lunedì 2 gennaio 2012
BODY ART di Don deLillo
“Il tempo sembra passare. Il mondo accade, gli attimi si svolgono, e tu ti fermi a guardare un ragno attaccato alla ragnatela. C'è una luce nitida, un senso di cose delineate con precisione, strisce di lucentezza liquida sulla baia. In una giornata chiara e luminosa dopo un temporale, quando la più piccola delle foglie cadute è trafitta di consapevolezza, tu sai con maggiore sicurezza chi sei. Nel rumore del vento tra i pini, il mondo viene alla luce, in modo irreversibile, e il ragno resta attaccato alla regnatela agitata dal vento.”
Trovo che Body art di Don de lillo si presenti come uno dei casi più interessanti e coinvolgenti all'interno del panorama narrativo contemporaneo (o in questo caso anche cosiddetto post-moderno). Un romanzo breve quanto intenso. Scritto con uno stile a tratti poetico, a tratti minuzioso, dettagliato, cinematografico, spigoloso, visionario.
La storia (dalla trama molto semplice) tratta di un lutto vissuto dalla protagonista, Hartke, una bodyartista, in seguito al suicidio del suo compagno, il regista Rey Robles, con le naturali conseguenze post-abbandono, vissute fin nel profondo delle viscere, fino ad arrivare a interagire con un'allucinazione che si muove dentro casa sua: un uomo deforme che parla in un linguaggio a tratti incomprensibile, dall'aspetto e i contorni vagamente irreali. Lo soprannomina Mr Tuttle, come un suo insegnante di scienze del liceo.
È come se Mr tuttle, fosse l'impersonificazione del suo lutto stesso.
La cura e l'attenzione sul corpo che la protagonista ripone nella sua arte, credo che rappresentino una vera metafora (fisica) dell'anima. C'è, in quel che narra de Lillo, una forte coincidenza fra il corpo e l'anima. È come se dal momento in cui Robles muore, una parte dell'anima di Hartke venisse amputata. Una parte della sua anima che era Robles stesso. Quindi a lei tocca ora confrontarsi con la sua mancanza, il suo vuoto, come se in realtà quell'amputazione fosse paradossalmente un completamento (fuor di cinismo).
Questo vuoto prende la forma di un personaggio. Dice: “essere qui mi è capitato. Io sono con il momento. Lascerò il momento. Sedia. Tavolo, corridoio, parete, tutto per il momento...” momento che si mostra a mio parere come l'identificazione di quel luogo dell'anima e del corpo cui lui stesso appartiene (più che proviene). È come se lui appartenesse a un qualcosa che pulsa in Hartke. Quella parte priva di identità, che si muove nello spazio-tempo, senza un fine, un progetto. Forse la parte più sacra. Quella parte che Deleuze avrebbe fatto abitare all'interno dell' Aion, al di fuori del tempo Cronos. Come se una volta venuta a mancare la protesi amorosa rappresentata da Robles, ella si trovasse a confrontarsi con lo stato di cose del suo corpo, in quella zona specifica. Forse la zona del cuore, o la zona dello stomaco. La mancanza fa traspirare in lei la visione della sua stessa condizione nel luogo corporale e dell'anima (quindi coincidenti).
È come se quell'allucinazione fosse una materializzazione visiva (o chissà) della sua stessa malattia. Il suo lutto. La sua condizione di incompletezza. Forse proprio perché Harke cerca di liberarsi del suo corpo, come se il processo in lei fosse quello di rendere sempre più minima la materia di cui è fatta. Come se quella condizione che lei vive, fosse un po' la sua stessa morte irrisolta. Un tentativo di sopire e di mettere a tacere un desiderio, un attaccamento. Come se in fondo la stessa esistenza di Robles, fosse parte della sua vita stessa, e ora non gli toccasse che diventare sempre più uno.
Un romanzo che spiega la inesorabile realtà della solitudine. Un romanzo sul solipsismo. Su quanto forse il fallimento di un amore (per qualsiasi ragione) spezzi una sorta di miracolo, obblighi di conseguenza gli uomini ad amare sé stessi. Tornare ad essere il proprio completamento. Come se in fondo liberarsi dal proprio corpo, non significhi nient'altro che completarsi, come non poggiare più su alcunché.
Luca Atzori
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