mercoledì 10 novembre 2010

UNA PARENTESI SULL'ARTE CONTEMPORANEA

L'arte contemporanea (oggi) porta in sé il difetto della sua stessa presunta contemporaneità, perché tutto quel che riesce a dimostrare è di essere un esempio perfetto di anacronismo. Le varie biennali di Venezia, insieme agli innumerevoli eventi che ruotano intorno alle novità dell'arte, sono esempio di un'ipertrofia di linguaggi, che nonostante l'accelerazione, la sofisticazione, la presunta complessità tematica che vogliono trattare, trasmettono sempre lo stesso medesimo vuoto, e offrono conferma della staticità globale nella quale risiedono.
Da diversi anni vediamo vagare nell'aria i nomi di Cattelan, Koons, Pistoletto, Abramovic, etc.
Uno appende i bambini impiccati agli alberi, o si presenta alla tesi di laurea vestito da asino, un altro fa palloncini a forma di cuore o ingaggia pornostar da usare come suppellettile, l'altro ancora spezza gli specchi, e l'altra passa ore a muoversi intorno a se stessa fino a stancarsi.
Quel che mi domando io è: che cosa hanno da comunicarci questi signori?
Prima di rispondere a questa domanda retorica (perché la risposta è “niente”) vorrei fare un piccolo quadro di quelle che sono state le avanguardie e quale il loro ruolo.
Nel novecento ci sono stati diversi movimenti artistici ( facenti parte appunto di quelle che vengono comunemente indicate come avanguardie storiche) che avevano come interesse principale quello di comunicare i loro contenuti attraverso la forma della loro espressione, facendo quindi una ricerca di stampo tecnico o espressivo, appunto. L'apice di questa ricerca, si può dire sia stato toccato da Duchamps, che con la sua opera “La Mariée mise à nu par ses célibataires, mêm “ ha inaugurato quella che è la fase concettuale dell'arte.
Il punto è che più avanti, i cosiddetti post-duchampiani (che meglio sarebbe definire post dushampisti) si sono rivelati eredi solo più della fuffa dadaista (che era allora mossa da una sincera esigenza di negazione) e non hanno considerato che per essere artisti bisogna possedere anche uno Spirito, e non solo la furberia, o la pretesa di un vago discorso sull'arte (oggi oltremodo inutile, oltre che niente affatto interessante).
Così vediamo tante opere, spesso noiose, e ammaliati dalla presunta serietà di queste ci facciamo catturare e per ciò stesso divorare.
Qual è il problema fondamentale in tutto ciò? Io ritengo che oggi nell'arte manchi totalmente qualsiasi interesse rivolto verso il contenuto vero e proprio, e ci si rivolga solo più alla forma, relegati ancora alla centralità dell' aspetto estetico, glaciale al punto che il gelo va a trasferirsi nelle esistenze stesse dei fruitori medesimi (collezionisti di giocattoli), affetti da una certa non so quale frigidità spirituale, dove l'occhio viene attirato da dettagli inutili, senza che qualcosa venga effettivamente detto.

L'arte oggi parla solo dell'arte, cioè del nulla.

Qualcuno sostiene che non ci sia nulla da comunicare. Chiaro, questo è l'attuale stato di cose nell'era cosiddetta postmoderna, perché ci tocca vivere in un mondo che intende dire anzi addio alla comunicazione, e da il benvenuto alla crescente ipertrofia di informazioni mettendo il tappetino pronto per la passeggiata del panico generalizzato.
Ma quello che al massimo si può guadagnare visitando una bella mostra, è (se si è fortunati) un' emozioncina, magari positiva, magari negativa, ma rigorosamente vuota, anzi quasi determinante a una presa di coscienza fine a se stessa, immobilizzante.
Gli artisti o sono interessati a vendere e quindi pronti a trovare sempre nuovi metodi per stupire, scandalizzare, investendo quei soldi che avevano guadagnato nella mostra precedente (sostanzialmente paragonabili a normalissimi imprenditori) oppure ti vengono a dire che lo fanno per passione, e magari si accontentano di poco, accettano di farlo come secondo lavoro, trovano un temino da affrontare e sviluppare e vanno avanti così fino a che non si stancano, perché “ero artista perché è bello, perché si scopa”.
Il punto è che si è giunti a questo, perché oggi pare essere diventato puerile indicare l'arte come un mestiere.
Forse in realtà da sempre la maggior parte dell' arte è stata solo spazzatura, gli artisti cortigiani, e va bene, nulla è cambiato.
Però proprio oggi che l'arte è così diffusa, è ancora più lampante l'aspettativa primaria che riponiamo in essa, e non pretendiamo chissà quale miracolo: ci aspettiamo banalmente che essa ci dica qualcosa.
Il punto è che solo chi ha veramente qualcosa da dire, può permettersi di farlo. Chi decide se una persona possa dire o meno qualcosa?
L' urgenza. Che poi si serva di tutti i mezzi che vuole (e detto francamente può anche arrivare a soluzioni raffazzonate).
Invece siamo alle solite, il solito deserto.
Bisognerà capire che finché nel mondo dell'arte si andrà avanti con questa gara a chi ottiene il primato dell'arricchito fannullone, al di là del guadagno economico e una simpatica pacca sulle spalle non si otterrà di certo nient'altro.
È necessario mettere lo Spirito al di sopra dell'economia e del cieco piano materiale sul quale si muovono questi mercenari votati alla idolatria del nulla.
Abbiamo bisogno che qualcuno ci dica qualcosa. Non è necessario oggi sovraccaricarsi di nozioni, spesso solo deleterie, ma piuttosto bisogna muoversi nel mondo con l'attenzione che si avrebbe restando in equilibrio sopra una zattera, alla ricerca di una voce che muova un grido che si distingua fra quello dei canti innumerevoli di queste migliaia di sirene.
Non abbiamo più bisogno di allucinazioni, chiediamo realtà.

Luca Atzori

giovedì 4 novembre 2010

DOLLS





L'opera al nero di Tania Bocchino


di Luca Atzori

L'opera al nero apre una serie di mostre fotografiche (su tela) che porteranno nell'insieme il nome di dolls.
L'artista è Tania Bocchino, vive nel canavese ed è mossa dall'esigenza di conoscere quell'universo a tratti ineffabile che è quello del corpo. Forse in lei è accentuato l'interesse a causa di un disagio motorio (che non si presenta certo come un ostacolo per le sensazioni).
Il corpo occupa per Tania un posto liminare fra il mondo interno e quello esterno, e per questo è forse il principale strumento di conoscenza. Ogni esperienza deriva da quelle sensazioni che sono raccolte sulla nostra pelle, nelle nostre viscere. L'esperienza che è senza dubbio l'origine, e non il fine.
Da ciò deriva il titolo della prima serie di opere, le quali si richiamano alla prima fase del processo alchemico conosciuta anche come nigredo, ovvero quella fase dove per la creazione di una sostanza perfetta si inizia dalla materia grezza, il piombo che diventa oro, .

Tutta la storia dell'arte è costellata dal tema della religione.
L'arte è sempre stata ricettacolo di tutta la simbologia sacra, che è poi la sede significante più immediata e diretta al nostro inconscio.
Quello che Tania si propone di illustrare è il parallelismo fra la vita di Cristo e quella di ogni uomo. O meglio si potrebbe pensare a quanto in ciascuno di noi ci sia la potenzialità di una semidivinità.
Questa serie di tele la si potrebbe intendere, più precisamente, come una narrazione di quel mito gnostico che è quello del Cristo Sophia.
Sophia è una figura che compare anche nell'antico testamento (salmi, libro dei profeti) l'apocrifo Saggezza di Salomone. Nel cristianesimo è diventata la parte femminile di Cristo (e non a caso messa in secondo piano).
Il tema attorno cui ruota l'arte di Tania è propriamente quello del femminino sacro.
La serie dell'opera al nero inizia infatti con un'opera intitolata Kosmokrator che sta a indicare l'utero femminile, afferrato da Tania in seguito ad una considerazione di matrice gnostica, che considerava la Natura come mera identificazione della Donna. L'utero della natura è appunto quel “kosmokrator” generatore di cosmo. Da qui la rappresentazione del corpo femminile come immagine microcosmica del tutto.



Così come in Eucarestia, Memoria di me e INRI, o Deposizione, Compianto, dove quella che viene rappresentata è proprio la passione di Cristo, quindi il momento della morte, e successivamente l'inizio della putrefazione, dove vengono rappresentati però solo ed esclusivamente soggetti femminili.





La figura di Cristo che viene messa in mostra è evidentemente di derivazione pagana. Anzi qui Tania vuole mostrarci in particolar modo quanto di pagano ci sia in tutte quelle azioni, cerimonie, icone, credenze con le quali la maggior parte di noi è cresciuto.
A differenza della comune concezione cattolica, il corpo viene pensato come veicolo di liberazione e non come mera prigione. Forse potremmo addirittura considerare che sia l'anima stessa la prigione del corpo e non viceversa, e anche perché quella che andiamo ricercando (a partire dalla prima fase dell'opera al nero) è proprio l'unificazione con l'universo, la totale unità fra l'alto e il basso (quod est inferius est sicut quod est superior). L'anima è in fondo tutto il nostro campo visivo, comprendente per ciò stesso il nostro tessuto simbolico dentro il quale siamo rinchiusi, e dal quale ci dovremmo liberare (e per questo Cristo viene visto come un esempio).



Tania Bocchino è un'attenta lettrice di Camille Paglia, scrittrice americana la quale ha considerato nel suo saggio Sexual personae (C. Paglia, Sexual Personae: The Androgyne in Literature and Art, tesi di dottorato, 1974) la figura della donna come sancta sanctorium della Natura, (nel caso dell'uomo, invece, della Cultura). Non si tratta ovviamente di semplice femminismo a buon mercato, ma piuttosto di una forma di femminismo così come di maschilismo che potrebbero definirsi ante litteram, dove ciascuno coglie il proprio ruolo e il proprio posto.
Ma come in un caleidoscopio, dentro l'opera di Tania possono essere scovate diverse chiavi di lettura. Quella più immediata è, forse, la più importante ed è quella concernente l'erotismo, come realtà del desiderio, ma soprattutto delle dinamiche universali stesse. L'uomo che con la sua ragione vorrebbe mettere ordine nel caos femminile. E l'amore, come un ritorno nel grembo originario, come ritorno al calore, all'origine, alla protezione.
Sarà forse anche per questo che Bataille avrebbe detto che “l'erotismo è l'approvazione della vita fin dentro la morte”.
(G. Bataille, L'erostismo, 1957).

martedì 2 novembre 2010

NON NOMINATE IL TIRANNO INVANO

Noto con particolare sgomento, che da un po' di tempo a questa parte, non si fa altro che tirar fuori uno scandalo diverso al giorno, dove puntualmente vi è implicato quel curioso personaggio che è il nostro premier.
Si tratta perlopiù di faccende che hanno a che fare con la prostituzione, con battute di cattivo gusto, con le risposte molto imbarazzanti che offre in dono a chi gli pone domande molto serie, insomma per ridurla all'osso, le ormai innumerevoli provocazioni.
Mi riferisco alle stesse che sono riuscite a diventare l'unica piattaforma di discussione in mano all' opposizione, la quale argomenta il tutto con un linguaggio goffamente serio, formale, indignato, e che ambirebbe a sensibilizzare sulla gravità delle affermazioni, del personaggio, delle sue azioni.
Il punto è che gli scandali non hanno fine, e hanno reso il cavaliere un fiero collezionista di contraddizioni, dissolutezze, libertinaggi degni di quelli raccontati in qualche scena di Pasolini.
Ma l'arma del moralismo non aiuta a risolvere un bel niente. Anzi, non è di certo andando a scomodare quegli scheletri negli armadi (che come vuole dimostrare non la politica ma la vita, ciascuno in fondo possiede, e che quindi diventano armi a doppio taglio).
Ciò che dovrebbe mettere più paura è il potere che questo signore concede a se stesso di raccontare freddure e passare da una nottata di gang bang a una giornata al family day.

Ma bisognerebbe andare oltre la paura stessa, e porsi nuove questioni:
Che cosa abbiamo noi fra le mani?
Che cosa possiamo proporre di nuovo? Abbiamo un programma in mente? Abbiamo un'idea chiara di quali siano i problemi che ci troviamo addosso in quanto italiani?
A ben pensarci non ci stiamo rendendo forse lontanamente conto di quanto si stia effettivamente svuotando tutta la nostra “immaginazione” di oppositori . Siamo vampirizzati da un personaggio politico (principalmente televisivo) che occupa quello spazio dove dovrebbero teoricamente muoversi i nostri argomenti, le nostre proposte, le nostre possibili risposte, nonché la nostra identità stessa.

Ritengo che oggigiorno il problema più importante stia proprio nell'opposizione, che non lavora affatto su se stessa, perché impigrita dal nemico, forse mossa dalla speranza segreta di occupare un giorno quel trono, senza domandarsi se gli italiani abbiano bisogno di nuovi monarchi, o abbiano bisogno piuttosto di risolvere i propri disagi (sempre più numerosi oltre che gravosi).
Bisognerà forse smettere una buona volta di occuparsi di faccende a metà fra il machiavellico e il disneyano, e iniziare a ragionare su quali siano i nostri propositi, quali le nostre esigenze, quali i nostri progetti, e creare una forma di governo alternativa dove attualmente è possibile trovare solo il deserto.
Rafforzare la sinistra, la destra? Ancorarsi a, e identificarsi con un passato che ci fa precipitare fra le pagine dei libri di storia?
Inutile dire che dietro a questo c'è evidentemente una tattica (consapevole o no, non importa) operata al fine di portare il sovrano a diventare l'unico argomento politico possibile, facendo semplicemente perdere tempo a quella parte della popolazione affascinata dal proprio rancore. Siamo ricaduti in quella malattia che rende tutto tristemente statico e autoreferenziale, dove si procede solo più per strategie.
Tutta la politica è oggi strategica, e serve a definire l'aspetto di sé stessa, mostrandosi solo più nella sua forma della rappresentanza.
Protestare contro le riforme scolastiche, contro la disoccupazione, contro la svalutazione della cultura, etc non basta più, a quanto pare. Bisogna districarsi da questo atteggiamento mirato solo ed esclusivamente alla distruzione dell'altra parte, o mossa dalla speranza di un ascolto impossibile. Qualora noi ci trovassimo davanti alla caduta di questo governo, avremmo qualcosa di pronto da proporre? Sapremmo muoverci nel vuoto?
Forse quando i problemi sono seri è più facile occuparsi solo ed esclusivamente del nemico, piuttosto che cercare soluzioni concrete. Forse non ci rendiamo conto che la nostra difficoltà è data da un problema essenziale: quella poca libertà che ancora ci resta, e che non sappiamo come utilizzare. Perché occuparsi dei problemi senza avere la comodità di un handicap come quello conferitoci dalla figura di uno spiritoso criminale al governo, è cosa ben difficile, perché a quel punto la responsabilità sarà solo nostra.
È meglio affrettarsi, e lasciar perdere per un attimo quel noioso argomento di cui sentiamo parlare ogni giorno. Adesso che tutti noi conosciamo bene il volto della nostra rabbia, non ci resta che renderla costruttiva, o fra poco saremo tutti sudditi incatenati alla nostra stessa inettitudine.

Luca Atzori