista psicologico. Credo si possa dire che io non faccia ne musica ne teatro, ma una via di mezzo, dove una cosa supplisce alla mancanza dell'altra.
Da poco hai iniziato a collaborare con una band.
Da un anno è partito il progetto Matteo Castellano e Provincia, band che ha trovato il suo equilibrio e un gruppo di lavoro. È passata attraverso mutamenti e ad essi è aperta. La formazione attuale è composta da Bozzi alla chitarra e arrangiamenti, Nicolò Bosio fisarmonica, sintetizzatore e fonica, Vito Micolis percussioni latine e Cajon, Giuseppe Leone percussioni del sud italia, Enzo (Forever) Mesiti al basso, Einrich Vogel arrangiamenti psicomagici e cibernetici.
Pare che solo recentemente sia riuscita a metter testa sotto il sole una certa realtà che comprende diversi cantautori torinesi, i quali sarebbero presenti sulla scena da diversi anni. Spesso collaborano l'un con l'altro, omaggiandosi a vicenda. I musicisti che accompagnano gli uni suonano anche con gli altri, e può capitare di assistere ai loro concerti insieme nella stessa serata.
Insomma si tratta di una vera e propria collaborazione, perfettamente libera e soprattutto nata per la strada, generata dall'amicizia.
Uno di loro è Matteo Castellano, ventottenne, attivo da quattro anni. Ha realizzato un album (autoprodotto) nel 2005, dal titolo "Funghi Velenosi".
Matteo porta con sé l'esperienza di diversi concerti svolti nell'area del Piemonte e non solo. Chi l'ha visto esibirsi ha inevitabilmente dovuto afferrare la sua figura giullaresca accompagnata per contrasto da un' atmosfera carica di una certa amarezza. Ogni qual volta capiti di trovarsi a un concerto di Castellano si pregusta un qualcosa che sta a metà fra il cabaret e il cantautorato più pregiato.
I testi sono sempre molto incisivi e carichi di ironia anche se al contempo contengono spesso malinconiche allusioni al passato o provocazioni rivolte alla realtà sociale.
Per esempio il romanticismo di Una Zitella al Neon, o La canzone del vento ispirata al testo biblico Ecclesiaste, poi tutti i suoi sketch della serie Ciao mi chiamo Joe o La macchina del capo etc.
Nel 2009 ha partecipato al premio Tenco ed è arrivato finalista al concorso “Buscaglione” tenutosi al Teatro Vittoria.
Ha suonato in locali come l'Hiroshima, il Nuvolari, il Folk club, e altri numerosissimi locali.
Al 22 maggio risale il suo ultimo concerto, svoltosi al Kalakuta di Monasterolo di Savigliano (CN), insieme al gruppo spalla Sans Papier di cui uno dei membri è padrone del locale.
Attualmente Matteo sta lavorando ad un nuovo album che vorrebbe fare uscire l'anno prossimo e di cui giustamente non vuole ancora dirci nulla.
L'ho incontrato (a proposito) a casa sua e gli ho fatto alcune domande...
Ciao Matteo. Innanzitutto, mi viene da chiederti: com'è che hai deciso di fare il cantautore?
Avevo un lavoro come tecnico di teatro, poi mi sono successi un paio di concerti e ho provato. In seguito ho iniziato a suonare per strada.
Come mai questa scelta di suonare per strada?
La strada ti rende libero e non ti lega ad un discorso di dipendenza lavorativa.
Quali sono le tue influenze?
Bob Dylan prima di tutto. Sono attratto dai cantanti popolari. Questo è indice di un mio certo conformismo, sono suscettibile al mito del comandante, al capo popolo, la leggenda, e significa che provo anche simpatia per tutto ciò che è popolare, e dunque ambisco che le mie canzoni arrivino al cuore di ogni persona Mi piacciono Cabron de la Isla, Ruben Blades, Jean Louis Guerra, Vasco Rossi.
C'è molta musica latina anche nelle tue influenze.
Siamo colonizzati musicalmente dai paesi anglofoni. Noi siamo però molto più simili ad uno spagnolo che non ad un inglese, quindi ho citato questi cantanti perché me li sento più vicini al cuore. E poi preferisco il ritmo latino che non il rock and roll.
È una cosa dovuta a una tua ricerca questa presenza di teatralità e cabaret che contraddistingue i tuoi concerti?
È un demone che conosco fin dall'infanzia. Una forza che prende il mio carattere meditativo e perso fra le nuvole per trasformarlo in giullare. Non c'è una ricerca, ma una maschera che ho assunto e sviluppato fin dall'infanzia. Da piccolo ero così imbranato che lentamente ho posto attenzione ad ogni mio movimento, costruendomi una maschera che oggi è diventata parte di me.
Più che una ricerca, dunque, una terapia.
Sì. Però bisogna andare oltre le maschere. Uso la teatralità per comunicare meglio. Suonare mi ha insegnato un sacco di cose da un punto di vista psicologico. Credo si possa dire che io non faccia ne musica ne teatro, ma una via di mezzo, dove una cosa supplisce alla mancanza dell'altra.
Da poco hai iniziato a collaborare con una band.
Da un anno è partito il progetto Matteo Castellano e Provincia, band che ha trovato il suo equilibrio e un gruppo di lavoro. È passata attraverso mutamenti e ad essi è aperta. La formazione attuale è composta da Bozzi alla chitarra e arrangiamenti, Nicolò Bosio fisarmonica, sintetizzatore e fonica, Vito Micolis percussioni latine e Cajon, Giuseppe Leone percussioni del sud italia, Enzo (Forever) Mesiti al basso, Einrich Vogel arrangiamenti psicomagici e cibernetici.
giovedì 27 maggio 2010
IL FORMICAIO
Le formiche esistono esclusivamente in vista del formicaio, anzi si potrebbe dire più semplicemente che il formicaio è fatto di formiche, così come il tessuto nervoso è composto di neuroni .
È impressionante vedere come le formiche si muovano in maniera così organizzata e notare che sono totalmente ignare di quel che sta accadendo in se stesse e nel mondo attorno. Costruiscono tunnel, ponti fatti di formiche, si organizzano per procurarsi le giuste provviste e nessuna di esse si rende conto di nulla.
Il formicaio in sé presenta però una forma di compiutezza (sarebbe azzardato dire che sia cosciente, e sarebbe inoltre un inutile proiettare a concetti che appartengono alla nostra area), ed è quella di se stesso come inizio e fine di sé medesimo: un tutto distinto dalle sue parti e unico come ciascuna di esse.
Gli uomini presentano a mio parere una sottile analogia con le formiche, così come l'umanità con il formicaio.
Nonostante quella umana sia la razza più evoluta, e dunque capace di fare più cose e dominare (oltre che distruggere) meglio la natura, non può sfuggire a un meccanismo necessario.
Non esiste, tanto per cominciare, nessuno che possieda un determinato sapere e che ne sia dunque il detentore. Nessuno può vantare il possesso di nulla. Tutti accedono a un linguaggio (verbale, matematico, scientifico, artistico etc.)
Tutto il linguaggio va a costituire una rete dentro cui si rende manifesto il senso in se stesso.
Tutto il senso è in sé, ed in sé è paradossale.
Ma gli uomini, visti dall'alto non possono che presentare una enorme somiglianza con quelle stesse formiche. La loro stessa incoscienza. Questo fa pensare che quello di coscienza, sia un concetto impossibile e conchiuso in se stesso. Ovvero tutto il sapere che noi sosteniamo di possedere, è in realtà un mostrarsi di una rete di connessioni interne al piano relazionale che intercorre fra gli uomini stessi, e che va a costituire il loro stesso senso entro cui non ci apprestiamo che verso il limite della totalità. La stessa autocoscienza non è che coscienza di un soggetto conoscente che esiste in sé solo in relazione a un oggetto che a sua volta è legato a tutto il reticolato e che anzi viene reso possibile solo dalla connessione che presenta con gli altri oggetti, e che in sé nella sua stessa concettualità trova limite nello stesso senso che intende mostrare con se stesso (vale per piano autocoscienza, coscienza, incoscienza etc).
Insomma ciò che determiniamo come senso è costruito a partire dalla relazione che le cose vengono a creare insieme ad il livello in cui possono trovare la propria significazione.
Per questo l'uomo è in realtà totalmente “incosciente”. L'uomo accede al sapere, conosce anche se stesso se vogliamo, ma è sempre inginocchiato verso una piazza che costituisce l'impalcatura della sua stessa attività pensante, da cui spesso è dominato (paradossalmente proprio quando crede di esserne il padrone).
Essere dominati dalle parole, credere che esse indichino qualcosa di reale, credere di esserne i possessori, credere questo significa rientrare in un piano percettivo in cui l'interiorità è affossata da un tremendo baccano.
Essere finalmente coscienti del proprio silenzio interiore (e dire silenzio, suggerisce Bataille, significa pronunciare la parola più perversa e al contempo poetica) genera la coscienza che il linguaggio è in sé un sistema chiuso, ma nel senso che in esso si genera continuamente senso a partire dal moto che va a costituire la stessa necessità di cui è costituita la sua unicità separata.
La verità non è adaequatio rei et intellectus, non è coscienza che un soggetto ha di un oggetto, ma è semmai il modo in cui l'oggetto e il soggetto stesso si manifestano in sé: aletheia, e tanto più vivido ci si mostra, quanto più “silenzio” accogliamo dentro noi stessi.
Luca Atzori
È impressionante vedere come le formiche si muovano in maniera così organizzata e notare che sono totalmente ignare di quel che sta accadendo in se stesse e nel mondo attorno. Costruiscono tunnel, ponti fatti di formiche, si organizzano per procurarsi le giuste provviste e nessuna di esse si rende conto di nulla.
Il formicaio in sé presenta però una forma di compiutezza (sarebbe azzardato dire che sia cosciente, e sarebbe inoltre un inutile proiettare a concetti che appartengono alla nostra area), ed è quella di se stesso come inizio e fine di sé medesimo: un tutto distinto dalle sue parti e unico come ciascuna di esse.
Gli uomini presentano a mio parere una sottile analogia con le formiche, così come l'umanità con il formicaio.
Nonostante quella umana sia la razza più evoluta, e dunque capace di fare più cose e dominare (oltre che distruggere) meglio la natura, non può sfuggire a un meccanismo necessario.
Non esiste, tanto per cominciare, nessuno che possieda un determinato sapere e che ne sia dunque il detentore. Nessuno può vantare il possesso di nulla. Tutti accedono a un linguaggio (verbale, matematico, scientifico, artistico etc.)
Tutto il linguaggio va a costituire una rete dentro cui si rende manifesto il senso in se stesso.
Tutto il senso è in sé, ed in sé è paradossale.
Ma gli uomini, visti dall'alto non possono che presentare una enorme somiglianza con quelle stesse formiche. La loro stessa incoscienza. Questo fa pensare che quello di coscienza, sia un concetto impossibile e conchiuso in se stesso. Ovvero tutto il sapere che noi sosteniamo di possedere, è in realtà un mostrarsi di una rete di connessioni interne al piano relazionale che intercorre fra gli uomini stessi, e che va a costituire il loro stesso senso entro cui non ci apprestiamo che verso il limite della totalità. La stessa autocoscienza non è che coscienza di un soggetto conoscente che esiste in sé solo in relazione a un oggetto che a sua volta è legato a tutto il reticolato e che anzi viene reso possibile solo dalla connessione che presenta con gli altri oggetti, e che in sé nella sua stessa concettualità trova limite nello stesso senso che intende mostrare con se stesso (vale per piano autocoscienza, coscienza, incoscienza etc).
Insomma ciò che determiniamo come senso è costruito a partire dalla relazione che le cose vengono a creare insieme ad il livello in cui possono trovare la propria significazione.
Per questo l'uomo è in realtà totalmente “incosciente”. L'uomo accede al sapere, conosce anche se stesso se vogliamo, ma è sempre inginocchiato verso una piazza che costituisce l'impalcatura della sua stessa attività pensante, da cui spesso è dominato (paradossalmente proprio quando crede di esserne il padrone).
Essere dominati dalle parole, credere che esse indichino qualcosa di reale, credere di esserne i possessori, credere questo significa rientrare in un piano percettivo in cui l'interiorità è affossata da un tremendo baccano.
Essere finalmente coscienti del proprio silenzio interiore (e dire silenzio, suggerisce Bataille, significa pronunciare la parola più perversa e al contempo poetica) genera la coscienza che il linguaggio è in sé un sistema chiuso, ma nel senso che in esso si genera continuamente senso a partire dal moto che va a costituire la stessa necessità di cui è costituita la sua unicità separata.
La verità non è adaequatio rei et intellectus, non è coscienza che un soggetto ha di un oggetto, ma è semmai il modo in cui l'oggetto e il soggetto stesso si manifestano in sé: aletheia, e tanto più vivido ci si mostra, quanto più “silenzio” accogliamo dentro noi stessi.
Luca Atzori
sabato 8 maggio 2010
NON C'E' NULLA DAPPERTUTTO
Intervista a Silvia Giachello
di Luca Atzori
Silvia Giachello, giovane fotografa e videoartista torinese, ha iniziato presto a viaggiare per l'Europa. Dopo aver vissuto due anni a Londra, ha studiato e si è laureata a Bologna al Dams, ed è ora dottoranda presso il Politecnico di Torino.
Porta avanti un discorso artistico che abbraccia le arti grafiche, la fotografia e la videoarte.
I suoi lavori più che fotografie vengono definiti dalla stessa artista come “elaborazioni”.
Innanzitutto che cosa puoi dirci riguardo il tuo percorso artistico, come è iniziato?
È iniziato per gioco, come spesso accade. Ho iniziato ad utilizzare il computer con l'intenzione di trasformare le immagini, come con l'intenzione di volerne mutare la primissima forma che catturavo. Poi ho iniziato ad avvertire una sorta di fascino per lo spazio vuoto, e lì credo sia iniziato il mio percorso vero e proprio.
Parli di spazio vuoto. Sei influenzata dalle discipline orientali?
Sicuramente fra i miei interessi si possono includere le filosofie orientali. Dal tao allo zen, il concetto giapponese del ki. A livello artistico sono attratta inoltre dalle grafiche giapponesi.
Dunque per te la ricerca artistica va in parallelo con quella interiore/esistenziale?
Ho passato sei mesi a lavorare su alcuni lavori a cui ho dato il nome di Meditazioni in bianco, ed è stata una ricerca che è andata certamente di pari passo con un'indagine che svolgevo su me stessa. Man mano riducevo tutto all'essenza, fino a vedere il segno come conseguenza dello spazio vuoto che scaturisce dall'immagine.
Quali tecniche utilizzi e prediligi?
Per quel che riguarda la serie dei paesaggi essenziali e delle meditazioni la tecnica che uso è quella di partire dal pieno per eliminare parti dell'immagine. Arrivare al vuoto. Le Meditazioni sono quaranta immagini tratte dallo stesso negativo. È un modo per vedere le infinite variazioni generate dalla stessa matrice. Negli ultimi lavori, come Boulevard, dove lavoro sul corpo nella danza e sul ritratto, la macchina tenta di ricostruire una figura attraverso frammenti di luce nel buio. Ma non ne deriva che un'immagine dove non è più possibile distinguere confini e contorni. I soggetti in questo modo appaiono in tutta la loro profonda ambiguità, esplosioni della figura dove il limite diventa materia creativa. È importante precisare che queste fotografie non sono affatto modificate se non con tecniche che appartengono anche alla stampa analogica, con la differenza che intendo sfruttare la qualità anche materica del pixel.
Come sei giunta dai primi lavori astratti a questa ultima fase ritrattistica?
Inizialmente ero più interessata ad indagare sulla forma pura, poi mi è venuto naturale approdare ai corpi. Mi sembrava poi particolarmente interessante applicare questa tecnica al ritratto dove il volto umano viene reso simile a un paesaggio e vengono messe in risalto forme a cui normalmente non prestiamo attenzione. Richiama memorie di cui non si è consapevoli.
Ho notato, in alcuni tuoi lavori astratti, che questo discorso relativo all'emergere di figure a cui normalmente non si fa caso, viene sviluppato quasi come fosse un gioco con le nuvole.
È come con quelle immagini che viste con un certo focus producono una forma tridimensionale, ma in questo caso l'interpretazione visiva è soggetta a infinite possibilità di lettura e di esplorazione. Ci si deve focalizzare su di un certo piano che non è quello previsto dalla cornice.
lunedì 26 aprile 2010
RIBELLE VS RIVOLUZIONARIO
Ogni rivoluzionario (o chiunque sventuratamente ambisca a definirsi o diventare tale), affida se stesso alla collettività, operando perciò una vera e propria rinuncia.
Il concetto di rivoluzione presenta in sé, difatti, molteplici affinità con la religione cristiana cattolica, la quale invita i suoi fedeli a dedicare se stessi agli altri, nella speranza di costruire insieme un mondo migliore dove non esistano più guerre, odio etc. (luogo che, bisogna evidenziare, risiede non a caso in un non luogo).
Così ogni rivoluzione (politica, culturale, religiosa etc) è mossa da un solo potente propulsore: l'illusione.
Chiunque pretenda di operare una grande azione rivoluzionaria, desidera in effetti la felicità non propria, ma piuttosto dei suoi “compagni” e insieme anche quella dei posteri (causando spesso nei secondi solo ulteriori disagi).
Il rivoluzionario è sempre uno schiavo.
La sua schiavitù si manifesta nel gregge formato da persone che si ritrovano ad essere oppresse da una strana forma di potere che obbliga le loro preziose giornate a colorarsi di una fatica grigia e indesiderata, ma che essi in realtà non vogliono fare cessare del tutto, ma solo portare ad un miglioramento, e dunque rendere più accettabile.
Il rivoluzionario pretende un semplice miglioramento della propria condizione da un peggio a un altro peggio, e mai si sognerebbe di pretendere più schiettamente la propria sacrosanta libertà.
Alla figura del rivoluzionario ne contrappongo qui una che mi sembra decisamente più attraente, ed è quella del ribelle.
Quando si dice “ribelle”, ci si richiama a una figura che non conosce ragione per cui debba esistere anche solo possibilità di servire, lavorare, chinarsi al volere del padrone, e tantomeno quella di trasportare la propria misera condizione ad una merda più profumata.
Il ribelle desidera principalmente che i propri bisogni (a partire da quelli naturali) vengano soddisfatti, senza vergognarsi di quale sia il loro aspetto.
Quando si parla di ribellione, si intende la consapevolezza che si ha della propria potenzialità intellettuale, fisica ed emotiva, e che si desidera vedere realizzata, e non di certo soppressa.
Se il ribelle dovesse mai trovarsi davanti a un' impasse, e fosse costretto a organizzare una rivoluzione, considererebbe come unici gesti lucidi quelli di gettarsi dal balcone, o sparare a vuoto e a caso, perché in caso contrario sarebbe certamente perseguitato e non di certo amato dalle masse.
La massa deve certamente andare a farsi fottere.
E' naturale che la massa esista, ma è innaturale che essa abbia il potere.
È sempre stato con l'aiuto della massa che le rivoluzioni si sono presentate nell'arco della storia. La storia è di per sé mossa prevalentemente da eventi rivoluzionari. Ma tutte le rivoluzioni hanno portato solo a delle condizioni di ulteriore (e spesso peggiore) sgomento.
Ogni rivoluzione richiede a sua volta un'ulteriore rivoluzione.
La storia stessa non è nient'altro che una fiaba ridicola, raccontata per fare addormentare migliaia di credenti (istruiti), prima che questi si posino sulla culla del loro “posto di lavoro”, ancora creduli sulla veridicità di queste minacce secolari che portano il nome di guerra, denaro etc.
Nel codice della ribellione, non esiste la possibilità di una resa. La morte è un incidente che si evita con la lotta personale, al fine di salvare la propria pelle (e non certo quella della folla).
Se gli idioti vivono peggio, perché dotati di una sensibilità assonnata, ciò non significa che ci si debba far narcotizzare come se ne fosse ovvia conseguenza.
Karl Marx, da buon rivoluzionario, si rivolgeva ai lavoratori, invitandoli a spezzare quelle catene che i malvagi capitalisti assegnavano loro. Ma il ribelle, quelle catene, nemmeno se le sarebbe mai messe. Il rivoluzionario è uno schiavo che vuole godere di una condizione migliore, o tradotto, che desidera trasferirsi in una prigione più confortevole.
Il ribelle non ambisce al comfort, ma più semplicemente alla salvaguardia della propria libertà.
Il ribelle è dotato di quella saggezza che possiedono molto spesso solo i bambini appena nati, e non riesce nemmeno a immaginare di poter vivere in una qualsivoglia prigione. “Perché mai dovrei?” si domanda legittimamente.
Parlo di una prigione che ha sede nel lavoro, nella scuola, nel locale di divertimenti, a casa della fidanzata, in famiglia, negli hobby e in tante altre perversioni di ogni sorta.
Questa è la differenza che pone un abisso fra i due infelici: che il primo ha a cuore l'infame vita altrui, ormai immemore della propria, illuso della propria grandezza, mentre il secondo si interessa a difendere principalmente se stesso, senza ulteriori scorie inutili, o futuri che non si vedranno mai, ne tanto meno la buffa speranza che gli venga assegnata un giorno una ridicola statua di pietra.
Il ribelle vive nel presente, il rivoluzionario, invece, vivendo nel futuro, non vive... non vivrà mai!
Egli può dunque essere considerato nell'unica maniera che gli spetta, ovvero: Schiavo!
Luca Atzori
Il concetto di rivoluzione presenta in sé, difatti, molteplici affinità con la religione cristiana cattolica, la quale invita i suoi fedeli a dedicare se stessi agli altri, nella speranza di costruire insieme un mondo migliore dove non esistano più guerre, odio etc. (luogo che, bisogna evidenziare, risiede non a caso in un non luogo).
Così ogni rivoluzione (politica, culturale, religiosa etc) è mossa da un solo potente propulsore: l'illusione.
Chiunque pretenda di operare una grande azione rivoluzionaria, desidera in effetti la felicità non propria, ma piuttosto dei suoi “compagni” e insieme anche quella dei posteri (causando spesso nei secondi solo ulteriori disagi).
Il rivoluzionario è sempre uno schiavo.
La sua schiavitù si manifesta nel gregge formato da persone che si ritrovano ad essere oppresse da una strana forma di potere che obbliga le loro preziose giornate a colorarsi di una fatica grigia e indesiderata, ma che essi in realtà non vogliono fare cessare del tutto, ma solo portare ad un miglioramento, e dunque rendere più accettabile.
Il rivoluzionario pretende un semplice miglioramento della propria condizione da un peggio a un altro peggio, e mai si sognerebbe di pretendere più schiettamente la propria sacrosanta libertà.
Alla figura del rivoluzionario ne contrappongo qui una che mi sembra decisamente più attraente, ed è quella del ribelle.
Quando si dice “ribelle”, ci si richiama a una figura che non conosce ragione per cui debba esistere anche solo possibilità di servire, lavorare, chinarsi al volere del padrone, e tantomeno quella di trasportare la propria misera condizione ad una merda più profumata.
Il ribelle desidera principalmente che i propri bisogni (a partire da quelli naturali) vengano soddisfatti, senza vergognarsi di quale sia il loro aspetto.
Quando si parla di ribellione, si intende la consapevolezza che si ha della propria potenzialità intellettuale, fisica ed emotiva, e che si desidera vedere realizzata, e non di certo soppressa.
Se il ribelle dovesse mai trovarsi davanti a un' impasse, e fosse costretto a organizzare una rivoluzione, considererebbe come unici gesti lucidi quelli di gettarsi dal balcone, o sparare a vuoto e a caso, perché in caso contrario sarebbe certamente perseguitato e non di certo amato dalle masse.
La massa deve certamente andare a farsi fottere.
E' naturale che la massa esista, ma è innaturale che essa abbia il potere.
È sempre stato con l'aiuto della massa che le rivoluzioni si sono presentate nell'arco della storia. La storia è di per sé mossa prevalentemente da eventi rivoluzionari. Ma tutte le rivoluzioni hanno portato solo a delle condizioni di ulteriore (e spesso peggiore) sgomento.
Ogni rivoluzione richiede a sua volta un'ulteriore rivoluzione.
La storia stessa non è nient'altro che una fiaba ridicola, raccontata per fare addormentare migliaia di credenti (istruiti), prima che questi si posino sulla culla del loro “posto di lavoro”, ancora creduli sulla veridicità di queste minacce secolari che portano il nome di guerra, denaro etc.
Nel codice della ribellione, non esiste la possibilità di una resa. La morte è un incidente che si evita con la lotta personale, al fine di salvare la propria pelle (e non certo quella della folla).
Se gli idioti vivono peggio, perché dotati di una sensibilità assonnata, ciò non significa che ci si debba far narcotizzare come se ne fosse ovvia conseguenza.
Karl Marx, da buon rivoluzionario, si rivolgeva ai lavoratori, invitandoli a spezzare quelle catene che i malvagi capitalisti assegnavano loro. Ma il ribelle, quelle catene, nemmeno se le sarebbe mai messe. Il rivoluzionario è uno schiavo che vuole godere di una condizione migliore, o tradotto, che desidera trasferirsi in una prigione più confortevole.
Il ribelle non ambisce al comfort, ma più semplicemente alla salvaguardia della propria libertà.
Il ribelle è dotato di quella saggezza che possiedono molto spesso solo i bambini appena nati, e non riesce nemmeno a immaginare di poter vivere in una qualsivoglia prigione. “Perché mai dovrei?” si domanda legittimamente.
Parlo di una prigione che ha sede nel lavoro, nella scuola, nel locale di divertimenti, a casa della fidanzata, in famiglia, negli hobby e in tante altre perversioni di ogni sorta.
Questa è la differenza che pone un abisso fra i due infelici: che il primo ha a cuore l'infame vita altrui, ormai immemore della propria, illuso della propria grandezza, mentre il secondo si interessa a difendere principalmente se stesso, senza ulteriori scorie inutili, o futuri che non si vedranno mai, ne tanto meno la buffa speranza che gli venga assegnata un giorno una ridicola statua di pietra.
Il ribelle vive nel presente, il rivoluzionario, invece, vivendo nel futuro, non vive... non vivrà mai!
Egli può dunque essere considerato nell'unica maniera che gli spetta, ovvero: Schiavo!
Luca Atzori
venerdì 16 aprile 2010
VOCI BIANCHE
Vi è mai capitato di vedere come son fatte le corde vocali? Hanno l' aspetto che ricorda molto quello di una vagina.
I ragazzini che compongono il coro delle voci bianche hanno sempre un'età inferiore ai tredici, questo perché da lì (come tutti noi sappiamo) la voce inizia a cambiare.
Nel Basso Medioevo, quando i preti detenevano un potere enorme, questi ragazzi venivano direttamente castrati, così da poter conservare quella incantevole musica.
A me viene da pensare che dietro alle voci bianche ci sia sempre stato qualcosa di mostruoso. Uso questa parola nel senso in cui può essere comunemente utilizzata riferendosi all'esperimento di un qualsiasi dott. Frankeinstein, e non in un senso morale o per chissà qual altra faccenda che qui non ci interessa indagare.
Quando penso a questi cori, mi viene in mente una sorta di femminilità artificiale, creata apposta dai e per i preti.
Sesso angelico... una voce femminile rigorosamente prodotta da corpi maschili.
Dicevamo, infatti, le corde vocali ricordano una vagina. I preti questo lo sapevano benissimo, visto che erano abituati a sezionare corpi morti.
Quale posto migliore dove far sublimare la propria necessità di fecondare, se non nella bocca di questi fanciulli?
Una figa dalla voce celestiale... e beh a forza di pregarla, verrà anche voglia di fottersela questa Madonna.
Chissà se un candido biancore, oltre ad uscire da quelle giovani bocche, non sia spesso anche... entrato!
Forse era solo lo Spirito Santo.
Alleluia! Lodate il Signore.
Luca Atzori
mercoledì 14 aprile 2010
SECONDO DISCORSO DELL'ANTIUMANESIMO: L'INDIVIDUO
La parola individuo trova la sua derivazione etimologica nel latino individus, che significa indiviso.
Esso possiede caratteristica atomica.
L'uomo è a sua volta composto di atomi.
Questo è il paradosso che tesse la faccenda che andiamo a proporre.
Potremmo prendere in considerazione quella frasetta che si ritrova in quella filosofia da massaie che è la gestalt, la quale dice che l'intero è maggiore della somma delle sue parti. Considerato che noi siamo composti di cellule, non abbiamo certo una forma sferica. E soprattutto ciascuno è necessariamente unico.
Prendendo in ulteriore considerazione questo fatto, dirò quel che penso liberamente come con un delirio a ciclostile.
L'individuo si affaccia. La celebre espressione latina Homo homini lupus, ripresa in seguito da Hobbes, sembra essere l'elemento fondamentale teso a contraddistinguere la natura individuale.
Il punto è che questo avviene ad un livello naturale, e lo stato civile serve a soffocare questa condizione originaria. Tutto avviene con il contatto degli sguardi.
La seduzione...
Gli uomini si guardano e si ingannano. Lo fanno illudendosi vicendevolmente che sia possibile davvero guardarsi negli occhi. Ebbene esiste invece solo l'individuo, e il prossimo è per noi nient'altro che uno specchio.
Vedere Manifesto 7: nessuno guardi negli occhi nessuno affinché uno solo sia l'occhio visto.
Il sistema capitalistico ci abitua a pensare come se fossimo ciascuno un individuo separato dall'altro, il quale ha da essere sovrastato. Questa forma di individualismo è però ridotta a un modello. È un modello di individuo già preconfezionato, che considerato vincente viene portato avanti come una bandiera da usare a mo di manganello.
Qualora ci fosse naturalità nella guerra, non ci sarebbe Male. E la guerra è naturale.
Ma ripeto, esiste solo l'individuo. Egli usa il naso per difendersi. L'individuo è composto dello stesso linguaggio, e il linguaggio è un tessuto dell'individuo.
Quello che si vede fuori è un riflesso sbiadito, un affacciarsi.
Affacciarsi è il gesto estremo. Oltre è impensabile.
E giustamente non si può che avere paura degli altri, perché stanno vedendo la stessa cosa che stai vedendo tu, ma ciò è tremendo! Perché potresti credere che ciò sia vero. Nessuno vede quello che vedi tu.
Guai alla seduzione.
Quando i due individui si amano, compiono invece il gesto più disperato e impossibile. L'amore è difatti una totale truffa, ai danni della purezza.
Sciocco chi soffre d'amore, perché patisce quel vuoto che ha costruito e che pensava fosse riempimento della sua esistenza.
Gli individui amano davvero quando si amano in silenzio. Amano quando sanno che non potranno mai divorarsi a vicenda, e non sanno perché ciò avvenga.
Gli individui amano solo quando non lo sanno.
Come già sosteneva Stirner, lo spirito non è nient'altro che una menzogna e il cristiano in realtà non ama nulla. Questo nulla è dunque indicibile (come la solita barzelletta di Dio).
Bisogna far attenzione a ciò che si dice e si ascolta, perché tutto ciò che l'individuo dice, può essere matematicamente vero. Se voglio dimostrare che 2+2=5 so come farlo.
Immaginate che dentro ogni numero siano disegnate a loro volta serie di numeri che compiano calcoli corretti... addizioni tipo 6+1=7, 4+3=7 etc... beh 2+2 = 5 acquisterà un senso, perché quel calcolo sarà dimostrato da questi calcoli corretti.
Inoltre quella somma assurda è esattamente comparabile con la natura dell'individuo, che è un' assurdità, un calcolo sbagliato, composto al suo interno di calcoli perfettamente esatti.
Unici. Castelli costruiti con determinati mattoncini fatti di un determinato materiale, e che soprattutto seguono una certa combinazione irripetibile.
Ah non fraintendiate il mio discorso pensando che gli uomini siano dunque giustificati ad odiarsi a vicenda. Anzi, bisogna a maggior ragione concentrarsi sul concetto del Rispetto.
Rispetto a cosa? Rispetto a te. Rispetto a dove sento finire me stesso e iniziare l'Altro. Determinare la propria posizione.
Addestrarsi all'affacciarsi.
Amare solo quando non lo si sa.
Luca Atzori
Esso possiede caratteristica atomica.
L'uomo è a sua volta composto di atomi.
Questo è il paradosso che tesse la faccenda che andiamo a proporre.
Potremmo prendere in considerazione quella frasetta che si ritrova in quella filosofia da massaie che è la gestalt, la quale dice che l'intero è maggiore della somma delle sue parti. Considerato che noi siamo composti di cellule, non abbiamo certo una forma sferica. E soprattutto ciascuno è necessariamente unico.
Prendendo in ulteriore considerazione questo fatto, dirò quel che penso liberamente come con un delirio a ciclostile.
L'individuo si affaccia. La celebre espressione latina Homo homini lupus, ripresa in seguito da Hobbes, sembra essere l'elemento fondamentale teso a contraddistinguere la natura individuale.
Il punto è che questo avviene ad un livello naturale, e lo stato civile serve a soffocare questa condizione originaria. Tutto avviene con il contatto degli sguardi.
La seduzione...
Gli uomini si guardano e si ingannano. Lo fanno illudendosi vicendevolmente che sia possibile davvero guardarsi negli occhi. Ebbene esiste invece solo l'individuo, e il prossimo è per noi nient'altro che uno specchio.
Vedere Manifesto 7: nessuno guardi negli occhi nessuno affinché uno solo sia l'occhio visto.
Il sistema capitalistico ci abitua a pensare come se fossimo ciascuno un individuo separato dall'altro, il quale ha da essere sovrastato. Questa forma di individualismo è però ridotta a un modello. È un modello di individuo già preconfezionato, che considerato vincente viene portato avanti come una bandiera da usare a mo di manganello.
Qualora ci fosse naturalità nella guerra, non ci sarebbe Male. E la guerra è naturale.
Ma ripeto, esiste solo l'individuo. Egli usa il naso per difendersi. L'individuo è composto dello stesso linguaggio, e il linguaggio è un tessuto dell'individuo.
Quello che si vede fuori è un riflesso sbiadito, un affacciarsi.
Affacciarsi è il gesto estremo. Oltre è impensabile.
E giustamente non si può che avere paura degli altri, perché stanno vedendo la stessa cosa che stai vedendo tu, ma ciò è tremendo! Perché potresti credere che ciò sia vero. Nessuno vede quello che vedi tu.
Guai alla seduzione.
Quando i due individui si amano, compiono invece il gesto più disperato e impossibile. L'amore è difatti una totale truffa, ai danni della purezza.
Sciocco chi soffre d'amore, perché patisce quel vuoto che ha costruito e che pensava fosse riempimento della sua esistenza.
Gli individui amano davvero quando si amano in silenzio. Amano quando sanno che non potranno mai divorarsi a vicenda, e non sanno perché ciò avvenga.
Gli individui amano solo quando non lo sanno.
Come già sosteneva Stirner, lo spirito non è nient'altro che una menzogna e il cristiano in realtà non ama nulla. Questo nulla è dunque indicibile (come la solita barzelletta di Dio).
Bisogna far attenzione a ciò che si dice e si ascolta, perché tutto ciò che l'individuo dice, può essere matematicamente vero. Se voglio dimostrare che 2+2=5 so come farlo.
Immaginate che dentro ogni numero siano disegnate a loro volta serie di numeri che compiano calcoli corretti... addizioni tipo 6+1=7, 4+3=7 etc... beh 2+2 = 5 acquisterà un senso, perché quel calcolo sarà dimostrato da questi calcoli corretti.
Inoltre quella somma assurda è esattamente comparabile con la natura dell'individuo, che è un' assurdità, un calcolo sbagliato, composto al suo interno di calcoli perfettamente esatti.
Unici. Castelli costruiti con determinati mattoncini fatti di un determinato materiale, e che soprattutto seguono una certa combinazione irripetibile.
Ah non fraintendiate il mio discorso pensando che gli uomini siano dunque giustificati ad odiarsi a vicenda. Anzi, bisogna a maggior ragione concentrarsi sul concetto del Rispetto.
Rispetto a cosa? Rispetto a te. Rispetto a dove sento finire me stesso e iniziare l'Altro. Determinare la propria posizione.
Addestrarsi all'affacciarsi.
Amare solo quando non lo si sa.
Luca Atzori
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