giovedì 17 giugno 2010

IL TORTO

Subire un torto è possibile solo in quanto alla vittima vengono a mancare le parole. Ad esempio qualsiasi persona si trovi “costretta” a fare un lavoro che lo getti nella condizione di sfruttato, conduce la stessa vita ignobile per quaranta, cinquant' anni, e avrebbe certamente molte cose da dire, ma non sa dirle nemmeno a se stesso, così indossa facilmente l'abito dello schiavo, trascinandosi in un'esistenza del tutto sprecata (avente come fine quel porto chiamato pensione).
In questo gioco entra in ballo la violenza operata dalla cosiddetta ragione, che di per sé resta inconsapevole anche per il carnefice che la detiene, il quale da per assodato che quella sia la Sua ragione.
Quello che noi pensiamo come sfruttamento, può non esserlo affatto per lo sfruttato, che invece si sente assai soddisfatto di portare a casa la sua “pagnotta”, e gli basta e avanza.

Parlando di violenza noi ci mettiamo automaticamente dalla parte del carnefice, perché usiamo il suo stesso linguaggio.

Chi sta subendo un torto spesso (quasi) non lo sa. Non sa di subire quello che per un'altra persona sarebbe invece tale. Questa è la natura del torto, esserlo per qualcuno e non per qualcun' altro.
Ma è anche vero che il torto ha inizio dal momento in cui il progetto del servo viene interrotto.
Come si può pensare ad uscire da un simile labirinto?
Si è soliti parlare di emancipazione, di diritti dei lavoratori, come fosse un canto che si perde fra le pareti di un cielo totalmente vuoto, senza alcun orecchio che possa prestare ascolto.
Si è soliti parlare di sfruttamento e ingiustizia usando parole d'altri.
Il torto è anche subito nella quotidianità più apparentemente banale. Il gesto teppistico a scuola di chi ti minaccia, o di chi ti ruba la fidanzata e via dicendo.
Quello che viene a mancare sono sempre le parole.

Essere senza parole.

Subire un torto però (cioè acquistarne coscienza), significa ricevere al contempo un dono. Il dono dell'estromissione dal campo della ragione. Il dono dell'esclusione, dell'essersi sentiti dire: “tu non ne fai più parte”.
Il dono è una forma di violenza sottilissima, perché consiste nell'uscire fuori dal campo della domanda. Non esiste più un chiedere, esiste un dare (che in questo caso si manifesta con un privare). Sia nel caso del dare che nel caso del togliere si è creditori. Nel primo caso bisogna che qualcosa torni in cambio, senza che lo si sia chiesto, nell'altro si costringe la vittima a farsi portare fuori dal proprio luogo di senso, farsi fare cioè lo stesso dono, abolendo il torto. Farsi Per-donare.

Da qui la negatività totale, unica soluzione.

Siamo ancora troppo legati a un concetto di comunità che prevede l'esistenza di Io (Noi) distinti, i quali si relazionano l'un con l'altro come se davvero fossero una molteplicità inserita in un senso e non in un assurdo.
Siamo ancora troppo all' "opera".
La comunità invece che ci mostra la nostra finitezza, fuori dall'io, nell'incontro quel paradosso che è la stessa ragione, di cui poter ridere con la cognizione che trova inizio nella propria morte e quindi nella perdita, quella da cui si era partiti. La comunità si incontra in ciò che resta scritto, come lapide senza luogo. Zona dei senza zona.

Dove si trova questa comunità? Dove finiscono le risposte e iniziano le domande.

Luca Atzori

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