LA POESIA E' UN SACRIFICIO
Scrivere una poesia, significa operare nel più stretto senso del termine, un sacrificio delle parole. Intendo che queste vengono estromesse dalla loro appartenenza al mondo reale delle cose, si affrancano dalla loro funzione servile, e vengono portate in una sfera di inutile e pura privazione, sovrana . Le parole, con la poesia vengono condotte “dal noto all’ignoto” . Si fa di esse delle vittime.
Nella poesia avviene un abuso delle parole, dove diventano possibili accostamenti che normalmente sarebbero impossibili e privi di utilità. Il cavallo può diventare un “cavallo di burro” e non assumere più quell’importanza determinata dall’utilità che esso ha per l’uomo. Il cavallo, qualora sia stato reso poetico, viene estromesso da un progetto, straripa da qualsiasi forma di determinazione. Con la poesia si opera un vero e proprio abbandono della progettualità, per questo il suo è un aspetto apertamente sacrificale. In essa non vi sono più tracce del piano proprio della morale e dell'etica. Non vi è alcun rinvio, perché in essa domina l’istante, la parola stessa assume un valore che è proprio , non rimanda ad alcun significato ulteriore, non serve a giungere a niente.
È attraverso il linguaggio che nella poesia si eccede il possibile.
“La paura, l’ironia, l’angoscia che provate in presenza del poeta che porta la poesia su tutta la propria persona, non ingannatevi, è pura felicità, felicità sottratta agli sguardi e alla sua propria natura” (Georges Bataille – Esperienza interiore)
Attraverso la poesia ci distanziamo dall’angoscia. Si strappa alle parole il loro potere, la loro funzione, e anche la malinconia diventa cantabile e “felice”. Ci si pone con essa al di fuori di ogni limitazione, preoccupazione.
Su che cosa dovrebbe fondarsi il progetto, infatti, se non su una certa ansia di realtà, un pensiero rivolto al futuro, alla prassi, alla realtà del mondo delle cose?
Il poeta, anche egli, tende alla totalità, e tenta di fuggire dal possibile. Per far questo sacrifica le parole. La poesia risulta così essere una forma di sacrificio.
La poesia non rispecchia perciò lo spazio delle cose effettivamente perdute, perché se così fosse si sarebbe ricondotti totalmente all’ignoto. Essa va piuttosto pensata come il ricettacolo delle rovine rimaste, e per ciò stesso, possedute. Nella poesia il desiderio continua a durare, anzi, si può dire che una certa “funzione” della poesia sia proprio quella di mantenerlo in vita.
ALBERTINE
Un personaggio estremamente poetico lo traiamo da la “Recherce” di Proust, Albertine : “grande Dea del tempo” . Ella si rendeva desiderabile, quanto più non fosse afferrabile. Sembra quasi che qui il desiderio con lei si spenga in conseguenza di un’oggettivazione. Mediante l’individuazione dell’oggetto, qualora questo non sia più una vaga e opaca ombra che si celi nell’ignoto, si ha il possesso, si spegne perciò quell’ aspirazione che contraddistingue l’amore. Esso cessa qualora venga posseduto l’oggetto che si ama. Eppure, ciò nonostante, il desiderio è mosso proprio dalla volontà di possedere. Diventa insostenibile qualora non sia esaudito. Così è solo tramite la memoria che possiamo afferrare l’istante in cui quell’oggetto è stato raggiunto, nel culmine del desiderio. Si opera quindi una distinzione fra l’intelligenza e la memoria. Alla prima appartiene il progetto alla seconda, invece, il tempo. Nella conoscenza, si ha un’uccisione dell’ignoto, proprio perché essa genera il raffreddamento di quella tensione che per mantenere viva è necessario collocare in uno spazio dove non possediamo chiarezza dell’oggetto cui aneliamo. Quell’oggetto ci è dato, lo abbiamo in nostro possesso, quindi dal momento che la felicità è stata raggiunta, quel che ci resta è l’oggetto, ma non più il desiderio della felicità stessa, che di per sé è andato perso. Forse perché appartenendo all’ignoto è per sua stessa natura inafferrabile. Forse perché non può essere collocato in alcun ambito della distinzione individuale. Non può darsi come noto. È fatalmente collocato oltre. E’ per questo che la memoria diventa la sede dove conservare un tratto di quella felicità, perché essa si fonda sulle impressioni, che sono per loro stessa essenza inafferrabili, si sottraggono alla presa, nonostante si diano in superficie, senza però rendere possibile il loro raggiungimento, in quanto esse non sono effettivamente “cose reali”.
La ricerca del tempo perduto è il testamento di Proust. Un’opera che tende al disgregamento, anela alla morte, passando attraverso il raccoglimento dei ricordi. “lasciamo che il nostro corpo si disgreghi”
La scrittura diventa la conseguenza della perdita, un atto di conservazione, dove restano solo le rovine, i pezzi di quel che nella realtà è diventato impossibile cogliere.
Luca Atzori
giovedì 27 ottobre 2011
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