lunedì 21 giugno 2010

NESSUNO

“Nessuno ci impasta più di terra e argilla
nessuno alita sulla nostra polvere.
Nessuno.
Lodato sii tu, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire.
Incontro
a te.
Un nulla eravamo, siamo, rimarremo, fiorendo:
la rosa di
Nulla, di Nessuno...”

Questo è l'inizio di una poesia di Celan che porta come titolo “Salmo”. Una vera e propria preghiera.
Voce della religiosità più atea di chi arriva a rivolgersi a Nessuno.
La zona dove incontriamo Dio è quella della trascendenza, intesa come la pura forma di oggettivazione, distinzione, separatezza, ineluttabile scoglio di ogni atto conoscitivo.

Le parole e nient'altro. Il sacro è perciò immanente, come ciò che resta, inutile e vivo.
Di ciò che è immanente non si parla.

Quel Nessuno (importante la maiuscola) che viene nominato, è proprio il modo in cui disperatamente si chiama l'ignoto, che non siamo mai noi a trovare, ma che viene incontro a noi stessi chiamandoci in limine, facendosi vivo come inframezzo.
Noi (non) siamo nessuno, e incontro a quel nessuno, fioriamo.
Nati senza nome, (dove) niente ha nome, (dove) finiamo senza nome.

Preghiera atea, anche se fare uso di questa parola è di per sé sbagliato, perché ciò che viene a mancare non è il concetto di Dio, ma piuttosto bisogna considerare che ciò che resta in realtà sono solo le stesse parole, nel paradosso di cui è impossibile dare definizione.
Distanti dalla parola che implode in se stessa, manifestatasi come compiuta, mostrante solo se stessa, e dunque donante voce a quel Nessuno che è inascoltabile, inconoscibile, indicibile (seppure venga paradossalmente nominato).

Il “nulla” è tutta la sovrabbondanza di questo mondo.
L'essere umano è un lusso di cui la terra può fare a meno.

Luca Atzori

giovedì 17 giugno 2010

IL TORTO

Subire un torto è possibile solo in quanto alla vittima vengono a mancare le parole. Ad esempio qualsiasi persona si trovi “costretta” a fare un lavoro che lo getti nella condizione di sfruttato, conduce la stessa vita ignobile per quaranta, cinquant' anni, e avrebbe certamente molte cose da dire, ma non sa dirle nemmeno a se stesso, così indossa facilmente l'abito dello schiavo, trascinandosi in un'esistenza del tutto sprecata (avente come fine quel porto chiamato pensione).
In questo gioco entra in ballo la violenza operata dalla cosiddetta ragione, che di per sé resta inconsapevole anche per il carnefice che la detiene, il quale da per assodato che quella sia la Sua ragione.
Quello che noi pensiamo come sfruttamento, può non esserlo affatto per lo sfruttato, che invece si sente assai soddisfatto di portare a casa la sua “pagnotta”, e gli basta e avanza.

Parlando di violenza noi ci mettiamo automaticamente dalla parte del carnefice, perché usiamo il suo stesso linguaggio.

Chi sta subendo un torto spesso (quasi) non lo sa. Non sa di subire quello che per un'altra persona sarebbe invece tale. Questa è la natura del torto, esserlo per qualcuno e non per qualcun' altro.
Ma è anche vero che il torto ha inizio dal momento in cui il progetto del servo viene interrotto.
Come si può pensare ad uscire da un simile labirinto?
Si è soliti parlare di emancipazione, di diritti dei lavoratori, come fosse un canto che si perde fra le pareti di un cielo totalmente vuoto, senza alcun orecchio che possa prestare ascolto.
Si è soliti parlare di sfruttamento e ingiustizia usando parole d'altri.
Il torto è anche subito nella quotidianità più apparentemente banale. Il gesto teppistico a scuola di chi ti minaccia, o di chi ti ruba la fidanzata e via dicendo.
Quello che viene a mancare sono sempre le parole.

Essere senza parole.

Subire un torto però (cioè acquistarne coscienza), significa ricevere al contempo un dono. Il dono dell'estromissione dal campo della ragione. Il dono dell'esclusione, dell'essersi sentiti dire: “tu non ne fai più parte”.
Il dono è una forma di violenza sottilissima, perché consiste nell'uscire fuori dal campo della domanda. Non esiste più un chiedere, esiste un dare (che in questo caso si manifesta con un privare). Sia nel caso del dare che nel caso del togliere si è creditori. Nel primo caso bisogna che qualcosa torni in cambio, senza che lo si sia chiesto, nell'altro si costringe la vittima a farsi portare fuori dal proprio luogo di senso, farsi fare cioè lo stesso dono, abolendo il torto. Farsi Per-donare.

Da qui la negatività totale, unica soluzione.

Siamo ancora troppo legati a un concetto di comunità che prevede l'esistenza di Io (Noi) distinti, i quali si relazionano l'un con l'altro come se davvero fossero una molteplicità inserita in un senso e non in un assurdo.
Siamo ancora troppo all' "opera".
La comunità invece che ci mostra la nostra finitezza, fuori dall'io, nell'incontro quel paradosso che è la stessa ragione, di cui poter ridere con la cognizione che trova inizio nella propria morte e quindi nella perdita, quella da cui si era partiti. La comunità si incontra in ciò che resta scritto, come lapide senza luogo. Zona dei senza zona.

Dove si trova questa comunità? Dove finiscono le risposte e iniziano le domande.

Luca Atzori

sabato 5 giugno 2010

INTERVISTA A GIANNI CULATORIA


Di Luca Atzori

Questa è un' intervista che feci all’autore de Il Pozzo e lo Specchio, Gianni Culatoria, l’anno scorso, non appena l’opera nasceva.

L.Il pozzo e lo specchio: potrebbe spiegarci più precisamente il perché di questo titolo?

G Più precisamente non c'è da dire alcunché, ma piuttosto (più semplicemente) è il nome che io dono a quest’opera, la quale di per sé non ha alcun significato specifico, ma che ha semmai un valore che di certo non risiede ne nella carta e ne tantomeno nelle lettere o nei versi. Il valore di quest’opera risiede nel fatto stesso che esista. La sua quidditas, potremmo definirla.

L. Vuole intendere una sorta di macchina autopoietica nel senso in cui potrebbero essere intese opere d’arte come il grande vetro di Duchamp e affini, negli studi svolti da Varela e Maturana?

G, No non intendo questo, o perlomeno il mio interesse non era affatto quello di scrivere un’opera poetica che avesse “funzione autopoietica”, come lei ha voluto definirla. No, io ho voluto scrivere quest’opera perché in essa venisse rinchiuso finalmente un nuovo mito.

L. E’ possibile pensare a nuovi miti? I miti dovrebbero essere visti come qualcosa di eterno.

G. Ciò non esclude che fra questi ce ne possano essere anche di nuovi. C’è da considerare che il mito inizia nel momento in cui si racconta. Che poi la sua morphé sia eterna quello è un altro discorso.

L. Non sono affatto d'accordo. In ogni caso, qual è il mito di cui lei tratta?

G. Il mito dello specchio e del pozzo. Un pazzo andava in una stanza di specchi con uno speculum in mano (notare il giochino di parole) cercando di sentire i battiti cardiaci che provenivano dai riflessi sulle pareti. Ovviamente non sentiva mai nulla. Lo stupore maggiore gli viene quando si rende conto che nemmeno il suo cuore batte più. E da lì comincia a riflettersi in lui il pozzo che sta in mezzo alla stanza dentro il quale affonda, nel fondo del quale la sua coscienza precipitata risiede. Una volta uscito ritornerà sempre nella stanza degli specchi, ma consapevole e gioioso, tornerà fra gli specchi delle pareti a rimirarli mutando la realtà stessa grazie al grande dono riconquistato, ovvero quello dell’autocoscienza

L. Qual è il senso di questo racconto?

G. Questo racconto non ha un senso specifico. È l’allegoria vivente di un’esistenza.

L. Quella dell’autore?

G. Quella del poeta, più precisamente. L’autore è colui che narra, ma esiste solo più nel testo. Chi esiste nella vita è il poeta.

L. Anche se il mestiere di poeta non si può dire certo che esista al giorno d’oggi.

G. Non esiste perché non è mai esistito. Quello del poeta non è un mestiere, ma bensì un carattere, come la timidezza, l’estroversione, la melanconia etc. Lungi da me avere un mestiere, sono troppo buono per permettermelo. Mi è troppo stretto l'inferno.

L. Ma è anche un’abilità.

G. Appunto. Chi è poeta lo è perché quello è il suo carattere. Il carattere di una persona la cui vita sfiora qualsiasi evento. L’abilità sta tutta nella peculiarità di non dire mai nulla di definitivo, di chi dunque si trova costretto a usare un linguaggio differente da quello comunemente adoperato. Il poeta è fatto di linguaggio, è questo il suo carattere. Sono rari da trovare i poeti, questo è vero, ma semplicemente perché non è un carattere diffuso.

L. Il poeta è fatto di linguaggio.

G. Il poeta è impoetico. Il poeta di certo porta un altro luogo nei luoghi, e non solo, il poeta è sempre in un altro luogo rispetto ai luoghi. Il poeta proprio perché è l’esistenza stessa incarnata, non può che apparire e comunicare come fa. Il luogo del poeta è il vero luogo, il quale è sempre un non luogo, perché non è possibile mai essere posati su alcunché.

L. Esistenza incarnata?

G. Esatto.

L.Heideggeriano?

G. Non direi. Piuttosto preferirei dire che sono in attesa di una rinascita a livello totale. Che gli uomini siano individui e contemporaneamente veri centri di forza. Ma qui non vorrei giungere a parlare del sacro, ne tantomeno vorrei riabbracciare Leibniz e la monadologia. Io non voglio interessarmi al sacro, ne tantomeno all’uomo o alla verità.

L. Che cosa dunque suscita il suo interesse?

G. La donna, esclusivamente la donna. Quel che la donna non riuscirà mai a dire di se stessa.

L. Risposta alquanto bizzarra.

G. E possibilmente mi interessano anche le piazze pulite.

L. Forse lei si riferisce al tono lievemente scabroso di certi suoi versi.

G. Io ho detto che mi interessa la donna. Quindi si, esattamente come lei ha detto. E adesso per favore basta.

L. La ringrazio profondamente.

G. Il piacere è stato tutto mio, solo mio.

giovedì 3 giugno 2010

MATTEO CASTELLANO E PROVINCIA L'ho incontrato a casa sua e gli ho fatto alcune domande

di Luca Atzori



Pare che solo recentemente sia riuscita a metter testa sotto il sole una certa realtà che comprende diversi cantautori torinesi, i quali sarebbero presenti sulla scena da diversi anni. Spesso collaborano l'un con l'altro, omaggiandosi a vicenda. I musicisti che accompagnano gli uni suonano anche con gli altri, e può capitare di assistere ai loro concerti insieme nella stessa serata.
Insomma si tratta di una vera e propria collaborazione, perfettamente libera e soprattutto nata per la strada, generata dall'amicizia.
Uno di loro è Matteo Castellano, ventottenne, attivo da quattro anni. Ha realizzato un album (autoprodotto) nel 2005, dal titolo "Funghi Velenosi".
Matteo porta con sé l'esperienza di diversi concerti svolti nell'area del Piemonte e non solo. Chi l'ha visto esibirsi ha inevitabilmente dovuto afferrare la sua figura giullaresca accompagnata per contrasto da un' atmosfera carica di una certa amarezza. Ogni qual volta capiti di trovarsi a un concerto di Castellano si pregusta un qualcosa che sta a metà fra il cabaret e il cantautorato più pregiato.
I testi sono sempre molto incisivi e carichi di ironia anche se al contempo contengono spesso malinconiche allusioni al passato o provocazioni rivolte alla realtà sociale.
Per esempio il romanticismo di Una Zitella al Neon, o La canzone del vento ispirata al testo biblico Ecclesiaste, poi tutti i suoi sketch della serie Ciao mi chiamo Joe o La macchina del capo etc.
Nel 2009 ha partecipato al premio Tenco ed è arrivato finalista al concorso “Buscaglione” tenutosi al Teatro Vittoria.
Ha suonato in locali come l'Hiroshima, il Nuvolari, il Folk club, e altri numerosissimi locali.
Al 22 maggio risale il suo ultimo concerto, svoltosi al Kalakuta di Monasterolo di Savigliano (CN), insieme al gruppo spalla Sans Papier di cui uno dei membri è padrone del locale.
Attualmente Matteo sta lavorando ad un nuovo album che vorrebbe fare uscire l'anno prossimo e di cui giustamente non vuole ancora dirci nulla.

L'ho incontrato (a proposito) a casa sua e gli ho fatto alcune domande...

Ciao Matteo. Innanzitutto, mi viene da chiederti: com'è che hai deciso di fare il cantautore?
Avevo un lavoro come tecnico di teatro, poi mi sono successi un paio di concerti e ho provato. In seguito ho iniziato a suonare per strada.

Come mai questa scelta di suonare per strada?
La strada ti rende libero e non ti lega ad un discorso di dipendenza lavorativa.

Quali sono le tue influenze?
Bob Dylan prima di tutto. Sono attratto dai cantanti popolari. Questo è indice di un mio certo conformismo, sono suscettibile al mito del comandante, al capo popolo, la leggenda, e significa che provo anche simpatia per tutto ciò che è popolare, e dunque ambisco che le mie canzoni arrivino al cuore di ogni persona Mi piacciono Cabron de la Isla, Ruben Blades, Jean Louis Guerra, Vasco Rossi.

C'è molta musica latina anche nelle tue influenze.
Siamo colonizzati musicalmente dai paesi anglofoni. Noi siamo però molto più simili ad uno spagnolo che non ad un inglese, quindi ho citato questi cantanti perché me li sento più vicini al cuore. E poi preferisco il ritmo latino che non il rock and roll.

È una cosa dovuta a una tua ricerca questa presenza di teatralità e cabaret che contraddistingue i tuoi concerti?
È un demone che conosco fin dall'infanzia. Una forza che prende il mio carattere meditativo e perso fra le nuvole per trasformarlo in giullare. Non c'è una ricerca, ma una maschera che ho assunto e sviluppato fin dall'infanzia. Da piccolo ero così imbranato che lentamente ho posto attenzione ad ogni mio movimento, costruendomi una maschera che oggi è diventata parte di me.

Più che una ricerca, dunque, una terapia.
Sì. Però bisogna andare oltre le maschere. Uso la teatralità per comunicare meglio. Suonare mi ha insegnato un sacco di cose da un punto di vista psicologico. Credo si possa dire che io non faccia ne musica ne teatro, ma una via di mezzo, dove una cosa supplisce alla mancanza dell'altra.

Da poco hai iniziato a collaborare con una band.
Da un anno è partito il progetto Matteo Castellano e Provincia, band che ha trovato il suo equilibrio e un gruppo di lavoro. È passata attraverso mutamenti e ad essi è aperta. La formazione attuale è composta da Bozzi alla chitarra e arrangiamenti, Nicolò Bosio fisarmonica, sintetizzatore e fonica, Vito Micolis percussioni latine e Cajon, Giuseppe Leone percussioni del sud italia, Enzo (Forever) Mesiti al basso, Einrich Vogel arrangiamenti psicomagici e cibernetici.