sabato 8 maggio 2010
NON C'E' NULLA DAPPERTUTTO
Intervista a Silvia Giachello
di Luca Atzori
Silvia Giachello, giovane fotografa e videoartista torinese, ha iniziato presto a viaggiare per l'Europa. Dopo aver vissuto due anni a Londra, ha studiato e si è laureata a Bologna al Dams, ed è ora dottoranda presso il Politecnico di Torino.
Porta avanti un discorso artistico che abbraccia le arti grafiche, la fotografia e la videoarte.
I suoi lavori più che fotografie vengono definiti dalla stessa artista come “elaborazioni”.
Innanzitutto che cosa puoi dirci riguardo il tuo percorso artistico, come è iniziato?
È iniziato per gioco, come spesso accade. Ho iniziato ad utilizzare il computer con l'intenzione di trasformare le immagini, come con l'intenzione di volerne mutare la primissima forma che catturavo. Poi ho iniziato ad avvertire una sorta di fascino per lo spazio vuoto, e lì credo sia iniziato il mio percorso vero e proprio.
Parli di spazio vuoto. Sei influenzata dalle discipline orientali?
Sicuramente fra i miei interessi si possono includere le filosofie orientali. Dal tao allo zen, il concetto giapponese del ki. A livello artistico sono attratta inoltre dalle grafiche giapponesi.
Dunque per te la ricerca artistica va in parallelo con quella interiore/esistenziale?
Ho passato sei mesi a lavorare su alcuni lavori a cui ho dato il nome di Meditazioni in bianco, ed è stata una ricerca che è andata certamente di pari passo con un'indagine che svolgevo su me stessa. Man mano riducevo tutto all'essenza, fino a vedere il segno come conseguenza dello spazio vuoto che scaturisce dall'immagine.
Quali tecniche utilizzi e prediligi?
Per quel che riguarda la serie dei paesaggi essenziali e delle meditazioni la tecnica che uso è quella di partire dal pieno per eliminare parti dell'immagine. Arrivare al vuoto. Le Meditazioni sono quaranta immagini tratte dallo stesso negativo. È un modo per vedere le infinite variazioni generate dalla stessa matrice. Negli ultimi lavori, come Boulevard, dove lavoro sul corpo nella danza e sul ritratto, la macchina tenta di ricostruire una figura attraverso frammenti di luce nel buio. Ma non ne deriva che un'immagine dove non è più possibile distinguere confini e contorni. I soggetti in questo modo appaiono in tutta la loro profonda ambiguità, esplosioni della figura dove il limite diventa materia creativa. È importante precisare che queste fotografie non sono affatto modificate se non con tecniche che appartengono anche alla stampa analogica, con la differenza che intendo sfruttare la qualità anche materica del pixel.
Come sei giunta dai primi lavori astratti a questa ultima fase ritrattistica?
Inizialmente ero più interessata ad indagare sulla forma pura, poi mi è venuto naturale approdare ai corpi. Mi sembrava poi particolarmente interessante applicare questa tecnica al ritratto dove il volto umano viene reso simile a un paesaggio e vengono messe in risalto forme a cui normalmente non prestiamo attenzione. Richiama memorie di cui non si è consapevoli.
Ho notato, in alcuni tuoi lavori astratti, che questo discorso relativo all'emergere di figure a cui normalmente non si fa caso, viene sviluppato quasi come fosse un gioco con le nuvole.
È come con quelle immagini che viste con un certo focus producono una forma tridimensionale, ma in questo caso l'interpretazione visiva è soggetta a infinite possibilità di lettura e di esplorazione. Ci si deve focalizzare su di un certo piano che non è quello previsto dalla cornice.
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