Oggi ritengo che l'importanza della letteratura sia tanto trascurata, quanto più urgente e necessaria. Il ciarpame di pseudo-letterati, scrittori e teatranti che emergono per inquinare la nostra immaginazione (già di suo poco allenata, fra clakson e allegrie di secondo uso) sono contraddistinti da una leggerezza immensamente irritante, a metà fra leziosi mugolii e l'ironia “della sorte” dello stereotipo accecante che contraddistingue lo scenario. La causa di questo (per niente sorprendente) avanspettacolo culturale, ritengo che sia da rilevare in un esile fraintendimento dal quale è difficile venir fuori, come trovandosi ad essere serrati in un labirinto irreparabile e paradossale.
La letteratura, innanzitutto, è sempre leggera. La poesia, il romanzo, il dramma, lo sono stati da sempre. La parola “leggerezza” va però assunta nel suo più stretto significato umano, quello dove le parole si trovino a carezzare (anche fino a gettare nella più totale malinconia) il cuore del lettore. La leggerezza può essere un modo che abbiamo per concederci di essere deboli, per indagare a fondo le emozioni, la forza del dettaglio descritto nel mezzo delle pagine dove si nasconde la natura più intima di ogni ricordo, e quindi di ogni senso.
Gli occhi di chi non legge, sono abituati alla realtà, a leggere la realtà, e le proprie emozioni ne prendono la forma. Somigliano a grossi macigni, mura, tavoli, masse di gente. Emozioni grandi, ma accecanti.
La letteratura serve a rimpicciolirle le emozioni.
La letteratura è una concessione all'interiorità, che di per sé, siamo d'accordo, è costante, e che grazie a quell'alleggerimento, abbiamo modo di rafforzare, nel valore di semplicità, senza cedere alla sfida dell'ascolto.
“è la mia peculiare malinconia
composta da elementi diversi, quintessenza
di varie sostanze, e più precisamente di
tante differenti esperienze di viaggi
durante i quali quel perpetuo ruminare mi
ha sprofondato in una capricciosissima
tristezza.
Non è una melanconia compatta e opaca, dunque, ma un velo di particelle minutissime d'umori e sensazioni, un pulviscolo d' atomi come tutto ciò che costituisce l'ultima sostanza della molteplicità delle cose.”
(Italo Calvino, Lezioni americane)
Quella malinconia descritta da Shakespeare e ripresa da Calvino, viene detta fra le parole solventi, sublimi e leggere, dove non vi è concessa opacità, ma la freddezza del più puro sentire. Non è dalla sofferenza che la letteratura cerca di far fuggire, ma piuttosto, al contrario, dal quotidiano, dalle manie nelle quali ci intrappola un ritmo anestetico (e antiestetico) dove quell'assenza di dolore si rivela essere la condanna più insopportabile.
Spesso, invece, la letteratura, presa ad ampio raggio, si occupa piuttosto di intrattenere, distogliere dalla sensazione, portare ad un alleggerimento frivolo e violento. Un risveglio degli occhi e delle sue nevrosi, ma non significano niente, se non l'ascolto mediocre degli altri e te stesso (mediocre), la maschera assunta dai loro sorrisi isterici. Le notti alcoliche fatte di voci e rigurgiti a verità dichiarate, narrate fra gli schermi televisivi o le vetrine, dove i colori chic fanno luce agli abiti che vestono i corpi freddi e sarcastici di Paolo e Francesca corrotti dai loro demoni.
Quella che dovrebbe essere una via d'uscita fuori dalla nevrosi del quotidiano, si rivela esserne la principale via d'accesso. Le coscienze frammentate e la chiaroscurale schizofrenia descritta ad esempio in quelle neoavanguardie che declamavano crittografie, polveri da sparo, fegati e indemoniati nulla (cit) si rivela essere l'unico luogo di sur-realtà che diventi oggi proprio dell'ispirazione.
Costretti a parlare di telefoni cellulari e canali pornografici, dove ciò che inquina è il loro significato insediato come calcare nella koiné aisthesis.
Niente da dire sul fatto che sia inevitabile, e che siamo costretti a questa triste ironia, dove la nostra lotta è fatta di parole che contestino e risparmino i calci e gli schiaffoni.
Oggi possiamo solo ringhiare i nostri contenuti, e lo facciamo per la sopravvivenza.
Ma niente da dire neppure sul fatto che siamo gettati a forza in una parodia della parodia, e che, sia comicamente che tragicamente, il flusso della vita che tentiamo di portare avanti con integra dignità, lo ritroviamo spezzato. Laddove i significati sono stati fatti a pezzi abbiamo bisogno di crearne di nuovi, e forse l'unico modo che abbiamo per iniziare è partire dal silenzio. Come diceva quel certo personaggio felliniano: “Siamo soffocati dalle parole dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita... che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artista veramente degno di questo nome non bisognerebbe chiedere che questo atto di lealtà: educarsi al silenzio."
Luca Atzori
giovedì 16 giugno 2011
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