giovedì 22 dicembre 2011

LA VOLONTA' DIVISA

recensione di Dino Mangiascarpe

21 dicembre 2011

Con Emilio Bonelli
Regia di Luca Attori
Musiche Alessandro de Caro
Grafica Monica Petronzi
Tecnico luci Ezio Olivato

Produzione P.ARS

Seconda tappa: gli uomini bisogna guardarli dall’alto

Per questa seconda tappa, è stato scelto come luogo di collocazione de la “Volontà divisa”, il Rainbow, un locale nella zona del quadrilatero romano di Torino. È stata scelta la zona sotterranea, dove in tre diverse stanze è stata trasferita la drammaturgia scenica della prima versione svoltasi all’Espace il 13 dicembre.
Paolo Hilbert, un sociopatico disgustato dal genere umano, progetta una sparatoria con la quale spera di sfogare il suo antico rancore. Pressappoco questa è la tematica.
Nella rappresentazione di Luca Atzori, Paolo usa come interlocutore un pesciolino rosso dentro un acquario, forse a cercare un confronto con qualcuno o qualcosa che possa si ascoltarlo, ma insieme non capirlo.
Che dire sulla resa?
L’attore dimostra certamente di avere una grande espressività e una determinata forza nel mantenere in piedi tutta la vicenda.
Ma l’esito del lavoro sembra dannatamente incompleto. Certo, è un work in progress. Ma sorgono spontanee alcune considerazioni:
Innanzitutto, trasferire una messinscena pensata appositamente per uno spazio teatrale, all’interno di tre stanze strette, significa inevitabilmente ri-contestualizzare tutto il lavoro conservandone le parti più essenziali. Se però consideriamo il fatto che l’attore è costretto a interagire con il pubblico in una situazione in cui non gli è concesso di pensare insieme a dove posizionarsi, che movimenti fare, come dire le battute e sotto quali luci posizionarsi, allora possiamo intuire che probabilmente è saggio escogitare un modo per donare all’attore la completa consapevolezza (fisica e perciò mentale) del personaggio.
Emilio Bonelli risultava talvolta essere macchinoso nel suo spostarsi da una stanza e l’altra, come se dovesse adempiere a un dovere. Talvolta si avvisava l’urgenza di dire la battuta, certo nel migliore dei modi possibili e con tutta la forza drammatica necessaria, ma pur sempre ai fini di adempiere a un compito.
Il primo pensiero che ho fatto è stato “non hanno lavorato abbastanza sul personaggio. Ovvero non hanno approfondito a livello fisico, non si sono addentrati nelle profondità. Non hanno abbastanza analizzato ed esplorato”. Poi ho pensato, che invece, il problema è che a Emilio, Luca ha dato si le indicazioni su come svolgere il lavoro, conducendolo verso un’espressività il più autentica possibile, ma il tutto occupandosi solo della resa attoriale, carica del difetto di non essersi svelata (all’interno della location del nove) in tutta la sua potenzialità di significato. Mi è sorto così una considerazione “ma è proprio solo l’attore che deve fare un lavoro sul personaggio, oppure anche il regista?”.
Il regista, è vero che se desidera fare un lavoro che non resti limitato al semplice invio di comandi, deve partecipare con l’attore nella costruzione della messa in scena, ma a maggior ragione egli stesso dovrà essere l’attore, anche se non andrà in scena.
Fra attore e regista, nei lavori ben svolti, credo si venga a creare una relazione empatica, per la quale l’esito non mente mai sull’effettiva condizione cui si è giunti mediante la creazione. Forse, Paolo Hilbert, non è stato digerito ancora nemmeno da Luca Atzori, ed è per questo che si pone un limite alla intensità espressiva di Bonelli. È vero che il lavoro lo fa l’attore, ma alle volte è davvero sufficiente (almeno in uno spettacolo di narrazione come questo) che sia il regista ad aver approfondito prima il personaggio. Intendo nella sua immaginazione. La fisicità, la condizione esistenziale, i tic, sono conseguenza di una approfondita comprensione del testo. Non è necessaria la fedeltà assoluta al testo, ma almeno la visione chiara della propria interpretazione. Questo lavoro, se svolto dal regista, permette poi una collaborazione dove avvenga un risparmio di tempo, perché a quel punto la conduzione sarà molto più diretta, e non si lascerà l’attore in una palude creativa dalla quale ambire di trarre una sorgente. Porre come alternativa alla procedura stil-novistica dei teatri stabili, un metodo che cerca di tirar fuori dall’attore le emozioni sopra l’impalcatura di una drammaturgia scenica che ambisca a parlare da sé, risulta essere incompleto. Perché è la vita di questo personaggio a dover scaturire. La sua realtà. Non importa se poi verrà spezzata, annientata, anche ridotta se vogliamo al silenzio, ma quel viaggio negli inferi deve essere svolto. E non basta farlo fare all’attore, deve impegnarsi anche il regista. Anzi, di più. Il regista, deve sentire, quando lo spettacolo sta per iniziare, la stessa ansia e lo stesso ribollire dell’attore. Perché così è, il teatro è un’alchimia. Ricordare i propri sogni e interpretarli, è come ricordarsi della realtà e farne un rituale, o, appunto, uno spettacolo teatrale, che ci chiede di interpretarlo. Scriverei, se ne avessi tempo, un libro intitolato l’interpretazione della realtà, come seguito all’interpretazione dei sogni di Freud, ma invece della psicoanalisi l’argomento sarebbe il teatro

Ma a parte le divagazioni, io credo che l’attore non sia mai da solo (salvo nei casi in cui l' attore sia anche regista e quant’altro). La responsabilità di tutto quel che avviene, è di chi dirige.
La collaborazione avviene quando l’attore fa in discesa il percorso che per il regista è stato una salita. Quindi si, è vero, ci si deve confrontare con un attore di formazione classica, ma a maggior ragione, se le indicazioni fossero ancora più dettagliate ( e non nego che già lo siano state) l’attore avrebbe modo di fare il suo lavoro senza dover troppo muoversi nel vuoto alla ricerca di una comprensione. Attore e regista sono uniti, come da un filo invisibile. Li lega la creazione che richiede a entrambi lo stesso sforzo. Non è la messa in scena a dover suscitare interesse, ma quanto sia completa la concretizzazione di un personaggio.
Stanislavskji proponeva agli attori e ai registi un lavoro dell’attore (su sé stesso e sul personaggio) ? benissimo. Allora proponiamo anche un lavoro del regista. Proponiamo al regista di conoscere meglio il fantasma e vedrà che poi farlo calzare, diventerà molto più semplice. La taglia che veste l’attore la conosce già, ora tocca solo completare bene la seduta spiritica nella quale da novello si è imbattuto.

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