sabato 24 dicembre 2011

IL PARADOSSO DI LEOPARDI

Sosteneva Francesco de Sanctis, che nella poesia di Leopardi riposasse un recondito e profondo vitalismo. Osservazione acuta, ma al contempo superficiale e inesatta se si vuole prestare occhio all'opera del poeta nell'insieme. Perché è vero che quella continua e ossessiva rappresentazione della morte crei per effetto contrario il riaccendimento della vita stessa, ma è anche vero che è proprio lo stesso dolore ad essere il centro di attenzione nel tormentoso paradosso Leopardiano. Il dolore come resto fossile della vita autentica.

In che cosa consiste più precisamente questo paradosso?

C'è nella poesia di Leopardi un attrazione spuria per la purezza più originaria. Una fascinazione di provenienza reazionaria e al contempo assetata di liberazione. Consapevole, quindi, della condanna cui poggiamo che porta il nome di Storia. Un perenne stato di distanziamento dalla felicità, ma visto da vicino nel suo accadere necessario.
Ed ecco che rievocato il senso di questo paradosso, comprendiamo come per Leopardi non possa esserci felicità nell'aspetto di vita vicino al sociale, all'allegro convivialismo, nella comunicazione rimembrante, la risata istantanea e condivisa. L'amore che Leopardi mostra verso la vita è totale, afferra tutta la sua sostanza come a presagire l'ultimo sospiro. Un amore che lo portò a ingobbirsi, nella ricerca di poter giungere a ciò che si è perso.
Anelare sospirante all'impossibile, come unico spirito nascosto.


“Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. “ Zibaldone 1820


La consapevolezza della condizione umana nella peculiarità del suo esser rea d'aver inventato il piacere, la gioia, il dolore stesso. La natura diabolica della divisione. L'uscita fuori dal giardino dell'eden, dove non vi è piacere né dolore. L'amor fati come resa illusoriamente finale, perché sempre addossata come destino ineluttabile. Il dolore stesso è una condizione necessaria. Si presenta come aspetto della vita stessa. Come l'unico effettivo. Come se in Leopardi tutto il possibile fosse esistente, e per ciò stesso ci si debba confrontare appieno, fino a rimanere in quel “bruscolo” che è poco più di un nulla, che siamo noi, dove niente accade di distinto per ciascuno. Quella povera cosa che noi siamo, che è nell'effettiva condizione della sofferenza, e rende possibile la duplice natura come conditio della contemplazione.


“...Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni,
Se celebrata mai
Fosti da me, s'al tuo divino stato
L'onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai,
Non tardar più, t'inchina
A disusati preghi,
Chiudi alla luce omai
Questi occhi tristi, o dell'età reina.
Me certo troverai, qual si sia l'ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
Erta la fronte, armato,
E renitente al fato,
La man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente
Non ricolmar di lode,
Non benedir, com'usa
Per antica viltà l'umana gente;
Ogni vana speranza onde consola
Se coi fanciulli il mondo,
Ogni conforto stolto
Gittar da me; null'altro in alcun tempo
Sperar, se non te sola;... “ amore e morte, i canti


È onnipresente l'ambiguità e il doppio, nella poetica leopardiana. Come quando egli confonde l'amore con la morte. Forse perché è la lotta contro l'indifferenza che solo nell' amore e la morte stesse si rende manifesta. L'indifferenza dell'ingiustificato. Di tutto ciò che non sorge come anelito espressivo di verità, se con questo termine intendiamo l'unità originaria nei confronti della quale siamo resi ciechi, e che declamiamo in preghiera silente dentro il cuore, come atto creatore ex nihilo, dove forse la speranza è quella di tendere non tanto alla creazione, ma più precisamente al ricongiungimento. E forse si nasconde proprio lì la chiave della coincidentia oppositorum fra amore e morte, laddove nell'unità indistinta, non esiste per definizione, alcuna distinzione.

Luca Atzori

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