martedì 9 febbraio 2010
LA VERTIGINE
Il progetto fotografico di Federico Clavarino porta il titolo “Vertigine”, ed è composto da quindici immagini in bianco e nero, modulate attorno a figure di costruzioni urbane, paesaggi, figure umane e animali.
La tematica in questione viene innanzitutto evocata dai contrasti di colore che mettono a segno i minuscoli particolari che possono scorgersi ad esempio in un vestito di donna composto da zigrinature precise e dai contorni quasi indipendenti e separati, oppure nella costruzione composta di cinque archi in cui ogni minimo mattoncino appaia contrastato dall'ombra intorno...
o le dune di un deserto, l'erba di un prato accanto il quale si vede una schiena umana, uno stormo di uccelli nel cielo visti dal basso, che quasi sembrino formare una figura intenta a precipitare: tutte immagini che provocano una sensazione immediata di tenue giramento di testa.
Testa che gira perché non appena situata davanti alla pura contemplazione estetica si trova privata di progetti, soggetto, e invasa piuttosto da uno sciame di essenze disparate, prive di effettiva collocazione.
La sensazione di vertigine è propria dell'abbandonato in senso assoluto, cioè dell'uomo allo stadio pre-riflessivo, tormentato da un' angoscia inutile, come quella dei matti.
Sartre sosteneva che non compiere una scelta fosse cosa impossibile, perché dal momento in cui non si sceglie, si sta comunque effettuando una scelta: quella di non scegliere.
Ed è così che si arriva a toccare una sorta di implosione, un inesorabile quietismo, un'inazione mistica, la più totale minaccia della follia, collocati nella più effettiva condizione di “ricostruzione” di senso.
La vertigine può essere definita molto semplicemente come la paura di buttarsi nel vuoto. Essa è quella condizione in cui ci si ritrovi definitivamente privi di una propria volontà, e per ciò stesso privi di intenzione, incapaci di dare un vero senso alle cose. Quando queste si ritrovano ad essere prive del loro “motivo”, avviene che ce le si ritrovi davanti e che non si sappia nemmeno più che farsene...
Proprio la foto in cui vengono rappresentati i cinque archi visti l'uno dentro l'altro, richiama alla mente un racconto di Kafka dove un uomo di campagna trovatosi davanti alla Porta della Legge, incontra un guardiano che gli impedisce di entrare, trasferendogli la paura che oltre la prima porta se ne possa trovare solo un'ulteriore, esattamente uguale alla prima, dove incontrare un guardiano più potente del primo e così via, costringendolo così ad attendere fino alla fine della sua esistenza, momento nel quale gli sarà rivelato che quell'ingresso era riservato solo a lui.
Viene da pensare a tale proposito al Sisifo di cui parlava Camus, che porta eternamente il suo macigno perché si è fatto responsabile di un'illusione necessaria, così che l'atto di lanciare giù il macigno significherebbe rinunciare al tempo, ritrovarsi nell'eternità della totale mancanza (di senno come di progettazione).
Lo stesso vale per la nausea che prova Anton de Roquentin davanti al “di troppo” delle cose che incontra nel suo cammino esistenziale. Una serie di oggetti, persone, situazioni che attendono solo che gli venga conferito un senso, senza che nessuno abbia obbligato nessuno a farlo... senza che un Dio sia pronto a punirci nel caso in cui facessimo il contrario.
Follia come incapacità di senso, come fuga, timore di compiere una scelta, così come di essere scelti... paura della propria inesorabile volontà, paura di non essere più in sé... in poche parole: vertigine.
La cosa che ritengo essere più straordinaria nell'opera di Clavarino è il modo in cui riesce a comunicare quel senso profondo di calore e gelo che si incontrano contemporaneamente.
Le ombre, l'opacità, la pienezza delle cose che vengono rappresentate, sono segnali di esistenza, gli occhi dell'artista che vede. Poi c'è il resto... e sono i tanti particolari disparati, sottilissimi, segnati da contorni esiziali, comunicanti uno strano senso di liberazione, come l'incantesimo arcano di una strega celata.
Proprio a tale proposito viene in mente il famoso canto dell' Odissea, il dodicesimo: l' emblema della vertigine. Ulisse che si fa legare dai marinai a cui tappa le orecchie perché non ascoltino il canto delle sirene, le quali attirano a sé chiunque le ascolti portandoli a scontrarsi contro gli scogli.
Ecco, Federico Clavarino, proprio come Ulisse, non rinuncia all'incanto di quelle voci... così resta a contemplarle nella consapevolezza inesorabile della propria esistenza, concedendosi l' illusione piacevole del raggiungimento di quelle immotivate essenze, alle quali abbandonarsi equivale a scivolare giù verso quel pavimento ineffabile che alcuni (a torto, o più forse ingenuamente) considerano essere il Nulla.
Luca Atzori
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