venerdì 26 giugno 2009

APOLOGIA DEGLI SBANDATI

Nel suo saggio Teoria del partigiano, Carl Schmitt traccia una netta distinzione fra la figura del combattente regolare e quello irregolare, dove la prima intende significare i soldati vestiti con l’uniforme, sottostanti a regole impartite dai superiori responsabili, giustificati insomma dallo Stato e l’ordine costituito, mentre la figura del partigiano è definita invece come irregolare, proprio in quanto non porta addosso alcuna uniforme o segno distintivo, ma è piuttosto mossa da un’ ideologia politica di cui sente di far parte, e che è anzi primaria sostanza del suo partito (da cui riscontriamo l’origine etimologica del termine, appunto, di partigiano, partisan). Ma la caratteristica più importante che ritroviamo nell’analisi condotta da Schmitt, è proprio quella fatta a proposito del Carattere Tellurico, cioè del ruolo che il combattente ha di difendere il proprio territorio invaso, la propria terra, il proprio nomos.
Qui potremmo riconnetterci con quel concetto di politico (caro a Schmitt) che si articola nella distinzione di amico e nemico.
Il partigiano dovrebbe essere colui il quale si difenda da un invasore, e dunque da un nemico (reale). Questa inimicizia, però, sostiene lo studioso, è diventata per alcuni (Lenin, Mao etc) assoluta, cioè contraddistinta da una demonizzazione intrinseca delle diverse figure che si pongono apriori in conflitto con gli elementi dell’ideologia di cui il combattente si fa portavoce. Esito ne è che l’irregolarità del partigiano diventa costretta a regolarizzarsi, cioè a usare l’uniforme, e dunque ad assumere non più il solo ruolo di difesa, ma anche (e in particolare) quella di attacco, proprio in quanto il nemico assoluto va combattuto a prescindere dal fatto che esso invada o meno il territorio. Facendo questo, però, non ci si accorge di essere approdati fra i tentacoli di quel famigerato Leviatano, che prima di ogni altra cosa desidera che le sue prede restino immobilizzate, donando loro l’illusione del dono d’ una sorta di quiete permanente. L’esito è che se ne resta incantati.
Il Leviatano è lo Stato posto al di sopra di ogni libertà.
Esso è un regolatore automatico.
Ogni qual volta la lotta partigiana incontri la quiete, essa si china di fronte al compromesso, incontrando quegli abiti che si è costretti ad indossare per rendere legittima la propria guerra. E ogni guerra è legittima solo in quanto assecondi i rapporti di forza che sussistono fra i vari Stati e le nazioni, dove proprio quella dimensione della terra, o anche del “bosco”, Wildnis per dirla con Junger, sono totalmente occultate. Da ciò ne segue che anche il ribelle e il partigiano vedono stringere sempre più il proprio campo d’azione, le proprie possibilità, proprio perché quell’ideologia che muoveva la loro lotta, è stata minimizzata in un sentimento più primordiale e non abbisognante di giustificazione alcuna: la rabbia.
Sede della lotta, è dunque oggi l’atto il quale non abbia da essere spiegato. Proprio perché il campo che più d’ogni altro vediamo essere invaso, è quello della vita, unico territorio che ci si ritrovi ad essere legittimati a difendere.
Non vi sono più occhi che possano tacciarci di qualsivoglia infamia, o controllare le nostre azioni, poichè noi siamo finalmente s-velati sulla nostra zattera, mentre ci imbattiamo nella tempesta, morsi dalla peste, deliranti di quel sentimento caritatevole, che purtuttavia rimane crudo.
Oggi bisogna solo più addestrarsi a lottare incessantemente, senza desiderare di sostiuirsi ad alcun governo. La lotta partigiana italiana, divenuta un semplice simbolo (causa repubblica democristiana), necessita di continuare a svolgersi, severamente, accettando un unico possibile approdo, cioè la morte, proprio in quanto l’unico territorio che essa difenda è la vita stessa, che è come un riflesso del partigiano stesso: mobile, irregolare, svestita, e soprattutto necessariamente sbandata.

Luca Atzori

sabato 13 giugno 2009

FENOMENOLOGIA DEL SODOMITA


La sodomia è in sé una forma di negazione della stessa sfera sessuale intesa nel senso più naturale del termine. Essa può essere pensata come una forma di tensione “(anti) erotica” totalmente mirata ad un’esaltazione culturale.

La sodomia (etero e omo) va intesa come la più totale negazione dell’erotismo stesso.

Una seria distinzione deve essere fatta fra la sfera del sesso che, seppure non indirizzato alla procreazione, resti mossa da un desiderio e una pulsione naturali, e quella che invece è una sfera meramente Culturale, dove anche l’erotismo viene meno e ci si trovi su un altro piano: quello della Neutralità oscena.

Ora giustamente mi si dirà, il gay, o comunque il sodomita, non son certo “uomini di cultura”, in virtù delle loro preferenze sessuali. Questo è chiaro, ma quando intendiamo tali elementi, piuttosto li consideriamo nel loro senso più generale, quasi ne facessimo una fenomenologia.

Il culo è sempre stato l’oggetto delle considerazioni del libertinismo, più degli organi genitali e tanto meno di tutte le “situazioni” erotiche di derivazione prettamente femminile. L’interesse che i libertini descritti da De sade, provano per la sodomia, è mirato non tanto a una tensione erotica di conquista, godimento etc, ma piuttosto come un veicolo di “neutralizzazione” della propria stessa identità, e per ciò stessa davvero Culturale, filosofica e contronaturale.

Così come nella “Storia dell’occhio” di Georges Bataille, dove la protagonista Simone non vuole assolutamente essere penetrata in altre parti se non nel suo culo, in quanto considera che le altre maniere debbano essere riservate alle madri e ai padri.

E in questo c’è da considerare un punto di fondamentale importanza. Quella che Deleuze nell’Anti-Edipo chiama la Macchina Desiderante, è quanto stia fuori dal meccanismo della “Catena di Montaggio”, (l'inconscio -es- piscia, caga, mangia e fotte) fuori della trasmissione, fuori della essenza sociale, fuori dal tessuto storico, si è in quel tempo che lo stesso Deleuze nella “Logica del Senso” riporterà in piazza direttamente dalle tracce dello stoicismo, e cioè l’Aion. Esso è quel tempo inteso a definire la condizione in cui non esista presente, ma esistano solo passato e futuro, e che dunque consista nell’ istante più impercettibile, impalpabile, fuori della memoria e dalla scena, per l’appunto: Osceno.

O meglio, intenderemo dunque la zona che non è nemmeno possibile visitare, dove anche il sesso diventa l’ accesso dell’essenza inconscia, portata fuori da ogni qual si voglia schema identitario, ogni moda, ogni tessuto morale e culturale, ogni qualsivoglia forma di nominazione, ogni coscienza, fuori dall’uomo, dalla stessa natura, fuori dallo stesso fuori e dunque dalla possibilità di un dentro.

Essere divini (e questo anche i pagani lo sapevano benissimo) significa trovarsi in quella condizione di totale sovrapposizione da ogni collocazione spazio temporale. Per questo la sodomia, intesa come l' atto più anti erotico, nega assolutamente lo stesso atto sessuale, sovvertendolo.
Precisiamo: non trasgressivo, non s’intende cioè, una violazione di norme, ma la totale negazione, l' oblio, il superamento di esse, mediante la incanalazione della propria energia su un piano che non è quello della normale libido, ma le è piuttosto, totalmente parallela, oltre che sublime specchio (e al contempo ad essa complice avversa).

Luca Atzori

giovedì 11 giugno 2009

CRISTIANESIMO E CANNIBALISMO

Il cristianesimo, in particolar modo nel sacramento dell’eucarestia, è la più effettiva “burocraticizzazione” del cannibalismo.

Per rendere possibile l’argomentazione di questa mia sentenza, è necessario che si introducano qui i due concetti di eucarestia e cannibalismo.

La prima è il perno attorno cui ruota tutta la cerimonia cristiana. La parola trova la sua derivazione etimologica in eucharisto (che significa rendere grazie), e indica quel sacramento il quale venne istituito da Cristo, secondo quel che viene narrato nei vangeli. Più che un rituale può essere inteso come una vera e propria regola. Durante l’ultima cena Cristo offre il pane e il vino in sacrificio, come corpo e sangue di cui i discepoli si nutrono (simbolicamente).

Dico che è una regola e non un rituale, proprio perché non è l’incontro di persone e l’evocazione accompagnata da gesti specifici a rendere possibile il miracolo, ma questo avviene per ciascuno, viene vissuto passivamente in quanto è stato fissato, svelato, eternizzato (burocraticizzato, appunto).

Il cannibalismo, invece, avviene soprattutto come rituale. È stato ed è ancora presente, il fenomeno, in diverse culture (soprattutto fra gli indiani d’America). Durante le battaglie, gli indigeni di queste tribù, frequentemente avevano l’abitudine di mangiare la carne del proprio nemico, dopo averlo ucciso, al fine di ricavarne la forza, in quanto credevano che l’anima risiedesse nel corpo stesso.

Ora, qual è, più precisamente la differenza fra il rituale e la regola?

Il rituale ha bisogno di essere accompagnato da gesti e azioni che permettano che si realizzi il fine. Ma quel che in esso si genera, nonostante gli atti ripetuti siano sempre i medesimi, è accidentale. Sono gli uomini a far si che questo conservi il suo valore. Mentre invece la regola è fissata in una sorta di codice, e non sono gli uomini a generarla, ma è essa a costituirsi antecedentemente o meglio indipendentemente dall’uomo.

Che cosa succede dunque nell’eucarestia? Cristo trasporta il suo sangue e il suo corpo, su un piano ideale, simbolico, e per far si che questo avvenga dona ai suoi discepoli il pane e il vino. Questi, in tale circostanza cerimoniale, ne daranno il valore che Cristo avrà loro segnato, ma lo faranno grazie alla transustanziazione, ovvero a quel miracolo per cui pane e vino conserveranno solo accidentalmente la loro apparenza, mentre la loro sostanza effettiva andrà a coincidere con quella divina per l’appunto. E c’è dunque un’eternizzazione del corpo e del sangue. Ciò sta proprio a significare questo, ovvero quel che Gesù fa è un dono: quello dell’eternità dell’anima.

Poi avviene la crocifissione, ove il nemico è pubblico e ha scelto di non lottare. Subisce solo. Facendo questo fa dono a tutti gli uomini della sua salvezza.

Ma analizziamo meglio... i discepoli mangiano il pane e bevono il vino, proprio perché questi significano corpo e sangue (pur non essendo tali); ma se l’ultima cena fosse consistita nell’atto di sbranare il maestro da parte dei discepoli, di certo non avremmo riscontrato l’eucarestia. Questo poiché trasportando su un piano trascendente quella che è la materia umana, si genera appunto un sacramento. E quello che Cristo compie è propriamente un sacrificio, in quanto egli genera un qualcosa di sacro, e per far questo si priva di qualcosa, ovvero della sua stessa vita, e la trasporta verso Dio. Quel sangue e quel corpo sono doni che vengono offerti a Dio, e quel che resta agli uomini è solo l’elemento simbolico. Così ogni qual volta noi partecipiamo al sacramento dell’eucarestia, in realtà ci nutriamo dello spirito santo, e dunque ci appropriamo di quella forza che appartiene a Cristo, la quale è per l’appunto trasportata su un piano spirituale, e dunque eterno, proprio perché non ha bisogno di un gesto perché avvenga (come appunto cibarsi del proprio nemico).

Cristo segna dunque una distinzione fra due mondi: quello celeste e quello terrestre.

L’analogia di cui potremmo servirci è quella della banca, in cui non sono realmente conservati i nostri averi, ma sono piuttosto registrati, ed esistono dunque solo su un piano astratto, convenzionale.

Per questo il cristianesimo è la burocraticizzazione del cannibalismo: proprio perché ha donato la stessa carne e sangue, dunque la vita, l’ anima dell’uomo, a Dio, il quale non viene più identificato con la stessa sostanza umana. Il cannibalismo, che è effettivamente una delle prime e maggiori forme di cultura (proprio perché con esso si ha una “colonizzazione” dell’Altro) viene sostituito con una dottrina che fa diventare quest’Altro il trascendente stesso, portando perciò nell’uomo la speranza di un’altra vita, imprimendo questa come una vera e propria norma eterna.

Luca Atzori

IL SESSO DEGLI ANGELI (Considerazioni sulla prima Elegia Duinese di Rilke)

Si inizia con un grido mancato, la dichiarazione di un eco strozzato nel pieno della visione di un mistero metafisico (ricorrente nel procedere pensante in Rilke). Un incipit che richiama alla condizione umana, alla sua limitatezza, al suo (sostanziale) essere povera cosa.
Rilke utilizza la figura dell'Angelo, del messaggero, dell'ente dotato di compiutezza ontologica, paragonabile ad una fotografia, estraneo alla temporalità, il quale lascia all'uomo la sua condizione di soggiogamento al divenire (specifica del suo esserci), e già conchiuso in sé, senza progetto, ma rivelato e imploso, in poche parole paradossale.
Così pure come nel libro delle immagini (sempre di Rilke), vi è la lirica Annunciazione dove al contrario l'Arcangelo Gabriele, persosi nella terra dice a Maria: "Lo spazio mi ha vinto" (e dicendo questo perde il suo messaggio nella dimenticanza). San Giovanni della Croce parlava di "luce tenebrosa e tenebra luminosa", l'unica macchia di senso che di per sé può essere considerata come il più esemplare abbaglio di non-sense.
La bellezza è inizio del tremendo proprio perché superficie di quell'impensabile e irrapresentabile, nel quale non è riscontrabile strumento alcuno che costituisca un elemento utile alla progettualità umana.

L'uomo che spera di veder provenire una risposta dalle "labbra" dell'Angelo, invano. Lo sguardo non può che rivolgersi verso il mondo quotidiano, verso quell'albero qualunque, l'uomo, il suo mondo.
E poi Rilke parla della Notte, dove fa entrare gli innamorati, che nient'altro fanno se non "celarsi la sorte l'un l'altro".
La sorte di cui si parla è indubbiamente la morte, dalla quale gli amanti cercano di fuggire dimenticandone la inesorabile realtà. E questi si perdono, difatti, nell'illusione di cadere l'uno nell'altro.

I Santi si avvicinano a Dio non solo fuggendo dalle cose terrene, ma ricercando nella perdita di sé la vera interiorità, il regno dell'immanenza, l'innocenza animale.
Perdita, perciò, del concetto di Storia, di Memoria, così come gli angeli che non possiedono un "telos", e che non muovono in alcuna direzione i loro gesti (non sanno, appunto, se vadano fra vivi o fra morti).
Lo stesso vale per ogni forma di teologia: in esse si possono fornire domande irrispondibili, questioni aperte, e non si possono articolare risposte, se non in forma dogmatica, come nella religione cosiddetta "cattolica" che significherebbe "universale".

Come cercare di rispondere alla domanda: qual è il sesso degli angeli?

Luca Atzori

MASOCH L'EDUCATORE


Leopold Von Sacher Masoch è stato uno scrittore austriaco vissuto nella seconda metà dell’Ottocento. Il suo nome è noto principalmente per essere entrato a far parte della terminologia psicoanalitica a indicare la patologia di chi gode nel ricevere dolore (masochismo). Certo è che in realtà i suoi meriti sono ben altri: il suo talento letterario ad esempio, i bellissimi romanzi in cui descrive quella che è stata poi catalogata come una delle più serie perversioni, descritta come l’unica forma di amore da egli conosciuta.

Nel suo più famoso romanzo La venere in pelliccia, si narra proprio di questa storia amorosa “contrattuale” che egli visse con l’aristocratica galiziana Fanny Pister Bogdanoff nel 1869, anno in cui per sei mesi egli si comportò a tutti gli effetti come un autentico schiavo, sotto accordo, pregando la crudele compagna di indossare solamente una pelliccia durante i loro rapporti sessuali.

Fanny (Wanda nel romanzo) come tutte le altre donne descritte da Masoch, è un’ immagine divina, manifestazione della più tremenda e celata natura, demone elegante che ogni lusinga in eccesso tramuta in bestemmia. Ella è, essenzialmente, una madre che esige di essere adorata.

L’inizio del loro rapporto avviene contrattualmente, come giustamente fa notare Gilles Deleuze nel suo Presentazione di Masoch, a differenza della meccanica sadica in cui il carnefice istituisce egli stesso le sue leggi.

Quello descritto da Masoch è l’uomo pensatore, l’intellettuale, colui che vive rinviando e che dunque non vive, o almeno lo fa a metà. Colui che ha bisogno di andare contro la natura perché questa gli si manifesti. Le donne di Masoch, difatti, non sono mai completamente svestite. Lasciano trasparire i loro corpi dietro pellicce, stivali, indumenti di pelle, accompagnate da fruste e altri feticci.

Quella che noi siamo abituati a denominare con il termine Masochismo, era dallo stesso scrittore indicata come una dottrina avente il nome di sovrasensualismo, ovvero come sublimazione dell’amore negli oggetti, un rigoroso movimento contronatura che vede prediligere la sfera “onirica” a quella reale: “munirsi di ali” come dice Masoch, sospendere cioè gli atti per riportare l’attenzione della vittima verso un’immagine irreale, un fantasma o una statua, una sorta di fotografia, che potremmo benissimo confrontare con l’Angelo descritto da Rilke nelle Elegie Duinesi: tremendo e indifferente. Ed effettivamente la vittima può essere paragonata benissimo al poeta che arrivando alla piena consapevolezza della sua incompletezza contro la perfezione ontologica dell’angelo, prova una sorta di estasi, che si manifesta nel suo stesso canto.

Così è per Masoch: il suo essere sottomesso insegue la ricerca dell’estasi (ec-stasis, l’uscire fuori da se, l’assoluto districarsi). Ma l’unico mezzo che conosce per permettere che questo avvenga, è proprio quello dell’educazione totale di sé, la punizione, una correzione talmente totalizzante da provocare per paradosso l’effetto opposto, ovvero quello della più pura corruzione, l’esito più Santo e per ciò stesso Osceno.

L’esempio più assoluto di personaggio masochista, è proprio quello di Gesù Cristo, che arriva a farsi uccidere pur di mutare se stesso in spirito.

Un’educazione, quella di Masoch, mirata al trasmutamento della propria sensualità, che lo porti a desiderare di far parte di quel riflesso che vede di se stesso allo specchio, per essere pari ad un’opera d’arte, essere cioè annullato nella perfezione estetica.

Deleuze fa difatti notare inoltre come il masochista sia sostanzialmente un esteta, a differenza del sadico. E in tutto questo discorso si ruota principalmente attorno all’Amore, ovvero a questo propulsore che permette di avvicinarsi a quella figura eterica e che porta al mutamento, facendo questo, della materia stessa. L’amore inteso, dunque, come gesto più spietatamente anti-naturale. L’amore freddo, indifferente e dunque effettivamente più reale e al contempo divino.

Luca Atzori

COGITO ERGO EST

Tutta la storia della metafisica ruota attorno ad una questione fondamentale, ovvero quella concernente l’Essere. Il primo che si pose tale problema fu Parmenide di Elea, che con la sua celebre frase “l’essere è e il non essere non è” segnò l’alba di quella disciplina che ancora porta il nome di Ontologia (cioè discorso sull’Essere).

Premesso questo, potremmo iniziare col porci un primo quesito di fondamentale importanza: perché farsi domande sull’Essere?

Una risposta l’ha fornita Aristotele sostenendo che gli uomini se lo domandino perché ne sentono l’emergenza della meraviglia.

Meraviglia si, ma di cosa? Forse del fatto che tutto esista? A tale proposito possiamo citare la famosissima domanda di Heidegger che dice: perché l’essere e non piuttosto il nulla?

Quando ci troviamo dinnanzi a questa verità, diventiamo consapevoli di non poter in alcun modo andare oltre l’Essere, o più precisamente oltre il pensiero dell’Essere.

Pensiero che teoricamente dovrebbe essere posseduto dal soggetto pensante, per l’appunto. Ma è forse vera la celebre affermazione cartesiana che dice Penso e dunque sono? (Cogito ergo sum).

L’essere nostro dunque oltre quello delle cose?

Ma io vorrei ribaltare questa concezione. Quando noi diciamo che il bicchiere “è” sul tavolo, che cosa intendiamo? Fuori dalla nostra percezione, e dunque fuori dal nostro linguaggio, QUEL bicchiere E’ realmente sul tavolo? Piuttosto l’oggetto del nostro interesse è forse quella cosa che noi chiamiamo bicchiere, oppure è la stessa parola che nominiamo? Ma ancora, è più scottante il fatto che quel bicchiere SIA, oppure che cos’altro?

Qui determiniamo un punto di centrale importanza, ovvero non tanto quella dell’Essere delle cose, ma piuttosto del Verbo Essere stesso. Fuori di esso, in effetti, di che cosa si può dire che esista? E’ addirittura impensabile che qualcosa vada fuori dal verbo essere, poiché questo include tutto, o meglio tutto si include in esso. Ma dunque quella distinzione fra soggetto e oggetto, può essere ancora forte? Il soggetto in relazione all’oggetto, si ma l’essere stesso del soggetto pensante, è anch’esso un pensato, dunque è oggetto di pensiero. Tutto ciò che è pensato è oggetto. Tutto, anzi, è oggetto.

Ogni qualvolta noi usiamo il linguaggio, diciamo qualcosa che non è quel che vorremmo dire, ma è quel che diciamo. Dunque il linguaggio, in un certo senso, ci precede.

E considerando dunque il concetto di Esserci (Da-sein), se si è compreso che quest’ essere non va più inteso come semplice presenza, ma solo più come una "lampada", allora possiamo andare ben oltre il concetto di Esserci. Difatti Heidegger sorpassò la sua analitica dell'esistenza e dell'Esserci per giungere (con la Kehre) al concetto di Gelassenheit, ovvero di abbandono. Abbandonarsi all'essere e cioè imparare l'ascolto.

Piuttosto che di Dasein, dunque, io credo che noi si debba introdurre un altro termine di fondamentale importanza, ovvero quello di Sosein (Essere-così). Ovvero è centrale il fatto che le cose siano così, e con esse anche l’E’ delle cose. Cioè tutto ciò che è, E’ così perché E’ così. E quel che a noi deve interessare è che le cose siano come sono. Il fatto stesso che le cose siano dette tali, è perché noi le pensiamo in una sfera che è propria del verbo Essere.

Noi siamo abituati, ahimè, a sottovalutare fortemente la forza e il potere del pensiero. Poiché troppo spesso gli abbiamo assegnato un valore morale, un compito etico, assegnandoci quel Sartriano engangement, composto in realtà di soli riflessi su riflessi di riflessi di senso. Il linguaggio raffigura i concetti e gli oggetti e lo fa più o meno, pressoché, a grandi linee, giù per lì, su per giù. l mondo sta infatti, soprattutto nel linguaggio, e tutto ciò che accade lo fa nel mondo.

Per questo bisogna usare piuttosto che Cogito ergo sum, il detto Cogito ergo est; e con esso non intendiamo dire “penso dunque quel qualcosa è”, ma piuttosto diciamo che penso dunque E’, o meglio se io penso è perché vi è quell’è. Penso dunque Verbo Essere, in caso contrario non vi sarebbe pensiero. E non si può pensare ad un principio di ragion sufficiente di quell’essere, perché esso mantiene in sé la sua Aseità. E’ dunque il pensiero a donare l’essere alle cose. E l’essere a rendere possibile il pensiero stesso.

Luca Atzori

MANIFESTO 7



Dettatomi in data imprecisata di una notte di dicembre del 2006 da voce sconosciuta.

Testimone: Lorenzo Peyrani.

I: Non esiste meta per gli officianti, o per chiunque di coloro stia attentando al vivente con conoscenze che abbiano avuto il coraggio di arrogarsi le molteplicità.

II: I nomi non sono più i vostri scudi. Questo per la selezione, e per l'onore della fantasia.

III Ogni opera d’arte è simile e il simile è abolito: esiste solo l’unicità. Nessuno dunque osi essere qualcuno, pena gli scudi, perciò il castigo.

IV Ogni melodia la chiamiamo lacrima di gommapiuma, sale delle giornate degli stolti.

V- Guai!

VI- La notte è il nostro giorno e gli occhi della donna sono lanterne.

Otto: Nessuno guardi negli occhi nessuno, affinché uno solo sia l’occhio visto.

IX- Respiro appeso alle stelle: unico vero gioco di libertà.

X- D’ora in poi tutte le altre leggi sono il seguito, nonché il segreto.

GLORIA E VITA ALLA NUOVA CARNE!






Il titolo che abbiamo adoperato è l’inconfondibile esclamazione di Max Rennt, protagonista del film Videodrome di David Cronenberg, del 1983. Egli è il proprietario della Civic Tv, un canale specializzato nella trasmissione di programmi a contenuto pornografico e violento.
Dal momento in cui questi entra a contatto con un canale pirata che trasmette solo scene di tortura a sfondo prevalentemente sessuale, tutto comincia a mutarsi nell’angosciante vicenda di un’ esistenza ai limiti del reale. Il nome del canale è Videodrome.
Il professor Oblivion, il quale Max incontra in un Talk show, si rende visibile solo dietro uno schermo televisivo. Egli viene a scoprire che questi in realtà è morto da ben un anno, e sopravvive solo più dietro l'immagine mediatica.
Inizia così una scalata verso un labirinto che provoca il mutamento (per l’ appunto) nella stessa carne di Max come nella sua stessa mente.
Cronenberg si ispirò, per il personaggio di Oblivion, a Marshall Mc Luhan (noto sociologo e studioso dei media il cui motto era “il mezzo è il messaggio”).
Il film ci mostra difatti un processo di evoluzione segnato dalla manipolazione che i media operano sulla carne e sulla materia. Il protagonista si ammala di una malattia degenerativa che lo porta ad una progressiva plasmazione avente come demiurgo l’impenetrabile mondo della tecnologia.
Lentamente diviene una vera e propria lotta, la quale (volendo) può essere paragonata all’evoluzione creatrice di Bergson. La coscienza del protagonista tenta in ogni maniera di svincolarsi da questo degrado, seppure avendo perso completamente il centro d’orbita del sé, ritrovandosi affacciato ai molteplici universi percepiti da un punto di vista prettamente oggettivo.
Videodrome segna dunque il trionfo dell’oggettivazione più pura. La condizione nella quale l’uomo si fa definitivamente oggetto, lasciandosi divorare completamente dal messaggio televisivo. Questo poiché come diceva Wittgenstein il mondo si scopre essere effettivamente solo più tutto ciò che accade (nello spazio logico).
Ma la realtà mediatica è molto più definita, pronta, bella e infiocchettata. E' così che gli oggetti mediatici si manifestano al punto che la carne non è in grado di reggerli, ritrovandosi così costretta alla mutazione, o meglio al cammino verso l’inorganicità.
Il lato più tremendo di questo film, è che il regista non vuole mai suggerire la sua visione etica della faccenda, ma descrive solo una condizione ineluttabile verso la quale effettivamente si va muovendosi progressivamente, ovvero la compenetrazione dell’uomo con l’inferfaccia digitale e la sfera tecnologica. La sfera del virtuale che va così confondendosi con quella reale. Che cos’è la realtà in fondo se non uno stato di cose? E come possono le cose esistere se non senza una relazione? Dunque qualsiasi relazione fra esse genera per forza un mondo, rendendo tutto assolutamente possibile e nulla vero.
“La televisione è la realtà e la realtà è meno della televisione” dice Oblivion.
E internet? Abbiamo trovato forse una realtà più reale ancora della televisione?



Luca Atzori

ALLE PARVENZE STESSE




Con falso disinteresse Monsieur Aion scruta i suoi occhi posarsi sopra ogni superficie che incontri. Vediamo il suo sguardo disperdersi nell’aria come farebbe una polverina ombrosa, la quale quasi sembra confondersi con i richiami dei cani per la strada, interferenti o meglio dire viventi: ed è questa la sua condanna.
Chiunque è destinato in fondo ad un indirizzo di pensiero, forse fin dall’infanzia; o forse ciascuno ci si ritrova destinato, pateticamente, in passerella sulla scacchiera della Storia.
Ogni vecchio sistema, e ogni nuovo anti-sistema, sono compresi in questa tela statica e morbida che per sempre rimarrà salda, e per quanto forte sia il nostro tentativo di distruggerla, dell’atto noi vediamo rimanere solo più la traccia, aggiunta ai mille veli pietosi.
Qualcuno oggi si domanderà, molto teneramente, a quale ruolo possa ambire un artista, e credo che prima di offrire la tautologica risposta ( e appunto per questo impronunciabile) bisognerebbe ritornare all’origine della parola “ruolo”. Che cosa si intende con un simile termine?
Se davvero volessimo rispondere a questa (in fondo insulsa) domanda dovremmo cessare di considerare ogni ente come l' abitante sublime di un terreno inesplorato, una wildnis jungeriana murata dalla fortezza delle convenzioni sociali;
Come quel che si affronta ogni qualvolta si naufraghi nel problema dell'essere: incontriamo sempre una o mille parvenze di esso, che vanno manifestandosi nelle sembianze della politica, della moda, dell’arte, della poesia, della scienza, la storia e via elencando. Ogni qual volta si ritorni al problema del verbo essere, ci si ritrova riemersi in un magma di cecità e s'illuminano le parvenze.
Viviamo una fase (fortunatamente) così antistorica che non si è più capaci di vedere nulla preso da parte, ma tutto può essere preso come pezzo del motore della macchina-uomo, non più qui presente, e non più lì passata. Quel che ci resta da fare oggi è certamente “imparare dai classici” ma degustandoseli ri-considerando gli autori solo più come medium e non come profeti di una nuova alba ideologica, o segna strada, psicopompi pronti a camminare con noi verso la crescita di strutture sbagliate in sé (ad esempio quella universitaria).
È necessario iniziare un addestramento maturo, misurarsi con i tempi prossimi, conoscere e fotografare davvero il presente.
Arrivare alle cose stesse? meglio dire alle parvenze stesse. Senza per questo lasciarsi trascinare completamente da debolezze post-moderne e ontologie varie dell’attualità.
Muoversi come spie, non più come un professionisti. L'ossessione delle affinità elettive, in mezzo al triste mare della volgarità.
Essere superficiali dall'abisso dell' interiorità fino all'eternità.

Luca Atzori

JULIUS EVOLA: APOLIDE DELLO SPIRITO (ANTIDEMOCRATICO)




Nel 1917 Julius Evola venne richiamato alle armi, e fu in quell’ anno che egli cominciò a scrivere il saggio Fenomenologia dell’individuo assoluto (il quale verrà completato più avanti nel 1924 e pubblicato poi nel 1930).
In quest’opera si configurano due vie che il filosofo intende delineare nella modernità: una è quella dell’altro e l’altra quella dell’individuo assoluto.
La via dell’individuo assoluto è tema centrale nell’opera Evoliana.
Riportiamo un brano tratto dal testo in questione:
«Saper gittare via tutto, sapersi portare alla disperazione – questa, come si è detto, è la prima condizione per una tale via. È l'esperienza precedente: la «Grande Solitudine», il deserto senza luce in mezzo a cui l'Io deve consistere, mediante una forza che egli deve assolutamente creare dal nulla. Di là da ciò, la «prova del Fuoco».
Permettendo una breve premessa a proposito della “via dell’altro” possiamo definirla una situazione basilare, necessaria, in quanto poiché possa avvenire in senso definitivo lo svuotamento di cui sopra, e si renda non solo impellente ma addirittura imperativo il riacquistamento di sé, quello dell’altro è una primaria gabbia la quale dev’essere però un cardinale punto di partenza.
Si giunge intuitivamente a prendere in considerazione l’analogia fra la via dell’altro con quella della mano destra, e quella dell’individuo assoluto con quella della mano sinistra. La prima è quella dell’etica, della morale, la fedeltà alla propria natura (Svadharna), mirata al conseguimento dell’unità con Dio. La via di chi accetta la propria finitudine relegandosi al mondo e le sue leggi per inseguire l’integrità morale, la totale purificazione. L’altra invece (Vamacara) legata alla distruzione, al culto di Siva, lo svincolarsi dunque da qualsiasi norma e qualsiasi limite morale e ontologico, per giungere alla definitiva liberazione (Moksa), mediante la più totale dissoluzione.
Per analizzare meglio la via dell’individuo assoluto dobbiamo innanzitutto chiarire che cosa intendiamo con “individuo” e cosa con “assoluto”, termini i quali posti accanto l’un l’altro potrebbero addirittura risultare tautologici; l’individuo, si presuppone difatti che sia unico, dunque non poggiato su alcunché, e assoluto (di cui cioè il significato è analogo). Chi insegua una tale via, dunque si muove verso la totale unione con l’Universo. Ma perché questa possa avvenire, non è possibile concepire la propria identità come ancora valida secondo una prospettiva puramente etica, rivolta cioè alle pretese dell’altro (il quale sminuirebbe naturalmente la totalità del proprio Io). Bisogna dunque distruggere, frantumare la propria identità, per giungere a quella seconda nascita (essenziale perché incominci un’effettiva iniziazione). La perdita totale di un “punto d’appoggio nel sociale”, è l’inizio di quella che in alchimia viene chiamata l’Opera al Nero, la nigredo. Da lì si rende possibile realizzare la Volontà di Potenza. Nella lettura che Heidegger aveva fatto di Nietzsche, questa veniva più precisamente chiamata Volontà di volontà. Cioè è dopo esser giunti alla più totale impossibilità di intenzioni, alla noluntas Schopenaueriana, per l’appunto, che può insorgere una nuova volontà (la quale dona nella sua eterna ripetibilità il senso di tutto l’universo). Questa è parte essenziale dell’individuo assoluto il quale nel suo cammino di liberazione (Mukti) si svincola dalle leggi del tempo e del dolore.
Evola avrebbe indicato tale via addirittura come necessaria, seppure pericolosa. Suggeriva di muoversi nella nostra civiltà moderna seguendo quell’antico detto taoista che esortava a “Cavalcare la Tigre” (titolo di una sua opera pubblicata nel 1961). Anche per questo lo spirito ne risulta si ritrovi sempre in contrasto con il sistema democratico. Non sono i molti a dover generare una coscienza (padrona), ma è l’unico semmai, il singolo, a dover essere padrone Assoluto di se stesso. Evola, antidemocratico par exellence, in lotta contro la massificazione, l’involgarimento, la barbarie dell’uomo obliquo. Evola antimoderno. Evola aristocratico. Evola che fa storcere il naso agli accademici. Eccetera.
Luca Atzori

LA FANTASIA

Il mistero supremo dell’universo
L’unico mistero, tutto e in tutto,
è che ci sia un mistero dell’universo...

F. Pessoa


Esiste una connessione fra le cose anche quando queste non sono fra di loro in diretto rapporto. Il nome del fenomeno mediante il quale è possibile che questo processo avvenga è noto a noi come fantasia, termine che ha la sua origine nella parola greca φαντασία (mostrare). Lo stesso pensiero dona il senso, si potrebbe dire che fondi il processo immaginativo, così come il mondo stesso.
Esiste però un forte distacco fra queste due capacità umane, che ha toccato il parossismo nell’era della religiosità tecnica. Siamo divenuti, senza troppo rendercene conto, vittime di una bizzarra malattia che io denominerei bipolarismo razionale, ma che più comunemente viene detta Nevrosi. I sintomi mediante il quale esso avviene, sono tanti, anzi troppi. Oserei dire che ogni nostro minimo gesto il quale faccia la sua comparsa durante la quotidianità, possa essere preso ad esempio. Si potrebbe comunque riscontrare, all’origine di tutto ciò, una non-conscia tendenza perenne a rispecchiare negli oggetti la nostra stessa immagine, attribuendo ad essi una pseudo sacralità che inevitabilmente porta la nostra vita a nascondersi, o forse addirittura perdersi, in un’interiorità sempre più abissale.
È chiaro, questo non avviene certo perché vi sia una carenza di pensiero tecnico o scientifico, ma bensì, proprio perché questi sono eccessivamente tenuti in considerazione. Ma qual è la facoltà che tanto noi ignoriamo? Essa è proprio la fantasia. Il motivo di tale indebolimento è semplice: è andato perdendosi il senso del vivere rituale. Esso è andato smarrendosi innanzitutto in quanto il legame fra uomo e terra s’è definitivamente spezzato.

Molti di coloro che oggi vogliano definire una qualsiasi capacità della mente di figurarsi immagini, considerano queste come una manifestazione dei più svaccati gesti di libertà dell’uomo . Il loro tanto “libero” gioco, però, consiste nel connettere mondi differenti e paralleli, senza che fra essi ci sia una vera analogia.
E' necessario ritrovare il legame dell’uomo con la propria dimensione, prima di tutto materiale, poi emozionale, intellettuale, e sessuale (legate fra loro olisticamente).

Ebbene oggi non è con la critica che vogliamo togliere via le polveri, né con il progresso, ma bensì, per l’appunto, delucidando quel che ancora continua a stare lì, da per sempre. L’esistenza dovrebbe essere condivisa con spiriti affini, al fine di generare una forza contraria capace di opporsi a questo “Leviatano” che tanto vediamo controllare ogni nostro gesto, arrogandosi una divinità che riscontriamo riflessa solo nei mille specchi bruciati, ciascuno non identico all’altro, i quali vogliono abolire l’unica verità che sia effettivamente tale: la vita.

Luca Atzori

IL GRANDE VETRO E L’ “AUTOPOIESI”


La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, opera di Marcel Duchamp meglio nota come il Grande vetro, è stata realizzata dal 1915 al 1923, e non è stata mai completata. Non la si può definire propriamente un’opera d’arte pittorica, tant’è che qualcuno l’ha indicata con il titolo (il quale certo non rende giustizia alla semplicità) di “macchina autopoietica”; ovverosia come una sorta di macchina a chiusura operazionale contraddistinta da un’ autoreferenzialità dipendente esclusivamente da un sistema interno, il quale si riorganizzerebbe autonomamente generando una sorta di “autocomportamento”.
Questa premessa ci mostra che non è propriamente di arte figurativa che qui vogliamo trattare. Sembrerebbe più un’invenzione strampalata venuta fuori dalla mente di uno scienziato pazzo, e certamente Duchamp ne aveva i prerequisiti (anche se la sua attività, con la scienza, non presenta poi così evidenti affinità).
Il dada aveva piuttosto come principale missione quella di spiegare una verità fondamentale, ovvero che dalla cosìddetta "età della crisi" (o modernità, se si preferisce) in poi ci toccasse la conseguenza di un fatto inesorabile, ovvero la fine dell’estetica. L’arte, secondo la loro concezione, non conservava più il suo valore di “interfaccia”, e questo dovrebbe confermare quanto tutto ciò che di artificiale avrebbe da allora incontrato il nostro sguardo dovesse mostrare di sé quanto nella realtà da sempre debba essere stato semplicemente “estetizzato”.
Duchamp volle rendere la sua opera una sorta di strumento magico, il quale ogni qual volta lo si fosse osservato, avrebbe cambiato di significato, e con esso le sue superfici. Insomma, una lastra di vetro soggetta ad un’ermeneutica infinita. Solo più il caso, nella sua concezione, avrebbe potuto determinare gli elementi e la loro interpretazione.
Sono state scovate molteplici simbologie alchemiche in questo suo lavoro (notare il gioco di parole fra Grande vetro e Grande Opera).
Essa è divisa in due parti: una terrestre e una celeste. Nella prima vediamo una nuvola con tre quadrati, nella seconda un parallelepipedo in prospettiva, simboleggiante un feretro vuoto. Nel titolo compare la figura di una sposa, con la quale si dice volesse indicare la Vergine Assunta: e fa sorridere pensare a quanto l’artista sia rimasto fedele alle tradizionali rappresentazioni iconografiche di Maria, nelle quali appunto le due sfere (divina e umana) erano poste sempre l’una accanto all’altra.
Ma certo, la lettura di Duchamp, in realtà, non ha in sé molto di religioso (almeno nell’accezione comune del termine), bensì si direbbe piuttosto una rilettura dell’assunzione in chiave “erotica” (ovviamente qui intesa in senso metafisico). I tre quadrati vuoti, suggeriscono la Santissima Trinità, ai quali corrispondono in basso tre rulli pieni della macchina per macinare il cioccolato.
L’opera in sé è una continua polarizzazione di principi positivi e negativi e credo che la sua essenza, la sua pietra angolare, risieda proprio in questa sua ineffabilità, in questa mancanza. L’assenza dell’ elemento che ponga una distanza fra l’opera e l’osservatore, è la particolarità che di per sé segna, io credo, la vera firma dell’autore. Il Grande vetro infatti non è ne troppo bello da vedere, ne di per sé molto comprensibile. Esso è semplicemente un oggetto incompleto (nonostante ciò possa risultare di per sé un ossimoro).
Noi vediamo oggi quanto il dada in tutta la sua smania distruttrice e farsesca, si avvicinasse in maniera totalizzante al senso tremendo del sacro. Ciò che muoveva questi “artisti” era un’antireligiosità di fondo che proprio per questo manteneva in sé l’effetto dirompente di una valorizzazione assoluta del sacro in sé. Così come in Georges Bataille e nella sua rivista nonché società segreta “Acephale”, si pensa che l’unica via d’uscita non possa essere trovata in un’ evoluzione delle forme espressive o artistiche, ma solamente, appunto, nella liturgia vissuta in tutto il suo terrore, così, non deve essere la traccia del lavoro di Duchamp a scuotere i nostri animi, ma bensì il suo stesso tentativo di realizzarsi. Non è nell’opera che possiamo trovare quel che cerchiamo, ma nel farsi stesso di essa.
Nulla a che vedere, s’intenda, con le contemporanee opere d’arte concettuali, le quali a tutto ciò non meritano nemmeno di essere paragonate.

Luca Atzori

NIETZSCHE E LA BONTA' AD OROLOGERIA


Sfogliando le pagine della biografia di Nietzsche scritta da Massimo Fini dal titolo l’apolide dell’esistenza, traspare (apparentemente) una figura del tutto differente da quella che potrebbero suggerirci gli scritti del filosofo. Emerge un personaggio estremamente umile, posato, femmineo, cortese e addirittura passivo. Lo stesso che scriveva “io non sono un uomo, sono una dinamite”, ce lo presenta come un solitario professore scisso fra due realtà: una intellettuale e un’altra fisica. La prima, dirompente ed esplosiva, manifestantesi solo sulla carta, la seconda fragile e cagionevole, mossa a fatica in un’epoca, e dunque non sua. Un personaggio, insomma, quasi invisibile, conservato quasi interamente in uno spazio immateriale, astratto, avente sede principalmente nel Pensiero. Quel filosofo che si professava come “l’anticristo” si rivela essere un vero martire, sacrificato totalmente a quella funzione di Custode della Verità. E facendo questo dedica tutto se stesso a quel pensiero, obliando la sua vita, la sua stessa dignità. Che cosa ne viene fuori? Che il suo pensiero si esaurisce nella sua stessa demenza, così che quel che vede riflesso nel suo specchio è solo più la Bestia: il punto da cui teoricamente sarebbe dovuta partire quella “fune” che avrebbe dovuto lanciarlo al super (o oltre che dir si voglia) uomo.

Intendo precisare, nessuno qui osa sostenere che sia stato il suo stesso pensiero a condurlo verso la follia... e se anche fosse vero, non lo riterrei un elemento di eccessiva rilevanza. Quel che più dovrebbe far riflettere è la funzione (indiretta) che in tutto ciò gioca il concetto di sacrificio.

Sorge spontaneo domandarsi, difatti, perché Nietzsche non abbia unito definitivamente in sé la sua etica con la sua stessa estetica. Forse perché egli presentiva che per essere una “dinamite” bisogna fare in modo che all’interno dell’esplosione venga incluso il maggior numero di persone?

Io credo si tratti invece più semplicemente di una inconsapevole qualità caratteriale, non pre-organizzata, seppure non certamente casuale. Proprio perché Nietzsche è stato si un filosofo, ma anche, credo, soprattutto un poeta, e non a caso fra i suoi illustri Maestri troviamo proprio la figura di Friedrich Holderlin, il quale presenta diverse analogie con il filosofo sia nel pensiero che nella vita stessa. Infatti, nella sua poesia Andenken (Ricordo) la frase che chiude il componimento è la famosa Was bleibet aber stiften die Dichter (Ma ciò che resta lo fondano i poeti). E potremmo rivalutare l’intera vita di Nietzsche, così come il suo “culto dionisiaco”, proprio come un’esistenza votata alla fondazione filosofica, quasi a un livello liturgico. La stessa sentenza “Dio è morto” è carica di un potere religioso e sacrale. Nietzsche potremmo quasi pensarlo come un perfetto Cristiano, un vero Sacerdote.

Il filosofo Massimo Cacciari ci ha offerto una lettura del pensiero di Nietzsche fornendo un collegamento con il concetto di Deus Adveniens, e nel far questo ha anche preso in considerazione le varie citazioni evangeliche presenti nei suoi testi.

Ciò a cui egli rimanda, è continuamente un Lieto Annuncio, un riportare a una verità, una vera e propria parusia (prossima) di un oltre ben definito. Il nichilismo inteso come trasvalutazione di tutti i valori, in tal caso, potrebbe essere considerato addirittura come il più compiuto esito di un’etica cristiana, proprio perché viene “transustanziato” qualsiasi effettivo valore, e con esso qualsiasi fenomeno, ogni realtà. Certo Nietzsche distingueva fra nichilismo passivo e attivo, dichiarandosi porta-voce del secondo. Ma considerando che la Volontà di Potenza non risiede sopra nessun altro luogo se non in quello che noi si possa ritrovare in quella Noluntas di cui ci parlava Schopenauer, essa è dunque impossibile e perciò stesso Miracolosa, così come lo è qualsiasi attività creativa, e ricalco: è impossibile, proprio perché, come giustamente osserva Cacciari, la Volontà di Potenza si rovescia nella sua stessa Impotenza, mostrando l’aporia del suo “creare” il Nulla. L’uomo è dunque un ponte, un profeta, una voce che grida nel deserto e attende l’avvento del Deus Adveniens, per l’ appunto.

Ne ricaviamo che il discorso di Nietzsche è costretto a restare chiuso nelle sue stesse catene ermeneutiche per poter essere reso possibile, così che quel che oggi appare più degno della nostra “attuale” attenzione è proprio quel “salto” che il filosofo fece fra la sua identità sociale e la sua essenza bestiale, e per ciò stesso anti-storica.

Non dovrebbe dunque essere possibile nemmeno pensarlo un oltre, un “post”, proprio perché nel momento stesso in cui noi dovessimo superare definitivamente quel ponte, dimenticheremmo tutto, e conserveremmo solo più quella saggezza dell’inizio, quella che vanifica ogni sforzo, e che non sarà stata la soluzione di alcun telos ma piuttosto l’accrescimento di quella condizione che per l’uomo storico è del tutto impossibile: la volontà di potenza; E dov’è che questa si manifesta? In quel tempo che gli stoici chiamavano l’ Aiòn, in quella verità che Nietzsche reputava la sua più profonda, ovvero quella dell’Eterno Ritorno.

Ecco che dunque quella bontà che ci narrano di Nietzsche, possiamo inserirla benissimo nella logica del suo pensiero, attribuendola a quell’esito finale delle sue meditazioni che è quello dell’Amor Fati.

Nietzsche come uomo quieto che teneramente attende l’avvento di quest’oltre, e lo fa mostrando il sorriso della sua stessa resa, cioè della sua stessa gloria.

Luca Atzori