Le formiche esistono esclusivamente in vista del formicaio, anzi si potrebbe dire più semplicemente che il formicaio è fatto di formiche, così come il tessuto nervoso è composto di neuroni .
È impressionante vedere come le formiche si muovano in maniera così organizzata e notare che sono totalmente ignare di quel che sta accadendo in se stesse e nel mondo attorno. Costruiscono tunnel, ponti fatti di formiche, si organizzano per procurarsi le giuste provviste e nessuna di esse si rende conto di nulla.
Il formicaio in sé presenta però una forma di compiutezza (sarebbe azzardato dire che sia cosciente, e sarebbe inoltre un inutile proiettare a concetti che appartengono alla nostra area), ed è quella di se stesso come inizio e fine di sé medesimo: un tutto distinto dalle sue parti e unico come ciascuna di esse.
Gli uomini presentano a mio parere una sottile analogia con le formiche, così come l'umanità con il formicaio.
Nonostante quella umana sia la razza più evoluta, e dunque capace di fare più cose e dominare (oltre che distruggere) meglio la natura, non può sfuggire a un meccanismo necessario.
Non esiste, tanto per cominciare, nessuno che possieda un determinato sapere e che ne sia dunque il detentore. Nessuno può vantare il possesso di nulla. Tutti accedono a un linguaggio (verbale, matematico, scientifico, artistico etc.)
Tutto il linguaggio va a costituire una rete dentro cui si rende manifesto il senso in se stesso.
Tutto il senso è in sé, ed in sé è paradossale.
Ma gli uomini, visti dall'alto non possono che presentare una enorme somiglianza con quelle stesse formiche. La loro stessa incoscienza. Questo fa pensare che quello di coscienza, sia un concetto impossibile e conchiuso in se stesso. Ovvero tutto il sapere che noi sosteniamo di possedere, è in realtà un mostrarsi di una rete di connessioni interne al piano relazionale che intercorre fra gli uomini stessi, e che va a costituire il loro stesso senso entro cui non ci apprestiamo che verso il limite della totalità. La stessa autocoscienza non è che coscienza di un soggetto conoscente che esiste in sé solo in relazione a un oggetto che a sua volta è legato a tutto il reticolato e che anzi viene reso possibile solo dalla connessione che presenta con gli altri oggetti, e che in sé nella sua stessa concettualità trova limite nello stesso senso che intende mostrare con se stesso (vale per piano autocoscienza, coscienza, incoscienza etc).
Insomma ciò che determiniamo come senso è costruito a partire dalla relazione che le cose vengono a creare insieme ad il livello in cui possono trovare la propria significazione.
Per questo l'uomo è in realtà totalmente “incosciente”. L'uomo accede al sapere, conosce anche se stesso se vogliamo, ma è sempre inginocchiato verso una piazza che costituisce l'impalcatura della sua stessa attività pensante, da cui spesso è dominato (paradossalmente proprio quando crede di esserne il padrone).
Essere dominati dalle parole, credere che esse indichino qualcosa di reale, credere di esserne i possessori, credere questo significa rientrare in un piano percettivo in cui l'interiorità è affossata da un tremendo baccano.
Essere finalmente coscienti del proprio silenzio interiore (e dire silenzio, suggerisce Bataille, significa pronunciare la parola più perversa e al contempo poetica) genera la coscienza che il linguaggio è in sé un sistema chiuso, ma nel senso che in esso si genera continuamente senso a partire dal moto che va a costituire la stessa necessità di cui è costituita la sua unicità separata.
La verità non è adaequatio rei et intellectus, non è coscienza che un soggetto ha di un oggetto, ma è semmai il modo in cui l'oggetto e il soggetto stesso si manifestano in sé: aletheia, e tanto più vivido ci si mostra, quanto più “silenzio” accogliamo dentro noi stessi.
Luca Atzori
giovedì 27 maggio 2010
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