La forza di gravità è il Diavolo. (E io , Blu di prussia, il suo profeta. Un po' di spazio per il mio rancore, se non vi dispiace). Ennio Flaiano.
Si dice spesso che la verità non esista. Non si considera però quanto questa affermazione preveda l'esito di un precipizio paradossale, quello di chi sostenendo l'inesistenza di verità dichiara con questo una verità assoluta.
Il punto è che di per sé parlare della verità (secondo criteri logici) è sempre un paradosso. Dire che una cosa è vera, spesso non esclude che anche il suo contrario sia tale.
Questa è una questione che riguarda tutto il repertorio delle cosiddette “cazzate” che spesso accompagnano i nostri momenti di difficoltà dove ci sembra di essere entrati dentro impasse varie.
Tutto ciò riguarda una evidente sopravvalutazione della ragione, ciò che Derrida avrebbe definito come logocentrismo.
La verità è una questione di pancia.
Noi siamo i nostri desideri, ma ahimè, siamo abituati a non prestarvi attenzione. Non siamo educati a farlo. Agiti dalle nostre emozioni, come se da esse non potessimo trarre nulla, come fossero per noi un pericolo, impauriti come davanti alle sirene del dodicesimo canto.
In fondo, nel mondo vi è pace ovunque, anche nel più enorme frastuono.
Siamo abituati ad ascoltare le vocine che ci parlano nella testa, tutte in contraddizione l'una con l'altra. Siamo come palazzi abitati da un centinaio di inquilini che non vanno mai d'accordo l'uno con l'altro, e che continuano a lamentarsi con l'amministratore di condominio che siamo poi noi stessi.
Noi siamo gli inquilini del piano terra.
La pancia ci dice quel che desideriamo, quel che è giusto per noi. Ci dice quel che ci interessa, ci dice che cosa ci fa star bene o male. La pancia ci parla con le emozioni, e queste sono i nostri giudici assoluti.
Molto spesso siamo costretti addirittura a divertirci. Entrare nel suolo di possibilità assegnate, e tutte in contrasto con quello che la pancia grida dietro al bavaglio.
Certo, la vita è una cosa molto più semplice. Basta capire che ciascuno di noi lascia manifestare da sé la verità con la dichiarazione dei propri desideri.
Non tiratemi in ballo le verità scientifiche, per favore: nel regno della ragione esistono solo le ipotesi, e son sempre rigorosamente vere.
Già, e quando si voglia affrontare un discorso che accenda una lanterna sopra il desiderio, finire con un “non so, discorso complesso”, quando in realtà il problema è che spesso basterebbero due, tre, una sola parola.
Se le verità logiche sono di troppo, la verità ha da essere essere usa e getta, per essere vera.
Luca Atzori
martedì 27 luglio 2010
mercoledì 14 luglio 2010
L'ARTE DI SOGNARE

Il ventisette giugno si è tenuta, presso l'Alcatraz murazzi, una rassegna organizzata dall'associazione culturale Torino Teatro di Alan Mauro Vai, presentata come L'Arte di Sognare.
Più precisamente si è trattato di una festa avvenuta in onore della neonata compagnia Eidos Teatro che raccoglie artisti di ogni genere: da autori a attori, musicisti, pittori, fotografi, editori etc.
Il leitmotiv dell'evento è stato senza dubbio (come si può facilmente intuire) quello del sogno inteso in ogni sua accezione (desiderio, vita onirica etc). Si può dire che tutto l'evento abbia utilizzato questo tema come una finestra aperta per illuminare la realtà di una sera.
Tutto ha avuto inizio con una mostra dove sono state esposte le opere della scenografa Delia Colanino, la stilista Samanta Lai, l'artista Babalushi e il fotografo che si fa chiamare Musicante Alchemico. Sia Delia Colanino che Musicante Alchemico hanno partecipato (ciascuno secondo le proprie competenze) alla realizzazione dello spettacolo Modestia a Parte, scritto da me, diretto da Alan Mauro Vai e recitato da Ilaria Aseglio Gianinet, avvenuto dopo (e seguito da) altri diversi spettacoli e performance che sono stati:
la presentazione della Casa Editrice Eris, la presentazione del testo di Cheik Ngoma Bayefall Il Silenzio degli Dei, lo spettacolo Mac Beck di Alan realizzato con gli allievi di uno dei numerosi laboratori che svolge a Torino, lo spettacolo Marco Fratta Reading Project di Marco Fratta con letture a cura di Vincenzo Di Federico e Alan, la performance di decorazione fluo di abiti dal vivo di Samanta Lai e seguito dallo spettacolo di Giulia Donelli “Non è come sembra” con Cristina Costigliola e I viaggi del mulo di CJ Emulo.
La spontaneità con cui è avvenuta la collaborazione ha certamente accresciuto e reso vivida quella necessità comunitaria che in maniera sempre più urgente si avverte nella nostra realtà artistica nazionale.
Si dice che per gli artisti sia un periodo sfavorevole (non si sa bene se sia esistito un tempo in cui la situazione fosse andata diversamente) così invece di annegare nelle solite lamentele si è pensato di dare voce proprio e in particolare a quei sogni e desideri che son stati raggruppati insieme all'aiuto di menti e vite diverse in un'esperienza di gruppo .
L' evento ha ruotato certamente intorno al tessuto della serata stessa, avvenuta (pare non a caso) in un locale notturno. Diversi spettacoli, mostre e performance, sono riusciti a riunire le persone in un vero e proprio rito dove lo svago ha acquistato un senso vero e proprio.
Ci si trova spesso a vagare per locali senza sapere perché ci si sia finiti, così che si rischia abitualmente di cadere in routinarie ubriachezze e si va a far sbandare le proprie motivazioni verso non si sa dove, a meno che non ci sia un concerto o un altro tipo di evento che giustifichi lo spostamento.
In questo caso si è voluto raccogliere le persone e fare in modo che una serata potesse far fare loro qualcosa che potersi raccontare.
Invece di costringerci a fingere, mascherarci e mostrare di noi stessi un volto che spesso ci costringiamo a vestire, abbiamo voluto far parlare la nostra vita stessa, i nostri talenti, si è cercato di far parlare il nostro passato per fargli dire ad alta voce quale sarà il futuro che preferirà incontrare. Per questo è avvenuto tutto ciò. Il titolo tratto da un libro di Carlos Castaneda intitolato appunto L'arte di sognare, dove si raccontava di un'esperienza vissuta dallo stesso scrittore avente come centro l'iniziazione sciamanica. Il teatro è in effetti una forma di sciamanesimo. Prima di tutto è terapia, messa in mostra di quel che normalmente siamo costretti a nascondere dando voce ciascuno al proprio demone.
Se qualcuno ritiene che il teatro sia una forma d'arte imbalsamata, posso ritenere che di certo non si possa dire lo stesso per quel che riguarda quel rito che è l'incontrarsi, mettersi attorno a un fuoco e raccontarsi delle storie.
Luca Atzori
domenica 4 luglio 2010
LE EMOZIONI A CARO PREZZO
« L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. »
Italo Calvino
Quegli stati d'animo che vengono comunemente definiti come angoscia, depressione, disperazione etc, sono in realtà nientemeno che lussi.
Siamo comunemente abituati a pensare che qualora ci si trovi di fronte alla minaccia di un'emozione che riteniamo essere impossibile da gestire, si debba cercare rimedio nella soppressione di quello stato d'animo attraverso le narcosi, le consulenze psicologiche con un seguito di prescrizione farmacologica, o nel caso in cui ciò non avvenga, trovarsi sbattuti sul proprio letto a contemplare il soffitto, emanando gemiti primordiali, o degenerando in altri svariati comportamenti bizzarri (spesso miranti all'autodistruzione, con allegata consolazione).
Spesso non siamo in grado di sostenere nemmeno i rapporti di coppia per questo preciso motivo, ovvero perché troppe emozioni si stanno per affacciare, cosìcché le si deve soffocare il prima possibile precipitando in dinamiche di prevaricazione dell'uno sull'altro, in una gara a chi vince il trofeo del “non sofferente”.
Qualcuno ci ha detto (e non si ricorda mai chi e quando) che lo stare da soli è una faccenda terrorizzante.
Si ha paura di un “problema”, e piuttosto che affrontarlo si decide di tapparlo, dimenticarsene.
Quell'ectoplasma che abbiamo chiamato "problema", invece , è proprio la sorgente di quella serie di riflessioni che dovrebbero portare il nostro stesso sistema emotivo a circolare per giungere (attenzione) non all'incontro di una risposta, (la quale di per sé è proprio ciò da cui si dovrebbe invece fuggire) ma piuttosto alla fabbricazione costante di interrogativi.
Queste emozioni (che non a caso ho voluto definire come lussi) costano troppo, e non lo intendo in senso lato.
Siamo abituati a dovere avere il controllo su mille faccende che risultano servirci principalmente per arrivare vivi alla fine del mese. Nel caso in cui questo eccesso di “sensi” dovesse presentarsi, bisognerà rimediarvi immediatamente, per fuggire al rischio di "APPARIRE" come un disgraziato.
Accade che questi problemi vengano celati spesso nei rapporti interpersonali, dove ci si trova costretti a mostrare di sé quel fantoccio che abbiamo disegnato e che ci permette una sicura uscita da quel grande scoglio che è il GIUDIZIO.
Per non parlare poi di quella favola che ci raccontiamo prima di andare a dormire, che dice pressapoco così: sono gli altri ad essere cattivi, io sono vittima del cinismo etc etc.
Già, e così ci si siede beatamente sulla poltrona della propria infelicità. Una poltrona che non ci rendiamo conto, ma lentamente ci porta a sprofondare in un processo che ha un solo nome: la degenerazione.
E poi ci si convince che siano milioni di licenziosità a donarci quella gioia che cercavamo. Una nottata trascorsa ad annegare nell'alcool, o fare sesso con sconosciuti dentro il bagno del primo locale tappezzato dei ritmi tribali di quel divertissement che ha raccattato noi (e non viceversa), per poi il giorno svegliarsi con il mal di testa, il senso di colpa, e via dicendo.
Questo risulta essere uno dei modelli di vita del vivere “figo” nella nostra attuale atmosfera di affascinantissima decadenza e barbarie.
Affrontare la tua paura? Ma se non se ne ha nemmeno il tempo!
Anzi, il tempo? si perda. Ci si perda!
Spesso non si accetta che quel problema stesso esista. Perché nel famigerato gruppo, non si può pensare di inseririsi con questo fardello addosso, ma si deve piuttosto recitare alla maniera di Diderot (vedere il paradosso dell'attore).
Convinti di essere quel che appariamo a noi stessi. Convinti di essere il proprio io.
La radice di questo problema va certamente assegnata a una struttura economica. Anche se bisogna prestare attenzione al fatto che sono le nostre mani a fare l'economia, e non i nostri sogni.
Tutto è precario, assaggiato, e mai (anzi guai) vissuto fino in fondo.
È vietato vivere troppo, e per ciò stesso, di conseguenza, soffrire.
Che fare?
Forse unire quei due grandi lussi che sono la testa e il cuore per prendersi un po' di spazio? Massacrare se stessi con infinito amore?
Farsi il culo? Alzare le tapparelle?
Andare a sbandare contro la morte, implorando di vivere?
? ? ? ? ?
Luca Atzori
Italo Calvino
Quegli stati d'animo che vengono comunemente definiti come angoscia, depressione, disperazione etc, sono in realtà nientemeno che lussi.
Siamo comunemente abituati a pensare che qualora ci si trovi di fronte alla minaccia di un'emozione che riteniamo essere impossibile da gestire, si debba cercare rimedio nella soppressione di quello stato d'animo attraverso le narcosi, le consulenze psicologiche con un seguito di prescrizione farmacologica, o nel caso in cui ciò non avvenga, trovarsi sbattuti sul proprio letto a contemplare il soffitto, emanando gemiti primordiali, o degenerando in altri svariati comportamenti bizzarri (spesso miranti all'autodistruzione, con allegata consolazione).
Spesso non siamo in grado di sostenere nemmeno i rapporti di coppia per questo preciso motivo, ovvero perché troppe emozioni si stanno per affacciare, cosìcché le si deve soffocare il prima possibile precipitando in dinamiche di prevaricazione dell'uno sull'altro, in una gara a chi vince il trofeo del “non sofferente”.
Qualcuno ci ha detto (e non si ricorda mai chi e quando) che lo stare da soli è una faccenda terrorizzante.
Si ha paura di un “problema”, e piuttosto che affrontarlo si decide di tapparlo, dimenticarsene.
Quell'ectoplasma che abbiamo chiamato "problema", invece , è proprio la sorgente di quella serie di riflessioni che dovrebbero portare il nostro stesso sistema emotivo a circolare per giungere (attenzione) non all'incontro di una risposta, (la quale di per sé è proprio ciò da cui si dovrebbe invece fuggire) ma piuttosto alla fabbricazione costante di interrogativi.
Queste emozioni (che non a caso ho voluto definire come lussi) costano troppo, e non lo intendo in senso lato.
Siamo abituati a dovere avere il controllo su mille faccende che risultano servirci principalmente per arrivare vivi alla fine del mese. Nel caso in cui questo eccesso di “sensi” dovesse presentarsi, bisognerà rimediarvi immediatamente, per fuggire al rischio di "APPARIRE" come un disgraziato.
Accade che questi problemi vengano celati spesso nei rapporti interpersonali, dove ci si trova costretti a mostrare di sé quel fantoccio che abbiamo disegnato e che ci permette una sicura uscita da quel grande scoglio che è il GIUDIZIO.
Per non parlare poi di quella favola che ci raccontiamo prima di andare a dormire, che dice pressapoco così: sono gli altri ad essere cattivi, io sono vittima del cinismo etc etc.
Già, e così ci si siede beatamente sulla poltrona della propria infelicità. Una poltrona che non ci rendiamo conto, ma lentamente ci porta a sprofondare in un processo che ha un solo nome: la degenerazione.
E poi ci si convince che siano milioni di licenziosità a donarci quella gioia che cercavamo. Una nottata trascorsa ad annegare nell'alcool, o fare sesso con sconosciuti dentro il bagno del primo locale tappezzato dei ritmi tribali di quel divertissement che ha raccattato noi (e non viceversa), per poi il giorno svegliarsi con il mal di testa, il senso di colpa, e via dicendo.
Questo risulta essere uno dei modelli di vita del vivere “figo” nella nostra attuale atmosfera di affascinantissima decadenza e barbarie.
Affrontare la tua paura? Ma se non se ne ha nemmeno il tempo!
Anzi, il tempo? si perda. Ci si perda!
Spesso non si accetta che quel problema stesso esista. Perché nel famigerato gruppo, non si può pensare di inseririsi con questo fardello addosso, ma si deve piuttosto recitare alla maniera di Diderot (vedere il paradosso dell'attore).
Convinti di essere quel che appariamo a noi stessi. Convinti di essere il proprio io.
La radice di questo problema va certamente assegnata a una struttura economica. Anche se bisogna prestare attenzione al fatto che sono le nostre mani a fare l'economia, e non i nostri sogni.
Tutto è precario, assaggiato, e mai (anzi guai) vissuto fino in fondo.
È vietato vivere troppo, e per ciò stesso, di conseguenza, soffrire.
Che fare?
Forse unire quei due grandi lussi che sono la testa e il cuore per prendersi un po' di spazio? Massacrare se stessi con infinito amore?
Farsi il culo? Alzare le tapparelle?
Andare a sbandare contro la morte, implorando di vivere?
? ? ? ? ?
Luca Atzori
lunedì 21 giugno 2010
NESSUNO
“Nessuno ci impasta più di terra e argilla
nessuno alita sulla nostra polvere.
Nessuno.
Lodato sii tu, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire.
Incontro
a te.
Un nulla eravamo, siamo, rimarremo, fiorendo:
la rosa di
Nulla, di Nessuno...”
Questo è l'inizio di una poesia di Celan che porta come titolo “Salmo”. Una vera e propria preghiera.
Voce della religiosità più atea di chi arriva a rivolgersi a Nessuno.
La zona dove incontriamo Dio è quella della trascendenza, intesa come la pura forma di oggettivazione, distinzione, separatezza, ineluttabile scoglio di ogni atto conoscitivo.
Le parole e nient'altro. Il sacro è perciò immanente, come ciò che resta, inutile e vivo.
Di ciò che è immanente non si parla.
Quel Nessuno (importante la maiuscola) che viene nominato, è proprio il modo in cui disperatamente si chiama l'ignoto, che non siamo mai noi a trovare, ma che viene incontro a noi stessi chiamandoci in limine, facendosi vivo come inframezzo.
Noi (non) siamo nessuno, e incontro a quel nessuno, fioriamo.
Nati senza nome, (dove) niente ha nome, (dove) finiamo senza nome.
Preghiera atea, anche se fare uso di questa parola è di per sé sbagliato, perché ciò che viene a mancare non è il concetto di Dio, ma piuttosto bisogna considerare che ciò che resta in realtà sono solo le stesse parole, nel paradosso di cui è impossibile dare definizione.
Distanti dalla parola che implode in se stessa, manifestatasi come compiuta, mostrante solo se stessa, e dunque donante voce a quel Nessuno che è inascoltabile, inconoscibile, indicibile (seppure venga paradossalmente nominato).
Il “nulla” è tutta la sovrabbondanza di questo mondo.
L'essere umano è un lusso di cui la terra può fare a meno.
Luca Atzori
nessuno alita sulla nostra polvere.
Nessuno.
Lodato sii tu, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire.
Incontro
a te.
Un nulla eravamo, siamo, rimarremo, fiorendo:
la rosa di
Nulla, di Nessuno...”
Questo è l'inizio di una poesia di Celan che porta come titolo “Salmo”. Una vera e propria preghiera.
Voce della religiosità più atea di chi arriva a rivolgersi a Nessuno.
La zona dove incontriamo Dio è quella della trascendenza, intesa come la pura forma di oggettivazione, distinzione, separatezza, ineluttabile scoglio di ogni atto conoscitivo.
Le parole e nient'altro. Il sacro è perciò immanente, come ciò che resta, inutile e vivo.
Di ciò che è immanente non si parla.
Quel Nessuno (importante la maiuscola) che viene nominato, è proprio il modo in cui disperatamente si chiama l'ignoto, che non siamo mai noi a trovare, ma che viene incontro a noi stessi chiamandoci in limine, facendosi vivo come inframezzo.
Noi (non) siamo nessuno, e incontro a quel nessuno, fioriamo.
Nati senza nome, (dove) niente ha nome, (dove) finiamo senza nome.
Preghiera atea, anche se fare uso di questa parola è di per sé sbagliato, perché ciò che viene a mancare non è il concetto di Dio, ma piuttosto bisogna considerare che ciò che resta in realtà sono solo le stesse parole, nel paradosso di cui è impossibile dare definizione.
Distanti dalla parola che implode in se stessa, manifestatasi come compiuta, mostrante solo se stessa, e dunque donante voce a quel Nessuno che è inascoltabile, inconoscibile, indicibile (seppure venga paradossalmente nominato).
Il “nulla” è tutta la sovrabbondanza di questo mondo.
L'essere umano è un lusso di cui la terra può fare a meno.
Luca Atzori
giovedì 17 giugno 2010
IL TORTO
Subire un torto è possibile solo in quanto alla vittima vengono a mancare le parole. Ad esempio qualsiasi persona si trovi “costretta” a fare un lavoro che lo getti nella condizione di sfruttato, conduce la stessa vita ignobile per quaranta, cinquant' anni, e avrebbe certamente molte cose da dire, ma non sa dirle nemmeno a se stesso, così indossa facilmente l'abito dello schiavo, trascinandosi in un'esistenza del tutto sprecata (avente come fine quel porto chiamato pensione).
In questo gioco entra in ballo la violenza operata dalla cosiddetta ragione, che di per sé resta inconsapevole anche per il carnefice che la detiene, il quale da per assodato che quella sia la Sua ragione.
Quello che noi pensiamo come sfruttamento, può non esserlo affatto per lo sfruttato, che invece si sente assai soddisfatto di portare a casa la sua “pagnotta”, e gli basta e avanza.
Parlando di violenza noi ci mettiamo automaticamente dalla parte del carnefice, perché usiamo il suo stesso linguaggio.
Chi sta subendo un torto spesso (quasi) non lo sa. Non sa di subire quello che per un'altra persona sarebbe invece tale. Questa è la natura del torto, esserlo per qualcuno e non per qualcun' altro.
Ma è anche vero che il torto ha inizio dal momento in cui il progetto del servo viene interrotto.
Come si può pensare ad uscire da un simile labirinto?
Si è soliti parlare di emancipazione, di diritti dei lavoratori, come fosse un canto che si perde fra le pareti di un cielo totalmente vuoto, senza alcun orecchio che possa prestare ascolto.
Si è soliti parlare di sfruttamento e ingiustizia usando parole d'altri.
Il torto è anche subito nella quotidianità più apparentemente banale. Il gesto teppistico a scuola di chi ti minaccia, o di chi ti ruba la fidanzata e via dicendo.
Quello che viene a mancare sono sempre le parole.
Essere senza parole.
Subire un torto però (cioè acquistarne coscienza), significa ricevere al contempo un dono. Il dono dell'estromissione dal campo della ragione. Il dono dell'esclusione, dell'essersi sentiti dire: “tu non ne fai più parte”.
Il dono è una forma di violenza sottilissima, perché consiste nell'uscire fuori dal campo della domanda. Non esiste più un chiedere, esiste un dare (che in questo caso si manifesta con un privare). Sia nel caso del dare che nel caso del togliere si è creditori. Nel primo caso bisogna che qualcosa torni in cambio, senza che lo si sia chiesto, nell'altro si costringe la vittima a farsi portare fuori dal proprio luogo di senso, farsi fare cioè lo stesso dono, abolendo il torto. Farsi Per-donare.
Da qui la negatività totale, unica soluzione.
Siamo ancora troppo legati a un concetto di comunità che prevede l'esistenza di Io (Noi) distinti, i quali si relazionano l'un con l'altro come se davvero fossero una molteplicità inserita in un senso e non in un assurdo.
Siamo ancora troppo all' "opera".
La comunità invece che ci mostra la nostra finitezza, fuori dall'io, nell'incontro quel paradosso che è la stessa ragione, di cui poter ridere con la cognizione che trova inizio nella propria morte e quindi nella perdita, quella da cui si era partiti. La comunità si incontra in ciò che resta scritto, come lapide senza luogo. Zona dei senza zona.
Dove si trova questa comunità? Dove finiscono le risposte e iniziano le domande.
Luca Atzori
In questo gioco entra in ballo la violenza operata dalla cosiddetta ragione, che di per sé resta inconsapevole anche per il carnefice che la detiene, il quale da per assodato che quella sia la Sua ragione.
Quello che noi pensiamo come sfruttamento, può non esserlo affatto per lo sfruttato, che invece si sente assai soddisfatto di portare a casa la sua “pagnotta”, e gli basta e avanza.
Parlando di violenza noi ci mettiamo automaticamente dalla parte del carnefice, perché usiamo il suo stesso linguaggio.
Chi sta subendo un torto spesso (quasi) non lo sa. Non sa di subire quello che per un'altra persona sarebbe invece tale. Questa è la natura del torto, esserlo per qualcuno e non per qualcun' altro.
Ma è anche vero che il torto ha inizio dal momento in cui il progetto del servo viene interrotto.
Come si può pensare ad uscire da un simile labirinto?
Si è soliti parlare di emancipazione, di diritti dei lavoratori, come fosse un canto che si perde fra le pareti di un cielo totalmente vuoto, senza alcun orecchio che possa prestare ascolto.
Si è soliti parlare di sfruttamento e ingiustizia usando parole d'altri.
Il torto è anche subito nella quotidianità più apparentemente banale. Il gesto teppistico a scuola di chi ti minaccia, o di chi ti ruba la fidanzata e via dicendo.
Quello che viene a mancare sono sempre le parole.
Essere senza parole.
Subire un torto però (cioè acquistarne coscienza), significa ricevere al contempo un dono. Il dono dell'estromissione dal campo della ragione. Il dono dell'esclusione, dell'essersi sentiti dire: “tu non ne fai più parte”.
Il dono è una forma di violenza sottilissima, perché consiste nell'uscire fuori dal campo della domanda. Non esiste più un chiedere, esiste un dare (che in questo caso si manifesta con un privare). Sia nel caso del dare che nel caso del togliere si è creditori. Nel primo caso bisogna che qualcosa torni in cambio, senza che lo si sia chiesto, nell'altro si costringe la vittima a farsi portare fuori dal proprio luogo di senso, farsi fare cioè lo stesso dono, abolendo il torto. Farsi Per-donare.
Da qui la negatività totale, unica soluzione.
Siamo ancora troppo legati a un concetto di comunità che prevede l'esistenza di Io (Noi) distinti, i quali si relazionano l'un con l'altro come se davvero fossero una molteplicità inserita in un senso e non in un assurdo.
Siamo ancora troppo all' "opera".
La comunità invece che ci mostra la nostra finitezza, fuori dall'io, nell'incontro quel paradosso che è la stessa ragione, di cui poter ridere con la cognizione che trova inizio nella propria morte e quindi nella perdita, quella da cui si era partiti. La comunità si incontra in ciò che resta scritto, come lapide senza luogo. Zona dei senza zona.
Dove si trova questa comunità? Dove finiscono le risposte e iniziano le domande.
Luca Atzori
sabato 5 giugno 2010
INTERVISTA A GIANNI CULATORIA

Di Luca Atzori
Questa è un' intervista che feci all’autore de Il Pozzo e lo Specchio, Gianni Culatoria, l’anno scorso, non appena l’opera nasceva.
L.Il pozzo e lo specchio: potrebbe spiegarci più precisamente il perché di questo titolo?
G Più precisamente non c'è da dire alcunché, ma piuttosto (più semplicemente) è il nome che io dono a quest’opera, la quale di per sé non ha alcun significato specifico, ma che ha semmai un valore che di certo non risiede ne nella carta e ne tantomeno nelle lettere o nei versi. Il valore di quest’opera risiede nel fatto stesso che esista. La sua quidditas, potremmo definirla.
L. Vuole intendere una sorta di macchina autopoietica nel senso in cui potrebbero essere intese opere d’arte come il grande vetro di Duchamp e affini, negli studi svolti da Varela e Maturana?
G, No non intendo questo, o perlomeno il mio interesse non era affatto quello di scrivere un’opera poetica che avesse “funzione autopoietica”, come lei ha voluto definirla. No, io ho voluto scrivere quest’opera perché in essa venisse rinchiuso finalmente un nuovo mito.
L. E’ possibile pensare a nuovi miti? I miti dovrebbero essere visti come qualcosa di eterno.
G. Ciò non esclude che fra questi ce ne possano essere anche di nuovi. C’è da considerare che il mito inizia nel momento in cui si racconta. Che poi la sua morphé sia eterna quello è un altro discorso.
L. Non sono affatto d'accordo. In ogni caso, qual è il mito di cui lei tratta?
G. Il mito dello specchio e del pozzo. Un pazzo andava in una stanza di specchi con uno speculum in mano (notare il giochino di parole) cercando di sentire i battiti cardiaci che provenivano dai riflessi sulle pareti. Ovviamente non sentiva mai nulla. Lo stupore maggiore gli viene quando si rende conto che nemmeno il suo cuore batte più. E da lì comincia a riflettersi in lui il pozzo che sta in mezzo alla stanza dentro il quale affonda, nel fondo del quale la sua coscienza precipitata risiede. Una volta uscito ritornerà sempre nella stanza degli specchi, ma consapevole e gioioso, tornerà fra gli specchi delle pareti a rimirarli mutando la realtà stessa grazie al grande dono riconquistato, ovvero quello dell’autocoscienza
L. Qual è il senso di questo racconto?
G. Questo racconto non ha un senso specifico. È l’allegoria vivente di un’esistenza.
L. Quella dell’autore?
G. Quella del poeta, più precisamente. L’autore è colui che narra, ma esiste solo più nel testo. Chi esiste nella vita è il poeta.
L. Anche se il mestiere di poeta non si può dire certo che esista al giorno d’oggi.
G. Non esiste perché non è mai esistito. Quello del poeta non è un mestiere, ma bensì un carattere, come la timidezza, l’estroversione, la melanconia etc. Lungi da me avere un mestiere, sono troppo buono per permettermelo. Mi è troppo stretto l'inferno.
L. Ma è anche un’abilità.
G. Appunto. Chi è poeta lo è perché quello è il suo carattere. Il carattere di una persona la cui vita sfiora qualsiasi evento. L’abilità sta tutta nella peculiarità di non dire mai nulla di definitivo, di chi dunque si trova costretto a usare un linguaggio differente da quello comunemente adoperato. Il poeta è fatto di linguaggio, è questo il suo carattere. Sono rari da trovare i poeti, questo è vero, ma semplicemente perché non è un carattere diffuso.
L. Il poeta è fatto di linguaggio.
G. Il poeta è impoetico. Il poeta di certo porta un altro luogo nei luoghi, e non solo, il poeta è sempre in un altro luogo rispetto ai luoghi. Il poeta proprio perché è l’esistenza stessa incarnata, non può che apparire e comunicare come fa. Il luogo del poeta è il vero luogo, il quale è sempre un non luogo, perché non è possibile mai essere posati su alcunché.
L. Esistenza incarnata?
G. Esatto.
L.Heideggeriano?
G. Non direi. Piuttosto preferirei dire che sono in attesa di una rinascita a livello totale. Che gli uomini siano individui e contemporaneamente veri centri di forza. Ma qui non vorrei giungere a parlare del sacro, ne tantomeno vorrei riabbracciare Leibniz e la monadologia. Io non voglio interessarmi al sacro, ne tantomeno all’uomo o alla verità.
L. Che cosa dunque suscita il suo interesse?
G. La donna, esclusivamente la donna. Quel che la donna non riuscirà mai a dire di se stessa.
L. Risposta alquanto bizzarra.
G. E possibilmente mi interessano anche le piazze pulite.
L. Forse lei si riferisce al tono lievemente scabroso di certi suoi versi.
G. Io ho detto che mi interessa la donna. Quindi si, esattamente come lei ha detto. E adesso per favore basta.
L. La ringrazio profondamente.
G. Il piacere è stato tutto mio, solo mio.
giovedì 3 giugno 2010
MATTEO CASTELLANO E PROVINCIA L'ho incontrato a casa sua e gli ho fatto alcune domande
di Luca Atzori
Pare che solo recentemente sia riuscita a metter testa sotto il sole una certa realtà che comprende diversi cantautori torinesi, i quali sarebbero presenti sulla scena da diversi anni. Spesso collaborano l'un con l'altro, omaggiandosi a vicenda. I musicisti che accompagnano gli uni suonano anche con gli altri, e può capitare di assistere ai loro concerti insieme nella stessa serata.
Insomma si tratta di una vera e propria collaborazione, perfettamente libera e soprattutto nata per la strada, generata dall'amicizia.
Uno di loro è Matteo Castellano, ventottenne, attivo da quattro anni. Ha realizzato un album (autoprodotto) nel 2005, dal titolo "Funghi Velenosi".
Matteo porta con sé l'esperienza di diversi concerti svolti nell'area del Piemonte e non solo. Chi l'ha visto esibirsi ha inevitabilmente dovuto afferrare la sua figura giullaresca accompagnata per contrasto da un' atmosfera carica di una certa amarezza. Ogni qual volta capiti di trovarsi a un concerto di Castellano si pregusta un qualcosa che sta a metà fra il cabaret e il cantautorato più pregiato.
I testi sono sempre molto incisivi e carichi di ironia anche se al contempo contengono spesso malinconiche allusioni al passato o provocazioni rivolte alla realtà sociale.
Per esempio il romanticismo di Una Zitella al Neon, o La canzone del vento ispirata al testo biblico Ecclesiaste, poi tutti i suoi sketch della serie Ciao mi chiamo Joe o La macchina del capo etc.
Nel 2009 ha partecipato al premio Tenco ed è arrivato finalista al concorso “Buscaglione” tenutosi al Teatro Vittoria.
Ha suonato in locali come l'Hiroshima, il Nuvolari, il Folk club, e altri numerosissimi locali.
Al 22 maggio risale il suo ultimo concerto, svoltosi al Kalakuta di Monasterolo di Savigliano (CN), insieme al gruppo spalla Sans Papier di cui uno dei membri è padrone del locale.
Attualmente Matteo sta lavorando ad un nuovo album che vorrebbe fare uscire l'anno prossimo e di cui giustamente non vuole ancora dirci nulla.
L'ho incontrato (a proposito) a casa sua e gli ho fatto alcune domande...
Ciao Matteo. Innanzitutto, mi viene da chiederti: com'è che hai deciso di fare il cantautore?
Avevo un lavoro come tecnico di teatro, poi mi sono successi un paio di concerti e ho provato. In seguito ho iniziato a suonare per strada.
Come mai questa scelta di suonare per strada?
La strada ti rende libero e non ti lega ad un discorso di dipendenza lavorativa.
Quali sono le tue influenze?
Bob Dylan prima di tutto. Sono attratto dai cantanti popolari. Questo è indice di un mio certo conformismo, sono suscettibile al mito del comandante, al capo popolo, la leggenda, e significa che provo anche simpatia per tutto ciò che è popolare, e dunque ambisco che le mie canzoni arrivino al cuore di ogni persona Mi piacciono Cabron de la Isla, Ruben Blades, Jean Louis Guerra, Vasco Rossi.
C'è molta musica latina anche nelle tue influenze.
Siamo colonizzati musicalmente dai paesi anglofoni. Noi siamo però molto più simili ad uno spagnolo che non ad un inglese, quindi ho citato questi cantanti perché me li sento più vicini al cuore. E poi preferisco il ritmo latino che non il rock and roll.
È una cosa dovuta a una tua ricerca questa presenza di teatralità e cabaret che contraddistingue i tuoi concerti?
È un demone che conosco fin dall'infanzia. Una forza che prende il mio carattere meditativo e perso fra le nuvole per trasformarlo in giullare. Non c'è una ricerca, ma una maschera che ho assunto e sviluppato fin dall'infanzia. Da piccolo ero così imbranato che lentamente ho posto attenzione ad ogni mio movimento, costruendomi una maschera che oggi è diventata parte di me.
Più che una ricerca, dunque, una terapia.
Sì. Però bisogna andare oltre le maschere. Uso la teatralità per comunicare meglio. Suonare mi ha insegnato un sacco di cose da un punto di vista psicologico. Credo si possa dire che io non faccia ne musica ne teatro, ma una via di mezzo, dove una cosa supplisce alla mancanza dell'altra.
Da poco hai iniziato a collaborare con una band.
Da un anno è partito il progetto Matteo Castellano e Provincia, band che ha trovato il suo equilibrio e un gruppo di lavoro. È passata attraverso mutamenti e ad essi è aperta. La formazione attuale è composta da Bozzi alla chitarra e arrangiamenti, Nicolò Bosio fisarmonica, sintetizzatore e fonica, Vito Micolis percussioni latine e Cajon, Giuseppe Leone percussioni del sud italia, Enzo (Forever) Mesiti al basso, Einrich Vogel arrangiamenti psicomagici e cibernetici.
Pare che solo recentemente sia riuscita a metter testa sotto il sole una certa realtà che comprende diversi cantautori torinesi, i quali sarebbero presenti sulla scena da diversi anni. Spesso collaborano l'un con l'altro, omaggiandosi a vicenda. I musicisti che accompagnano gli uni suonano anche con gli altri, e può capitare di assistere ai loro concerti insieme nella stessa serata.
Insomma si tratta di una vera e propria collaborazione, perfettamente libera e soprattutto nata per la strada, generata dall'amicizia.
Uno di loro è Matteo Castellano, ventottenne, attivo da quattro anni. Ha realizzato un album (autoprodotto) nel 2005, dal titolo "Funghi Velenosi".
Matteo porta con sé l'esperienza di diversi concerti svolti nell'area del Piemonte e non solo. Chi l'ha visto esibirsi ha inevitabilmente dovuto afferrare la sua figura giullaresca accompagnata per contrasto da un' atmosfera carica di una certa amarezza. Ogni qual volta capiti di trovarsi a un concerto di Castellano si pregusta un qualcosa che sta a metà fra il cabaret e il cantautorato più pregiato.
I testi sono sempre molto incisivi e carichi di ironia anche se al contempo contengono spesso malinconiche allusioni al passato o provocazioni rivolte alla realtà sociale.
Per esempio il romanticismo di Una Zitella al Neon, o La canzone del vento ispirata al testo biblico Ecclesiaste, poi tutti i suoi sketch della serie Ciao mi chiamo Joe o La macchina del capo etc.
Nel 2009 ha partecipato al premio Tenco ed è arrivato finalista al concorso “Buscaglione” tenutosi al Teatro Vittoria.
Ha suonato in locali come l'Hiroshima, il Nuvolari, il Folk club, e altri numerosissimi locali.
Al 22 maggio risale il suo ultimo concerto, svoltosi al Kalakuta di Monasterolo di Savigliano (CN), insieme al gruppo spalla Sans Papier di cui uno dei membri è padrone del locale.
Attualmente Matteo sta lavorando ad un nuovo album che vorrebbe fare uscire l'anno prossimo e di cui giustamente non vuole ancora dirci nulla.
L'ho incontrato (a proposito) a casa sua e gli ho fatto alcune domande...
Ciao Matteo. Innanzitutto, mi viene da chiederti: com'è che hai deciso di fare il cantautore?
Avevo un lavoro come tecnico di teatro, poi mi sono successi un paio di concerti e ho provato. In seguito ho iniziato a suonare per strada.
Come mai questa scelta di suonare per strada?
La strada ti rende libero e non ti lega ad un discorso di dipendenza lavorativa.
Quali sono le tue influenze?
Bob Dylan prima di tutto. Sono attratto dai cantanti popolari. Questo è indice di un mio certo conformismo, sono suscettibile al mito del comandante, al capo popolo, la leggenda, e significa che provo anche simpatia per tutto ciò che è popolare, e dunque ambisco che le mie canzoni arrivino al cuore di ogni persona Mi piacciono Cabron de la Isla, Ruben Blades, Jean Louis Guerra, Vasco Rossi.
C'è molta musica latina anche nelle tue influenze.
Siamo colonizzati musicalmente dai paesi anglofoni. Noi siamo però molto più simili ad uno spagnolo che non ad un inglese, quindi ho citato questi cantanti perché me li sento più vicini al cuore. E poi preferisco il ritmo latino che non il rock and roll.
È una cosa dovuta a una tua ricerca questa presenza di teatralità e cabaret che contraddistingue i tuoi concerti?
È un demone che conosco fin dall'infanzia. Una forza che prende il mio carattere meditativo e perso fra le nuvole per trasformarlo in giullare. Non c'è una ricerca, ma una maschera che ho assunto e sviluppato fin dall'infanzia. Da piccolo ero così imbranato che lentamente ho posto attenzione ad ogni mio movimento, costruendomi una maschera che oggi è diventata parte di me.
Più che una ricerca, dunque, una terapia.
Sì. Però bisogna andare oltre le maschere. Uso la teatralità per comunicare meglio. Suonare mi ha insegnato un sacco di cose da un punto di vista psicologico. Credo si possa dire che io non faccia ne musica ne teatro, ma una via di mezzo, dove una cosa supplisce alla mancanza dell'altra.
Da poco hai iniziato a collaborare con una band.
Da un anno è partito il progetto Matteo Castellano e Provincia, band che ha trovato il suo equilibrio e un gruppo di lavoro. È passata attraverso mutamenti e ad essi è aperta. La formazione attuale è composta da Bozzi alla chitarra e arrangiamenti, Nicolò Bosio fisarmonica, sintetizzatore e fonica, Vito Micolis percussioni latine e Cajon, Giuseppe Leone percussioni del sud italia, Enzo (Forever) Mesiti al basso, Einrich Vogel arrangiamenti psicomagici e cibernetici.
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