lunedì 27 dicembre 2010

QUINTO DISCORSO DELL'ANTIUMANESIMO - L'INFANZIA

“Un azzurro momento è puramente anima” Georg Trakl – Infanzia



Ogni infanzia è infelice.
Ogni infanzia umana che si “ricordi” è il periodo più infelice nella vita di ciascuno.
Proprio quando la vita inizia, i desideri sono puri e incorrotti, e non c'è punto d'appoggio, né vi è necessità.
Volontà di potenza.
Piuttosto l'abbraccio protettivo della madre, di quello si può parlare, del calore, che già di per sé è souvenir di quell' origine dell'amore che si andrà a ricercare per il resto della vita.
Nel Vangelo si legge che solo un bambino può entrare nel regno dei cieli. Questo perché la volontà infantile è interamente divina. La sostanza del bambino è più affine a quella divina, che Spinoza insegna essere in sé e concepita per sé.
Il bambino ha la saggezza della sua innocenza, l'unica che si debba ricercare.
La coscienza serve a dimenticare, perciò a ricordare.
Nell'infanzia, dove le emozioni sono più intense, proprio perché non è possibile chiudere gli occhi davanti a nessuna di esse, c'è la più pura sofferenza, ed è quella che la felice calma della vita adulta ci getta addosso, quel mangime amaro che porta il nome Civiltà.
Uno sbarramento fra le due potenze coercitive della famiglia e l'esistenza civile.
Il bambino è l'essere umano che più patisce il destino sociale, proprio perché questo incombe su di lui, cercando di racchiuderlo in sé, vestendolo della propria malattia, gettandolo nella putrefazione localizzata.
Ma l'infanzia non può essere abolita, poiché il tempo abbraccia tutto, e sulla nostra pelle riposano tutti gli attimi, legati geometricamente fra un quando e l'altro.
La pace che andiamo a ricercare è un ricordo prenatale.
Mentre l'educazione comporta un acquietamento necessario alla conduzione dell'esistenza civile, che concentra l'attenzione sulla sfera razionale.
E' quando noi soffriamo, il dolore che vediamo riemergere è quello dell'infante.
L'infante piange.
Nessuno ricorda l'infanzia proprio perché è un periodo che la memoria non consente di conservare, per stessa natura e finalità del rammentare stesso.
Nessuno se lo ricorda perché è stato un periodo troppo infelice. Quello in cui abbiamo preteso con maggior forza la nostra felicità stessa.
Il periodo in cui eravamo (già) pronti ad apprendere la gioia dinnanzi alla morte.

Appello agli psicoanalisti: non si deve rammentare l' infanzia, ma piuttosto tornare bambini e fare i conti con la nostra fatale infelicità.

Luca Atzori

mercoledì 15 dicembre 2010

EUROPA: LA NUOVA BISANZIO

“L'Europa è oggi un simulacro economico senza identità culturale”.
Stefano Zecchi

Oggi sentiamo incombere, sopra di noi, la nube di un dovere che diventa a tratti opprimente e privo di vera motivazione, quello di diventare finalmente europei.
Un dovere imposto, e dal quale è difficile districarsi, se non con una forma di silenziosa rivolta, anche se ahimé, spesso vestita di grigia disillusione.
Che cosa significa essere europei?
Significa far parte di una realtà continentale dominata dalla tecnica, dalla religiosità economica e l'idea (sempre più anacronistica e mistificata) di un qualche sempre prossimo (nonché eternamente presente) progresso.
Tutto quel che troviamo fra le nostre mani è la possibilità di far parte, essere compresi, in una realtà di cui, non a torto, Horkheimer avrebbe profetizzato la totale amministrazione.
Ci muoviamo progressivamente verso una vita immaginata, supposta. Abbiamo trovato alloggio nel possibile, e in esso ci siamo fermati.
Dimentichiamo con inerte rigore, che ogni forma di possibilità ha un senso esistenziale legato all'opportunità, alla costruzione di una meta. Certo, come può essere pensabile una forma di “senso” proprio là dove non vi è che l'accettazione di un non-senso generalizzato?
A questa domanda risponde molto acutamente Jean Luc Nancy, ne “L'essere singolare plurale”, dicendo che il non-senso stesso pone paradossalmente la messa in questione del senso.
La natura del senso è già di per sé discutibile e può porsi come oggetto di attenzione teoretica, ma non può effettivamente essere pensata come un qualcosa di “andato perso”. Sarebbe assurdo, un evidente peccato fideistico.
Lo stesso credere che qualcosa sia andato perso presenta in sé la traccia di una comoda ingenuità, una profonda pigrizia di cui tutti noi europei siamo ammalati gravemente.
L'unica questione che potremmo porre è di natura assiologica.
Se non abbiamo perso effettivamente nulla, che cosa vediamo venir meno?
Certamente, oggi, il valore che vediamo diventare superfluo è quello legato all'Esperienza umana.
Intendiamoci, per esperienza si intende quella sfera che comprende in sé tutti quegli ambiti esistenziali, volti al raggiungimento di qualsivoglia forma di Conoscenza.
Nelle forme di società tradizionali, è l'uomo e non il guadagno economico, ad essere il fine.
Quando ci si avvicina all'espressione “Uomo” si va a toccare un tasto altrettanto dolente.
Non viene intesa qui nella comune accezione che può essere ritenuta da molti come assodata, cioè quella legata ai cosiddetti diritti che un certo “Umanesimo” avrebbe voluto farci credere di aver conquistato. Qui si intende l'uomo nella sua conformazione più strettamente spirituale, come figura esistenziale diretta unicamente verso il miglioramento di sé e volto alla Conoscenza.
Ma come è possibile pensare a una Conoscenza che sia priva della sua sorgente esperienziale?
Ci illudiamo che sia possibile oggi, proprio perché vediamo l'informazione avere la precedenza su qualsiasi esito conoscitivo.
L'informazione, per sua stessa natura, viene vissuta passivamente, viene assorbita, è imposta.
Non c'è nessuno sforzo umano dietro all'incontro di essa. E' sempre un dato che noi accettiamo e verso il quale abbiamo come possibile esito la critica, ma nient'altro.
Noi esperiamo l'informazione, come unica realtà possibile, come negatrice dell' autentica Esperienza.
Così l'informazione si è affermata nell'era del cosiddetto relativismo, dove ogni forma di Identità culturale si vede cadere a precipizio nel cestino dove riposano tutte le altre vecchie chimere.
Il punto è che l'Europa stessa è una chimera, ma priva di ali.
Ha un aspetto che ricorda il ghiaccio, e brilla di un freddo immobilismo; ricoperta di migliaia di insegne luminose che sono gli abbagli che essa manda a sé stessa, illusa di essere viva.
Questo siamo noi oggi: uomini senza esperienza e senza conoscenza. Privati del nostro senso spirituale. Malati di un laicismo corrosivo che ci ha fatto inchinare dinnanzi al Dio Mercato.

La religiosità dogmatica del cattolicesimo che tanto viene biasimata dalla giovane Europa, non è affatto dissimile da quello che essa stessa è diventata. Presenta le stesse identiche caratteristiche, gli stessi difetti. Forse ci si potrebbe azzardare a pensare la realtà cattolica come migliore, perché più vicina all'Umano, alla sua esigenza di Spirito.

Fino a che porremo su un secondo piano il valore dell'individuo (autenticamente inteso, e non frainteso) e considereremo lo spirito solo come un ricordo romantico e ad essi sovrapporremo l'economia (subordinando ad essa la politica intesa nel senso più tradizionale del termine), ci vedremo muovere in un mondo sempre più barbaro, legato a esigenze materiali dirette verso la dissoluzione più totale della nostra stessa cultura.

Eccoci svelato il Kali Yuga.

L'angoscia è una condizione umana che richiede rispetto oggi più che mai, proprio perché è una spinta, un'arma che conserviamo.

Non intendo qui giungere a esiti moralistici, ma al contrario di portare l'attenzione verso l'importanza che la morale (cosa ben differente) può avere per noi oggi, dove ciascun uomo ponga il proprio stare al mondo come opportunità di una ricerca e non come l' accoglimento di norme che non gli appartengano.

La nostra Europa, malata di angoscia, si addormenterà ingerendo il suo ultimo farmaco.
Noi ci muoveremo su questa Nuova Bisanzio alla ricerca del nostro respiro.


Luca Atzori