mercoledì 30 novembre 2011

UCCIDIAMO L'ARTISTA!

Tutto il novecento, è stato, per l'arte, un secolo di risoluzione dei linguaggi. Sono stati affrontati tutti i mezzi espressivi e se ne sono approfondite, per ciascuno, le rispettive potenzialità tecniche.
È stato il secolo della cosiddetta “sperimentazione”.
In ambito musicale si è passati dalla dodecafonia alla musica seriale, fino alla musica concreta, alla musica monotonale di Giacinto Scelsi e via dicendo arrivando ai filosofi della musica (leggera) come Brian Eno e tutte le varie avanguardie musicali del sottosuolo.
In ambito teatrale si è approfondito il discorso concernente l'attore e la regia, passando da Stanislavskij a Mejerhold, Gordon Craig, fino ad arrivare a Grotowski, poi il living theatre che sfondava la quarta parete e Carmelo Bene che amplificava la voce etc.
Nell'arte visiva, poi, fra le avanguardie storiche, la fotografia, l'arte concettuale fino alle forme di arte relazionale e così via...
Insomma, che secolo è il nostro?
Le voci poststrutturaliste strillano a basso tono dentro le orecchie di ognuno, che è stato già fatto tutto. Che ormai non ha più senso fare arte perché tutto è già stato scoperto. Gli artisti rispondono con spirito contestatorio, insieme assecondandone le tesi, producendo arte che tenti di stupire, scandalizzare, innovare etc, cosicché qualcuno possà dire “ah caspita, innovativo!” e l'altro più furbo, a fianco, “nah già visto”.
Tutto ciò succede ancora, perché l'arte non è stata abbastanza risolta. O meglio di questo non se ne è presa a pieno la consapevolezza. Essa viene considerata ancora all'interno del suo valore economico, viene oggettivata. Il rapporto soggetto (fruitore) e oggetto (opera) è ancora vivo.
Non c'è niente di grave, in fondo è stato fatto tanto per distruggerla, ma si vede che ancora c'è del lavoro da fare. C'è da dire che gli sperimentatori del secolo passato ci hanno tolto il peso di tanto, tanto lavoro. Però, effettivamente, adesso a noi tocca fare una cosa molto semplice, ovvero impadronirci di tutto quello che questi hanno fatto e servircene per esprimere al meglio i nostri contenuti.
Se non c'è più niente da inventare, tanto meglio, adesso possiamo concentrarci su quel che abbiamo da dire. Forse è proprio il momento in cui l'arte la si può finalmente fare in libertà, secondo le proprie esigenze, rinunciando a dire “io ho scoperto questo” e via dicendo.
Ma in fondo a che cosa tendiamo noi, se non ad una distruzione totale di questa educatrice dell'umanità? Essa è per noi come una madre, che lentamente ci sta lasciando la mano, per dirci “adesso vai nel mondo, e vivi artisticamente”. L'arte è un'educatrice, e l'umanità è sulla fase di terminare la propria adolescenza.
Ora l'artista è una figura che sta scomparendo, e si può fare ben poco perché questa cosa non accada. E intendo sottolineare che è una gran fortuna che questo stia succedendo. Era ora!
Più semplicemente ci troviamo ad essere uomini che si servono dell'arte per comunicare qualcosa. Almeno così dovrebbe essere. Uscire fuori dalle logiche monetarie dell' “opera quotata” “artista quotato” e via dicendo. Iniziare a considerare che se mai dovessimo essere pagati (come di dovere, sempre) dovrebbe essere per garantirci di vivere e permetterci di svolgere il nostro lavoro. Ma sono convinto che stiamo giungendo verso un'era in cui ci toccherà lentamente di rinunciare alla gloria del nostro ego. La svolta sarà doverosamente collettiva, e quei pochi ego rimasti, lo saranno in sacrificio.
Mad pride è una realtà antiartistica. Intende togliere all'arte il suo valore, per portarlo interamente nella vita. La vita rivuole indietro il delirio! Noi intendiamo emanciparlo, da qualsiasi catalogazione. Intendiamo uscire fuori dalla confusione fra essenza e personalità.
Non esistono artisti, registi, scrittori, attori, ladri, matti, etc ma esistono uomini. Gli uomini hanno a loro disposizione la scacchiera di tutto quel che già è stato “scoperto” precedentemente. Ora l'unica cosa da fare è iniziare a osare di servirsene (e studiarlo, senza troppi sforzi, se non esperienziali).
Si arriverà ad un giorno in cui non ci sarà più bisogno di arte. Sarà quando torneremo a somigliare ai nostri nonni preistorici, ma con quella saggezza in più. Quella che ci è stata donata dai nostri sbagli.
L'arte è uno sbaglio. La cultura è uno sbaglio. La Storia è uno sbaglio. La politica è uno sbaglio. La civiltà è uno sbaglio.
Uccidiamo l'artista!

Luca Atzori

sabato 26 novembre 2011

MAD PRIDE FESTIVAL TEATRO

Mad pride festival non intende presentarsi come una normale rassegna.
Anche Mad Pride festival ci tiene a evidenziare la propria diversità con fierezza e orgoglio.
A partire dal 2012 Mad pride festival inizierà ad insinuarsi fra i teatri, i locali, le strutture psichiatriche, le sedi delle associazioni che si occupino del disagio mentale etc.
Ci saranno diversi tratti che ne contraddistingueranno la “personalità”:

Le compagnie teatrali composte da utenti psichiatrici si esibiranno o in locali o in teatri.
Le compagnie composte da “normali” teatranti si esibiranno in strutture psichiatriche o comunque vicine agli utenti (case appartamento, associazioni etc) e dovranno trattare argomenti che siano affini al disagio, la follia e quant'altro.
Ogni serata di Mad pride festival sarà distinguibile da una girandola presente nella location e ovviamente la mia presenza più presentazione ad ogni inizio spettacolo.
Mad pride festival è una rassegna libera, e tende a muoversi in libertà. È una rassegna assolutamente vagabonda.
Una piccola percentuale di quel che guadagneranno gli artisti andrà a Mad pride al fine di portare avanti le nostre attività.
La nostra finalità è quella di creare un vero e proprio evento che possa generare uno scambio fra due realtà (quella dei “normali” e quella dei “folli”) in maniera che possano essere scardinate (anche solo lontanamente, un giorno) tutte le paure che ancora incombono nelle relazioni fra di esse.
Vorremmo raccogliere le volontà di tutta la città di Torino affinché una semplice “rassegna” si trasformi in un vero e proprio evento a lunga durata.
I matti devono avere diritto di uscire di casa loro senza per forza avere di mezzo i loro operatori che li controllino ad ogni movimento che facciano.
I matti devono avere la possibilità di vedere svolgersi nelle strutture create per loro, spettacoli delle compagnie operanti a torino.
“Il teatro è una dichiarazione di follia” C.B.
Questo è quanto.


Invito tutte le compagnie e le location interessate a contattarmi al numero 3498453004, oppure all'indirizzo email atzori.l@tiscali.it.

Luca Atzori

domenica 20 novembre 2011

(E?) OVVERO DELL'E(S)SENZA - recensione dello spettacolo (studio) di Amalia de Bernardis


regia,drammaturgia,cura della visione Amalia De Bernardis
suggestioni e montaggio video Damiano Monaco
suggestioni musicali Pierpaolo Laustino
con Pierpaolo Laustino, Claudia Giacosa, Amalia De Bernardis

Venerdì 18 Novembre 2011 - Magazzini sul po



Sono convinto che scrivere qualsiasi cosa a proposito di uno spettacolo come quello di Amalia de Bernardis, sia del tutto insensato, perché apporterebbe con sé un certo parallelismo di senso, quindi inutile (dal mio punto di vista).
Intendo dire che a mio parere, in “e ovvero dell'essenza”non c'è niente di oggettivo da capire (ovviamente dal mio punto di vista personale e soggettivo).
La mia mente non ama fare sforzi. Non li fa non perché sia pigra, ma perché soprattutto quando si pone nella posizione dello spettatore, chiede come minimo sindacale di essere trattata come regina, superbamente lo chiede, certo. Ma è così, ecco.
Posso dire che cosa io da spettatore ho pensato vedendo questo spettacolo.
Non so se ho personalmente del teatro una concezione chiara. Non credo che nessuno ce l'abbia. Qualora ci si sieda a teatro però credo che sia fondamentale che allo spettatore non venga richiesto nessuno sforzo intellettuale. A teatro non esiste miopia. O vedi, o non vedi.
C'è qualcosa di simile alla pornografia. Vedere e basta.
Non importa con quali occhi, ma l'importante è vedere.
Ci si siede e ci si aspetta di vedere succedere qualcosa. Creare uno strappo su quella che è la stanza segreta dell'artista, ma resa pubblica, senza che ci sia di intorno un qualche residuo di ego, o qualche intenzione recondita.
Non credo, personalmente, nel teatro del sottointeso.
Procedere con la ridondanza dell'elemento scenico comperato dal macellaio. Il video che occupa mezza stanza e che riporta “per metafora” le interiora dello spettatore. Sentire sussurrate parole che si è costretti a rinunciare ad ascoltare sin da principio. Tutto questo genera un sottile senso di stizza.
Perché quel che ho visto è stato un coacervo di materia. Tanti movimenti, tanta simbologia violata. Tanta attenzione richiesta, sin da farla naufragare l' attenzione.
Naufragare corale degli spettatori.
Ma l'organicità era insufficiente. Non si è fatto davvero il salto dal quale non si torna indietro. Tanta fascinazione. Movimenti illusori. Tanta materia, quindi anche essa illusoria. Tutto troppo spezzato. Tutto troppo ingombrante. Sgrammaticato, si, volutamente. Ma tutto troppo intenzionale. Tutto forse sembrava dire “questo è quel che penso io”. Tutto troppo sotto-inteso. Desiderio di vomitare qualcosa, ma un vomito trattenuto, troppo trattenuto.

Indubbio dire che l'idea (per quel che ho intuito) fosse geniale nella sua ambizione. Interessante sicuramente il percorso.

Ma che cosa deve fare il teatro? Deve trasmettere? Deve parlare ancora di sé? Che cosa può dire il teatro di sé?

Amalia de Bernardis sa benissimo che procedere con la risoluzione dei vari linguaggi artistici è pressoché inutile. Amalia parla dell'urgenza, del contenuto, del genio a discapito del talento.
Posso dire, da spettatore occasionale e sincero, che ho visto durante quello spazio di tempo (che non iniziava e non finiva) crescere la mia testa e farsi un pallone.
La mia è l'opinione di uno spettatore stupidissimo. Perché io a teatro divento stupido come un insetto. Stupido come un bambino o un folle. Un folle che chiede di essere distratto dai suoi deliri e che ne chiede di nuovi.
Io non voglio leggere le spiegazioni di niente. Io voglio vedere.
E sta volta non ho visto né sentito niente. Forse era quello che ci si aspettava. Forse anche le nostre valutazioni cambiano in base al tempo, in base a come ci si siede, e come ci si sente. Forse è anche questo il bello del teatro. Mi sono sentito seduto e osservante eccetera eccetera...

Luca Atzori (nei panni dello spettatore stupidissimo)

venerdì 11 novembre 2011

CHE COS'E' LA FEDE?

Gli uomini non sanno accogliere presso di sé l'angoscia, poiché essa non ha termine, non ha luogo, non ha colore, non ha voce. E' la strada che ciascuno ha preso in origine, e non c'è tenebra che possa essere resa meno accecante dal tessuto di una tenda.
Nessuno ha deciso per nessuno. L'angoscia potrebbe condurre in nessun luogo. Essa è il luogo dell'attesa infinita. Ogni uomo, in realtà, sa in cuor suo che cos'è l'angoscia, e proprio per questo ne è costretto a fugare.
Il dolore dell'angoscia rende l'uomo vivo. Perché il solo sapere di essere al mondo, il solo essersi inventati di essere al mondo, in questo indicibile nulla, ci presenta la vita nella sua totalità. Una totalità che sfiora il niente, se non fosse per il respiro.
Il respiro che sentiamo nell'angoscia è quello che i Vangeli chiamavano lo Spirito Santo.

Che cos'è la fede?

La cecità dell'angoscia è necessaria all'abbandono e alla caduta ineluttabile. Ineluttabile è l'ascesa, lo sforzo. Lo sforzo di creare dal nulla, ma senza poggiare su alcunché. Senza accomodarsi mai. Accettare la fatica della vita.

Per avere fede bisogna essere Atei.

Non bisogna aver accettato alcun Dio. Non bisogna essersi soffermati su alcuna certezza o alcun credo. Avere fede significa raccogliere presso di sé il silenzio, e nient'altro.
Accogliere il silenzio nel cuore.
Gesù Cristo disse: “ solo chi è uguale a un bambino potrà entrare nel regno dei cieli”.
Bisogna perciò vivere la morte interamente, e non lasciare alcun pezzo di sé. La materia è l'unica illusione.
Spiega bene che cosa sia la fede un bellissimo film del 1955, con la regia di Dreyer: Ordet. In quel film si racconta di un pazzo convinto di essere Gesù di Nazareth. La sua cognata muore e lui tenendo per mano una bambina fa risorgere la donna.
La sua fede è dovuta al suo profondo dolore. Vero e senza misure. Perché ci si possa risvegliare e giungere così ad una forma di gioia ed estasi totale bisogna accogliere il dolore interamente. Il dolore è ciò che noi sentiamo. Ma siamo resi indifferenti da un'anestesia generale, un oblio. Mentre è all'innocenza che bisogna tendere, ma attraverso il lungo travaglio della consapevolezza.
E' solo attraverso la più totale concessione della volontà che si fa simili al nulla. E quando si è simili al nulla, allora non resta che creare.

"In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio". Vangelo di Giovanni

La Parola.

Ma il dovere dell'allegria.

E nel mentre il nostro volto bambino si fa mostro, e si nasconde. Noi portiamo presso di noi la nostra maschera e lasciamo vagabonda la nostra anima.
Sant'Agostino diceva che la verità la si può trovare solo con l'indagine interiore. Dove? È forse l'anima la prigione del corpo?
Il nostro corpo imprigionato nello spazio tempo, nell'essere. Ma cercando dentro noi stessi troviamo quella continuità con tutto ciò che accade in un unico istante.
Noi troppo spesso proviamo vergogna per quella bellezza che conserviamo dentro.

Per avere fede bisogna esser pronti ad essere soli. Essere pronti a capire che saremmo stati soli comunque. Anzi, più soli.

Luca Atzori

domenica 6 novembre 2011

BATAILLE E LA SOVRANITA': UN HEGELISMO SENZA RISERVE

L’introduzione alla lettura di Hegel, di Alexandre Kojève, è il testo attraverso il quale Bataille si avvicina al grande filosofo tedesco, una raccolta di lezioni incentrate principalmente sull'argomento dialettica servo/padrone. Il servo viene visto come “facitore di storia” dove il suo stesso lavoro rappresenta il momento del negativo. Il processo dialettico viene configurato come un passaggio che porta ad una liberazione, attraverso il lavoro. La Fenomenologia dello spirito può essere definita, infatti, come una “filosofia del lavoro”.  Servo e padrone sono interdipendenti, perché il primo lavora per il secondo, mentre questi capitalizza il primo, al fine di perpetrare il senso del lavoro medesimo. Bataille propone una figura differente, ed è quella del sovrano.
 
 
Che cosa si intende per sovranità?
 
“La sovranità di cui io parlo, ha poco a che vedere con quella degli Stati, definita dal diritto internazionale. Parlo, in generale, di un aspetto opposto nella vita a quello servile o subordinato.” Bataille La sovranità
 
Il sovrano può essere definito come colui che non ha alcun bisogno di accumulare, che non dipende da nessuno. Colui che tende a proiettarsi nella perdita più totale, per risiedere nel non-senso. La sfera della sovranità prevede che ci si sia estromessi dalla paura della morte (condizione propria del servo, per dirla in termini hegeliani) e si sia giunti alla regione del divino.
   Le sue “effusioni” sono quelle dell’angoscia, del riso, dell’erotismo, dello spreco. Bataille considera la sovranità come quella violenza che contraddistingue l’universo inteso come intimità pura, dove non vi sono distinzioni fra “la mia gamba sinistra e quella destra”. Il sovrano non può concepire la possibilità di avere qualcuno asservito, poiché egli è al di sopra di qualsiasi progetto.
 
Si giunge al di fuori del negativo estromettendolo dalla dialettica,  non concedendogli il contrario del positivo e quindi uscendo fuori dal senso del lavoro, passando da una “economia ristretta” a una “economia generale”, nell’accezione che ne trae Jacques Derrida nel testo dal titolo omonimo (Dall’economia ristretta a un’economia generale. Un hegelismo senza riserve). È in quest’opera che Derrida parla di un “laceramento spasmodico del negativo”, come modo per giungere a un negativo senza riserve.
  
 
   Il sovrano è colui che vive l’esperienza interiore come uno scavo profondo nel negativo in pura perdita, dove vediamo avvenire una “riduzione del senso”. Si resta sì nel negativo, senza però passare attraverso quella che Hegel chiama la Aufhebung. Si rinuncia (restando poggiati al riso) al traguardo di una qualsivoglia totalità.
 
  
   Nella prima pagina della seconda parte de L’esperienza interiore, intitolata Il supplizio, si legge: “vivo di esperienza sensibile e non di spiegazione logica. Ho del divino un’esperienza così folle che si riderà di me se ne parlo”12.
   Il supplizio è quella condizione (l’unica) in cui è possibile fare esperienza del divino, ed è quella in cui nulla è possibile. È il momento in cui è possibile “trasformare l’angoscia in delizia”; è lì che inizia quella che Bataille chiama la Chance.
   La supplica è per Bataille condizione umana imprescindibile. Passando di possibile in possibile si arriva infine a eludere il senso dell’io. Inizia l’esperienza, che non sarà mai possibile raccontare. È a tale proposito che Bataille adopera la figura allegorica del labirinto. Egli parte dalla constatazione che alla base di ogni vita umana esista un “principio di insufficienza”: ciascuno ricerca l’essere, ma questo non lo si può incontrare da nessuna parte. Non è possibile pensare di poter racchiudere qualcosa, perché per Bataille l’unica cosa che possiamo trovare è l’insufficienza stessa. Dunque l’esperienza in sé viene vista come un esercizio filosofico vero e proprio, al quale non è possibile arrestarsi davanti a qualsivoglia tempio conoscitivo, ma piuttosto si presenta come una perenne fuga.
 
   Se Bataille va considerato come una sorta di hegeliano e insieme al contempo un “anti-hegeliano”, bisogna tutt’al più non dimenticare quella che egli definiva come una comunione con Nietzsche, nel quale egli vede non un semplice ateo, demolitore della dottrina cristiana, ma più propriamente un sacrificatore. Il filosofo che esaltava il dionisiaco, viene preso come esempio per spiegare quell’idea di sacrificio secondo la quale si accede al sacro solo con l’uscita fuori dal piano del trascendente, per arrivare alla fusione con quella totalità originaria propria dell’indistinto.

Luca Atzori