sabato 15 gennaio 2011

FENOMENOLOGIA DEL TAMARRO

Per quanto tracciare una fenomenologia della figura che mi propongo qui, sia antitetico con le intenzioni per le quali l'argomento stesso viene proposto, ritengo sia necessario porre chiarezza sull'idea di “tamarro”.
La fenomenologia, in questo caso, potrebbe fornirci un dato utile a ricerche di carattere gnoseologico, insufficienti, evidentemente, ma necessarie per andare oltre l'idea stessa e poter rendere possibile un'argomentazione che riesca a rendere almeno chiaro il problema.
La prima domanda da porsi, infatti, è questa: Chi è il tamarro?
Tutti siamo abituati a visualizzarne la figura, anche se a mio parere in essa si rappresenta una delle realtà sociali più vaghe.
L'elemento che maggiormente caratterizza il tamarro è quello legato alla violenza, come “vizio/virtù”. L'unico linguaggio che questi soggetti riescono a utilizzare è quello vicino alla gestualità propria dell' avversione fisica, arma per mostrarsi all'esterno.
La poca famigliarità con il linguaggio verbale è strettamente legata con l' energia fisica, unico segno da spettacolarizzare con disinvoltura de-pensante.
Ma questo semianalfabetismo è in realtà (anche se inconsapevolmente) voluto. Quel che il tamarro difende è la propria rabbia; egli mostra infatti un certo rifiuto a imparare la lingua che gli viene imposta a scuola, sin dalle primarie.
Addirittura, in alcune realtà scolastiche, i tamarri portano rispetto per il “ripetente”.
Questo deriva evidentemente da un certo rapporto affettivo con le proprie famiglie, dove si respira lo sfruttamento, la rabbia dell'oppresso, la fatica ad arrivare a fine mese, la povertà non solo economica ma anche spirituale/culturale, dove la sensibilità non ha possibilità di essere educata come avviene nelle classi più agiate.
Non si vuole qui intendere che vi siano classi che garantiscano un'educazione superiore. Piuttosto, l'educazione che subisce il tamarro proviene comunque dall'alto, ed è pre-cognizzata proprio perché questi, le parti del gregge, possano adempiere ai propri compiti. Il tamarro rispecchia spesso la normalità, intesa come idea sufficiente a garantire l'esercizio del lavoro e dello svago entro un certo rango prestabilito, che costituisca una realtà di massa e per ciò stesso consensuale.

Esiste un destino sociale che vuole che il tamarro sia ignorante, stupido, violento e furbo.
Michael Foucault spiegò il concetto di biopolitica: sistema di controllo che il potere esercita sui corpi, decidendo sulle loro stesse sorti sociali a partire dalle posture a cui questi stessi vengono costretti sul lavoro, a casa etc. Le case popolari possono raramente produrre persone che si comportino come chi vive nella collina.
Il tamarro è spesso una persona oltremodo spensierata, non propriamente pervasa da problemi esistenziali se non di ordine materiale, legati a questioni di sopravvivenza. Non si pone domande perché ne ha altre da porsi, e sono evidentemente di vitale e più stretta importanza..
Per questo il tamarro è normale, o più precisamente è scontato per egli essere tale.
Questa sua spensieratezza è contraddistinta dal suo abbigliamento, spesso sportivo, comodo, o anche spesso composto di abiti stretti che evidenziano la fisicità ben curata (valore di natura bellica, dove il militare deve avere appunto molta resistenza e forza, e sufficiente ma non troppo cervello). Il tamarro non vive però un rapporto stretto con la propria sfera corporea, nonostante ciò possa sembrare. Egli assume alcuni determinati gesti e li ripete, scimmiottando un codice che determina la rispettabilità del medesimo e dunque la sua stessa vita in società. Dentro la realtà fisica di un tale individuo, è presente l'archivio di tanta rabbia sociale, di natura secolare.
Il punto è che a questa rabbia non è permesso di verbalizzarsi, se non con un'espressione diretta di questa che possa manifestarsi attraverso l'aggressione fisica o verbale ridotta in parole dai contenuti volgari, e con disposizione di un assai parco lessico.
Si sa poi che la proprietà di linguaggio costruisce la realtà identitaria di ogni singolo.
La cattiveria del tamarro è autentica proprio per l'etimo (captivitas – prigione) poiché egli è lo schiavo.
Il luogo costruito apposta per il divertimento del tamarro è la discoteca, dove egli esercita se stesso in guerre fra maschi intorno alla ricerca di donne con cui sfogare bisogni sessuali, anche se spesso il cattolico decoro è più presente che nei locali frequentati dagli altri appartenenti ad altre fasce sociali. La musica è ripetitiva, va a stimolare le parti più basse del corpo, in maniera che questi vengano spinti a seguire i propri istinti più animali a discapito di quelli più spiritualmente elevati. La discoteca è il culmine dell'educazione e per ciò stesso della manipolazione biopolitica esercitata sui ragazzi, costretti a muoversi in una determinata maniera rispettando il rigore e la disciplina del fantasma fascista che li ammaestra.
Al tamarro non è concesso di comunicare verbalmente con individui delle altre classi sociali. È come se ci fosse un'incomunicabilità dovuta a un'inesorabile separatezza, addirittura un evidente parallelismo. Qualora il tamarro volesse comunicare con il figlio di un professore universitario, dovrebbe imparare il suo linguaggio, e dunque rinunciare al proprio.
Il punto è che la rabbia del tamarro è inesprimibile, se non attraverso una rivolta cosciente che provenga da egli stesso. Tutte le rivoluzioni sono state teorizzate da classi che non erano quelle più subalterne. In mezzo al gregge dei tamarri, esistono certamente persone a cui il destino abbia segnato la fortuna di poter desiderare di districarsi dalla propria fatale posizione (senza per questo dover invidiare le altre a lui “superiori”). Il desiderio è però soffocato, e a ciò pensa la realtà anti-iniziatica dell'era dei consumi, dove l'estensione della società è il suo stesso ritratto (vedere “la società dello spettacolo” di Guy Debord).
Eppure qualora lo studente medio, o anche l'intellettuale, che vogliano definire se stessi come difensori delle classi oppresse, incontrino il tamarro, hanno sempre una reazione mista di disgusto e paura. La paura deriva dalla consapevolezza che il tamarro conosce la vita molto meglio di quanto non possano fare essi stessi (oltre che da questioni intimamente animali), e il disgusto è conseguenza di quell'educazione che intende stagliare ciascuna parte della realtà sociale al proprio posto, rendendo possibile le varie teorizzazioni che per una certa necessità umanistica rimandano sempre a un mondo prossimo e migliore, e per ciò stesso astratto, moderato, irrisolto.
Ciò che nel tamarro deve provocare disgusto è l' abito stesso che egli indossa (sia in senso metaforico che non).
Ma già la stessa rabbia che questi porta presso di sé è segno di una urgenza sociale che intende non identificarsi (perché il tamarro non segue una moda specifica, egli è parte della corrente) ma mettere in mostra la propria stessa verità, come testimonianza di quella che è la vita per chi vive nella periferia o in realtà comunque emarginate, dove l'unica cosa che dovrebbe suscitarsi non è lo schifo o il senso di superiorità, ma lo scandalo di vite depotenziate perché questo è necessario a vivere nel mondo corrotto nel quale poggiamo i nostri culi.

Luca Atzori