giovedì 17 marzo 2011

CONTIGUITA' E NEOBAROCCO

In molti autori, si presenta spesso il bisogno di narrare, descrivere e rappresentare la realtà, così per come essa è, cioè come qualcosa di distinto da sé.
È l'atteggiamento messo in pratica dal romanziere tradizionale , che (come è giusto che sia) si prefigge l'obiettivo di raccontarci una storia.
Il romanzo diventa così un oggetto dentro cui entrare, un mondo a sé, dotato di tutti i particolari che riguardino i personaggi, le situazioni, le ambientazioni, i dialoghi etc.

Molti aspiranti scrittori, sono soliti, (in particolare i nostri contemporanei, e non casualmente) al loro inizio, di cadere nel difetto del barocchismo.
Utilizzano un linguaggio arcaico, costruiscono periodi lunghi, mettono in risalto uno stile liminare fra il poetico e l'enfatico. Questo rende difficile lo sviluppo della storia, che perde di centralità, così che spesso (per i più volenterosi) inizia un processo (necessario) di limatura dello stile.

Nessuno di questi, sa però che cosa si intenda più da vicino con il termine “barocco”.
Per prima cosa bisognerà dunque porre una precisazione.
Il romanzo che abbia una caratteristica che sia figlia di una certa linea secentesca (e preciso perciò, che non s'intende i soli Gongora, Guarini, ma anche scrittori del decadentismo da Carlo Dossi, a D'annunzio ad Arbasino etc) la parola diventa contigua.

Lo scopo che ci si prefigge è in tal caso il raggiungimento di una coincidenza fra la forma e contenuto.

Non è più l'oggetto della storia in sé a interessare (oggi facilmente sostituibile dal cinema, la televisione, internet etc) ma piuttosto le parole stesse, che nel point of vieu soggettivo dell'autore, diventano ombra dello sguardo in sé dietro il quale possano rivelarsi tutti i mondi possibili.
La letteratura in tal caso è contigua fra la verità e il suo contrario, e per ciò stesso acquisisce un valore di autenticità, in quanto l'oggetto in sé non si presenta più come il cuore di un mondo dotato di tutti i suoi elementi di oggettività. I romanzi di Tolstoj, Dostoevskij, Mann, fanno parte di una tradizione che diventa sempre più difficile da perpetuare, proprio perché nessuno scrittore contemporaneo potrebbe riuscire a scrivere un bel (PRECISIAMO, BEL) romanzo di 600 pagine e farsi leggere con la più grande sincerità da parte del lettore.

La letteratura è oggi più prossima a una nuova forma di barocco, dove lo scrittore non può che fare emergere nel tramite delle sue parole, il suo sguardo sul mondo, messo a servizio di una narrazione lanciata a tratti, spezzata, mai vera, dove il limite è fra lo sguardo del lettore e la parola che si fa assente in un intimo contatto fra i cuori, come un fiume entro il quale disperdersi, messo in mostra dalla traccia dello scritto, testimonianza pura che porti per paradosso alla scomparsa dell'ego, e perciò della "realtà" stessa.

La letteratura serve (oggi) proprio a depurare il visibile del reale (troppo reale).

Essa porta con sé la consapevolezza di quanto tutto ciò che esista possa esserci suggerito dal linguaggio e da esso soltanto.

Per questo essa deve essere contigua, cioè non più avere come oggetto di narrazione le cose.
Non più dare valore a una finzione riconosciuta dai molti come la meglio accettabile, ma piuttosto avere come oggetto la letteratura stessa, come strumento oltre il quale perdersi per giungere a toccare i mondi immaginati con il massimo di quel contatto concesso dalla parola nuda, unica testimonianza oltre la quale non vi sia che il nostro stesso divenire, affine a quello dell'autore, dove non c'è alcuna distinzione fra gli esseri, e dove la letteratura diventi non più il monumento di una illusione, ma un punto di contatto, dal quale rendere vivi i sogni, in una verità totale di superficie, barocca e contigua.


Luca Atzori

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